INTERVISTA – “A cavallo del vento”: Sonya Orfalian racconta la cultura immaginifica del suo popolo

Nata in Libia, Sonya Orfalian ha trascorso la sua infanzia come rifugiata. All’età di 11 anni, dopo il colpo di Stato di Gheddafi, è riuscita a trovare asilo a Roma, dove tuttora vive e coltiva la sua passione più grande: la ricerca della propria origine e della cultura armena, in tutti suoi aspetti, dalla cucina sino alla scrittura. E’ considerata un’artista poliedrica: scrittrice, giornalista radiofonica e televisiva, traduttrice. A cavallo del vento è uno dei suoi ultimi lavori. Una raccolta di alcune tra le più belle fiabe armene, in cui si narrano vicende di coraggio e astuzia cui viene sottoposto l’eroe protagonista. Un progetto, quello di Sonya Orfalian, che abbraccia una gamma tematica vasta ed intrigante e che lei stessa ci racconta in un’intervista.

Partendo dalle sue origini, che valore ha assunto in passato e assume al giorno d’oggi il termine “testimonianza”?

La parola testimonianza appartiene alla mia vita quotidiana, sin da quando ero piccola. Per un popolo in diaspora e senza più terra come quello armeno, testimoniare quello che è stato il genocidio e non dimenticare tutto ciò che appartiene alla cultura armena, usi, costumi, lingua e cucina, è un compito a cui si tiene in maniera particolare.

La genesi della formazione di una fiaba può essere simile a quello di un testo cantautorale?

Assolutamente sì. Nella tradizione armena possiamo ricordare gli ashugh, rapsodi erranti che nel momento in cui l’Armenia era una terra indipendente e libera, quindi ancor prima del genocidio del 1915, girovagavano di villaggio in villaggio cantando le storie favolose di re, fanciulli e fanciulle, parlando di amore e di temi sociali. Anche Musicultura è un posto magico. Mi è sembrato da subito un’ottima occasione la presentazione di un libro di fiabe armene con l’obiettivo di far scoprire storie incantevoli di un’antica tradizione che pochi conoscono. Inoltre, mi è parsa una buona idea quella di essere accompagnata nella lettura delle fiabe da Aram Ipekdjian e dal suo duduk, strumento tradizionale dell’Armenia, dal suono malinconico che conserva una gran parte dello spirito armeno.

Qual è il peso sociale di una fiaba armena, in termini di potenziale?

La fiaba è apprendimento di tutti gli elementi che compongono una cultura. Il mondo fiabesco si svolge nell’al di là e comincia con la formula “C’era e non c’era una volta”. L’uditorio viene sospinto e si percepisce un tempo che non scorre e che non si palesa come quotidiano.Si tratta, dunque, del tempo del mondo fatato: i cavalli parlano, lanciano fuoco, gli animali e la natura hanno una loro umanità.

La fiaba rappresenta un’ancora di salvezza per l’immaginazione. Quanto valore ha in un mondo in cui tutto può essere immediato, dinamico, concreto e soprattutto reale?

La fiaba è, con assoluta certezza, l’ancora del giorno d’oggi. Si può immaginare trasportando la mente nell’al di là, considerato non come il mondo dei morti ma come quello dell’immaginazione.Il suo scopo è insegnare tutto ciò che la cultura contiene in sè. Dunque occorre far percepire al pubblico cos’è il bene e cos’è il male, il rispetto verso la natura e gli uomini. La fiaba è un insegnamento di vita.