INTERVISTA ad Ernesto Bassignano e alla sua “Vita che torna”

Ernesto Bassignano è uno storico collaboratore di Musicultura, sin dai suoi primi passi in quel di Recanati negli anni ’90. Cantautore di origini romane ma di spirito piemontese – è a Cuneo infatti che ha vissuto gli anni più belli ed importanti della sua giovinezza, le prime esperienze ed i primi amori -, ha di recente pubblicato il suo ultimo lavoro, il cd “Vita che torni”, che ha presentato per noi alla Controra. Si tratta di un progetto nostalgico, ma non di un occhio rivolto con amarezza verso il passato, bensì di uno sguardo pieno di dolcezza che riserva alla vita e alle gioie che può donare.

Si è definito un “distonico neurovegetativo post-sessantottesco”: c’è ancora qualcosa che possa riprendere l’anima del ‘68 al giorno d’oggi, oppure quello spirito di rivalsa collettiva si è del tutto spento?

Ognuno di noi, specialmente uno come me, se lo auspica e sogna che possa tornare un’era del genere, per ricominciare a tessere quello che io chiamo “filo rosso della nuova cultura”. Bisogna smetterla con la sottocultura, con la televisione, con l’era berlusconiana che abbiamo vissuto e che ha ammazzato un’epoca che era già comunque craxiana e distrutta. Insomma, per uno come me che viene dagli anni ‘60 e ‘70 fatti di sogni, utopie, spettacolo e cultura meravigliosa, questi sono stati decenni terribili. Ormai abbiamo toccato il fondo con l’epoca del Grande Fratello, ma voglio essere ottimista: adesso lo spettacolo, per quanto riguarda il cinema e il teatro, sta timidamente rinascendo. Stesso discorso per la canzone, ma qui secondo me il problema è che non c’è né il tempo, né il denaro né la volontà di occuparsene. Ormai i media non ti permettono di fare nulla, la musica è sottofondo, è rumore, è ritmo, è divertimento, ma non ha più niente a che vedere con ciò che per noi è la musica d’autore vera. La materia c’è ed è enorme, così come la voglia di ricominciare e di tornare a fare cose veramente belle ed impegnate, sono cose che vedo nei giovani. Ma allora? Ma allora niente, il fatto è che non ci sono produttori, il disco non si vende, non c’è nessuno che te lo finanzia, non c’è nessun posto dove farti sentire e devi fartelo da te. Questo è il momento in cui viviamo, è un periodo tremendo perché non ne siamo ancora usciti, ma ci sono segnali meravigliosi nell’aria; io li sento perché sono vecchio e li ho visti tutti nel ‘67 e nel 68 e ci sono di nuovo. Roma è musicalmente morta, così come il sud, e forse Milano si salva giusto un pochino; per sopravvivere ognuno va in giro nelle birrerie a farsi dare un centinaio di euro per cantare, è una cosa angosciante. Sopravvivono cose come il Premio Tenco, Musicultura ed il Premio Bindi. Ripeto, nell’aria ci sono bei segnali: bisogna trovare il filo rosso fra operatori culturali, giornalisti e volenterosi che si mettano tutti insieme e dicano “così non si può andare avanti”. Dobbiamo recuperare il bello dell’Italia, che è enorme, non possiamo sopravvivere aspettando Sanremo e X Factor…

Quindi pensa che da Musicultura, specialmente quest’anno, si possano trasmettere canzoni di qualità?

Quest’anno le proposte sono molto buone, molto meglio del solito. Sono contento perché ho ascoltato dei pezzi dei brani e non ce n’è uno da buttar via: è una cosa notevole, anche questo è un segnale. Non si va più alla ricerca delle cose “fichine” come succedeva anni fa, adesso cominciano di nuovo ad essere carne, sudore e polvere da sparo, si sente.

E del suo nuovo disco, “Vita che torni”, cosa ci dice?

In vita mia sono sempre stato impegnato a fare altre cose, tanto che, di album, ne ho sbagliati tre su cinque. Belle canzoni, ma tutte le volte gli arrangiamenti erano un po’ terribili, anche per motivi di produzione, esterni a me. Questo è finalmente un disco con un Bassignano tutto allo scoperto, con pochi strumenti giusti, le cose giuste al posto giusto, nessuna belluria di archi: è proprio bello e piace a tutti, lo metto in macchina e fa saltare la radio. Le canzoni sono dieci, ma mi discosto dai cd abituali:  chi ce la fa deve fare dieci canzoni tutte uguali o quasi, deve avere un preciso imprimatur mentale – io quando canto faccio canzoni che sono quadri. Sono dieci immagini tutte diversissime tra loro, e sono contentissimo di questo, ma non è una cosa facile da realizzare. Io sono contento così, faccio delle canzoni quando mi vengono e solo se devo dipingere qualcosa, un’atmosfera: questa è la musica d’autore, non faccio la melodia e poi ci metto sopra il testo che va, metto invece due parole che poi diventano dodici, poi quaranta, si allargano e si restringono e sopra ci mettiamo una melodia. Bisogna avere una poesia prima, e solo dopo va musicata. È un disco di nostalgia, si chiama “Vita che torni” perché parlo della mia Cuneo, dei miei ricordi, del tennis, delle ragazze, del ballo, delle biciclette… Non è una nostalgia triste però, è serena: ogni tanto la vita torna – e meno male! – e mi piace ricordarla. È un disco molto vario e non gli si può dare un’indicazione precisa.

Negli anni ‘60 e ‘70 c’era la canzone politica di protesta, ora cosa ne è rimasto?

Sono passate delle ere. Una volta io protestavo perché era facile farlo contro la DC ed essere del PCI, erano due mondi totalmente opposti. Adesso la canzone di lotta non esiste, la canzone di lotta è quasi sempre rap, non c’è più il vecchio cantautore che inventa degli slogan da cantare tutti assieme, onestamente a volte anche molto brutti. Erano cose che servivano per la piazza, per diecimila persone, adesso per chi canti una canzone di lotta? Perché farlo? Ora la canzone di lotta è Caparezza, buon per lui perché è un geniaccio, ma per gli altri è un periodo durissimo, persino Fossati avrebbe delle difficoltà enormi come le abbiamo tutti. La poesia pura è difficilissima da esprimere; ci sono molti gruppi pop, carini, sì, ma non dicono nulla, e invece è proprio questo quello che va avanti e che riempie le piazze. Il resto è roba da Arciliuto, da Folkstudio, da birrerie. O da Musicultura, grazie a Dio.