INTERVISTA – La vita ordinaria di un supereroe del XXI secolo: intervista a Davide Toffolo

Facile stare col proprio eroe quando vince. Ma cosa succede quando il nostro eroe torna a casa, si toglie la maschera, si sfila il costume e si rilassa? Succede che spuntano un paio di boxer imbarazzanti, dei calzini spaiati, una barba incolta e una pettinatura discutibile. Si riscopre la dimensione più intima del supereroe e si ribaltano i mondi: le azioni più quotidiane, come fumarsi una sigaretta o giocare una partita di tennis alla Wii, diventano eroiche, e per ogni palla andata a segno il pubblico esulta, ma per ogni punto perso è proprio Eltofo che chiede partecipazione al pubblico. O meglio, Davide Toffolo, cioè Eltofo lontano dai palchi, nella sua cameretta. E’ così che ci fa entrare nella sua vita privata, con uno spettacolo di stand up comedy dedicato a Andy Kaufman in cui ci accompagna in una visita guidata virtuale nel suo quartiere e in casa sua, la sua piccola Cappella Sistina, uno spazio ricoperto dalle sue stesse tavole. L’uso che fa della sua maschera segna con consapevolezza il confine tra la sfera privata e quella pubblica. Attraverso una proiezione di scatti rubati, ci fa ripercorrere con lui il viaggio dalla sua casa di Pordenone a Macerata, dove ci regala una bellissima intervista in cui ci parla del suo ultimo libro “Graphic Novel is Dead”.

Consideri il romanzo grafico un’evoluzione del romanzo tradizionale scritto con un linguaggio più adatto alle nuove generazioni o piuttosto una forma a sé con una sua precisa chiave di lettura?

La graphic novel è una delle forme del fumetto e in quanto tale ha un linguaggio specifico; ha a che fare con la letteratura in modo tangenziale, c’entra poco con la grande storia del romanzo scritto. E’ una storia nuova, un media che ha poco più di cento anni e che vive di un continuo rinnovamento di forme. Tutti nella vita abbiamo incontrato una delle forme del fumetto, tipo quelli della Disney da bambini, e i più fortunati di noi sono stati accompagnati da questo linguaggio tutta la vita. Io e altri autori, in questi ultimi venticinque anni, abbiamo lottato in modo disperato perché ci fosse una possibilità più adulta per questo linguaggio, e una delle forme adulte che il fumetto ha raggiunto è proprio la graphic novel.

Perché dici che il romanzo grafico è morto? Perché intitolare un libro “Graphic Novel is Dead” in un momento in cui invece, a giudicare dalle vendite, si direbbe un genere in piena espansione?

E’ vero, la graphic novel in questo momento vive la sua fortuna editoriale e commerciale. Uno dei motivi è la facile dematerializzazione dei libri, mentre quella del fumetto è molto più difficile perché è un pezzo d’arte costruito sulla riproduzione cartacea e la sua forma è fondamentale. La vera opera d’arte non è nell’originale, che può avere una forma artigianale più o meno interessante, ma proprio nell’oggetto fisico. Mentre ogni cultura nel tempo ha sviluppato una sua modalità per i fumetti, la graphic novel è il primo caso nella storia in cui esiste una forma unica e globalizzata in tutto il mondo, o almeno in Occidente: un romanzo con un formato di circa 24×17. “Graphic Novel is Dead” vuol dire che mi interessa ancora lavorare sul linguaggio: è vero che la graphic novel è un punto interessante ma non è un punto d’arrivo, bensì un punto di passaggio di un linguaggio che ogni volta che immagini di prendere ha la capacità di scappare e andare da altre parti. Ma è anche una specie di manifesto per dire che la graphic novel esiste. Se avessi proposto questo titolo dieci anni fa nessuno avrebbe capito di cosa stessi parlando, invece adesso un titolo così vuol dire tante cose: vuol dire che la graphic novel è una modalità di incontro col fumetto che esiste quasi per tutti, e che è un luogo di libertà per gli autori, non un luogo costrittivo in cui esiste soltanto il giornalismo a fumetti o la narrazione lunga.

“Graphic Novel is Dead” alterna foto di Cecilia Ibañez che raccontano la tua vita pubblica e tuoi disegni che rappresentano invece la tua vita privata: perché questa suddivisione?

Il libro è un’autobiografia, che è una delle caratteristiche di certi tipi di grandi graphic novel, come Maus o Persepolis, per citarne alcune, ma allo stesso tempo il tentativo che ho fatto è quello di lavorare ancora sul linguaggio: un linguaggio ellittico, che prosegue per pagine uniche, che ricorda un po’ l’origine del linguaggio del fumetto. Nel libro parlo di due aspetti della mia vita:  l’identità pubblica, coperta da maschera e costume da yeti, che è raccontata da foto, e la parte più intima, che invece è narrata da fumetti. Perciò c’è un doppio ribaltamento per cui la parte reale diventa finta o comunque costruita con una scrittura che potrebbe non sembrare realistica. E’ un perché narrativo e un gioco; il linguaggio è sempre quello del fumetto anche nel momento in cui c’è la foto.

Nel corso della tua doppia vita di musicista e fumettista, ti sei sentito più supereroe ad esibirti sui palchi o a disegnare nella tua stanza?

La vita  del disegnatore di fumetti è titanica perché sei da solo, con i tuoi pensieri, con un certo tipo di megalomania e di potere che hanno tutti i disegnatori di fumetti: tutti pensano di essere il Dio del proprio universo, perché lì controlli tutto, dalla forma delle finestre ai tuoi personaggi. Però devo dire che quando stai sul palco e tanta gente canta con te, certo l’ego rischi di non tenerlo a freno.