INTERVISTA – Luigi Lo Cascio e il lato umano del fare l’attore

Nel nostro immaginario, Luigi Lo Cascio è Peppino Impastato, è Nicola Carati, è Saro Scordia; è uno straordinario attore teatrale, capace di tenere il palco in Amleto e Sogno di una notte di mezza estate; è il vincitore di Nastri D’argento, David di Donatello e premi UBU; e, per finire, è il regista di alcune pièces teatrali e di un film, La città ideale. Ma questo non è Luigi Lo Cascio, questo è solo il suo lavoro. Lo dimostra all’incontro organizzato da La Controra: si relaziona con la sala gremita di persone di tutte le età con un fascino e una sicurezza che lasciano la platea totalmente ammaliata. Parla di quanto sia grato alla sua famiglia, di quanto gli piaccia il lavoro che fa, dei suoi desideri, di alcuni aneddoti riguardanti il suo passato, degli esordi, di cinema e letteratura; risponde alle domande che gli vengono poste dai ragazzi del laboratorio de La Controra e guarda con piacere i video realizzati per lui; il tutto intermezzato da scene esilaranti, che alleggeriscono l’atmosfera: si alza per chiudere la finestra perché “c’è corrente”, chiede al pubblico di non farsi fare foto e video perché “non ha il fisico” e ci dice che, a lui, il suo film da regista è piaciuto molto. “Se dico qualcosa degno di rimanere nella vostra memoria, lo ricorderete. Sennò, meglio che lo dimentichiate”. Io ricordo tutto. E adesso mi piaceve scriverlo. Signore e signori, Luigi Lo Cascio:

Ha interpretato molti ruoli forti, impegnati, “politici”, se mi passa il termine. Ha mai avuto paura di non riuscire a rendere loro giustizia?

A prescindere dal ruolo che interpreto, rimango sempre un po’ insoddisfatto. Nel teatro la cosa è diversa: il fatto che ci siano 30 giorni di prove permette di interiorizzare, poco a poco, il dispiacere di non essere all’altezza di rendere giustizia ai grandi autori. Siamo troppo piccoli, ci manca la strumentazione intellettuale e sentimentale adeguata al privilegio di poter pronunciare certe parole. I giorni di prova ti permettono di abituarti all’idea di accontentarsi della forma che hai raggiunto, cercando di rimanerci il meno male possibile. Per quanto riguarda il cinema, invece, vivo tutti i giorni col dispiacere di non aver potuto raggiungere qualcosa di più preciso, di più in linea con come secondo me le cose andavano fatte. È un mestiere, per come l’ho appreso io, dove la forma è provvisoria; c’è sempre una possibilità ulteriore di miglioramento che spesso il tempo, o le tue capacità, ti negano. A volte vivo con grande dispiacere il lavoro di attore, perché impone il doversi fermare ad un certo punto. Ma questo è anche il suo bello, è la cosa che lo rende più umano, perché anche nella vita non abbiamo modo di provare, e siamo sempre impreparati. La risposta, quindi, è che, al di là del ruolo politico o meno, io sento sempre di avere una responsabilità rispetto ai testi che interpreto e vivo con dispiacere il fatto di non essere mai, purtroppo, del tutto adeguato.

Lei pensava di non essere adatto al mondo del cinema e di appartenere maggiormente al teatro. Ha vinto il David di Donatello per l’interpretazione di Peppino Impastato nel film I Centi Passi, primo ruolo in assoluto che ha interpretato cinematograficamente, cui ha fatto seguito una brillante carriera. Questo l’ha aiutata a modificare il pensiero che aveva su se stesso o continua a preferirsi sul palco?

È difficile rispondere in poche parole. Mi piace moltissimo il lavoro che provo a fare al cinema e ho imparato ad amarlo ancora di più dopo aver fatto il regista, perché mi ha permesso di provare una posizione più scomoda: quella di chi propone il film. L’attore è facilitato nel rapporto con questo mestiere, non deve pensare a molte cose e deve concentrarsi solo sul personaggio. Per permettegli di vivere sul set lo stesso sentimento che prova quando sale su un palcoscenico teatrale, però, il cinema deve disporre di un grande personaggio, un grande autore e una grande sceneggiatura. Se siamo a livelli molto alti, insomma, è gratificante anche il mestiere cinematografico, ma non capita spesso. Nel teatro puoi entrare in scena senza un montatore che sceglie per te o un regista che preferisce un tipo di angolazione piuttosto che un’altra; sei totalmente responsabile di quello che il pubblico vede. Fondamentale è anche l’approfondimento del personaggio: quando si recitano testi di importanza capitale, bisogna essere consapevoli di stare pronunciando parole che hanno attraversato millenni. Recitare una battuta di Edipo, davvero, anche una sola, è qualcosa di vertiginoso. All’attore cinematografico non sempre è richiesta questa presenza assoluta e questo livello di messa in gioco; perché una cosa è mettersi in gioco in ambito professionale, tipo sbagliare un film, e un altro è mettersi in gioco come uomo, capendo quanto peso abbia il dover dire certe parole come se fossero tue. Il teatro, in questo senso, ti impone una grande strumentazione emotiva e culturale che non sempre il cinema richiede.

L’uomo Luigi Lo Cascio è indiscutibilmente diverso dall’attore, e come tutti ha avuto sogni e delusioni. Se non ce l’avesse fatta in questo campo, chi sarebbe lei oggi?

Io, in realtà, volevo fare il medico; lo psichiatra, per l’esattezza. È una cosa che mi ha sempre affascinato, sin da ragazzino: la maggior parte dei miei parenti, appartenenti al lato materno della famiglia, sono dottori, e mio zio, che ha ricoperto un ruolo molto importante nella mia formazione, è proprio psichiatra. Se non fossi diventato un attore, quindi, avrei fatto quello; ho anche frequentato la facoltà di Medicina. Ne La meglio gioventù il mio ruolo era appunto quello di uno psichiatra, ed era anche il tipo che mi sarebbe piaciuto essere; l’ho trovata una felice coincidenza, perché anche nella finzione sono riuscito a percepire che quella era una vita che poteva essermi cara. Non l’ho mai dimenticato.

Nel 2012 ha scritto, diretto ed interpretato un film che ha concorso alla Biennale di Venezia, La città ideale. Pensa che rimarrà un caso isolato?

Mi auguro di no, ma non dipende da me. Posso dirti, magari, che scriverò ancora poesie, perché bastano la mia stanza, un foglio di carta, la penna e quello che mi viene in mente. Posso anche decidere di fare uno spettacolo teatrale in una saletta piccola, perché sono certo possa accadere. Col cinema, invece, non si può mai dire: fare un film costa troppo, bisogna convincere tante persone ad aiutarti. Il cinema non si fa da solo. È una cosa che non dipende da me, ma desidererei fortemente fare un’altra esperienza in questo campo.

Musicultura, il festival della canzone popolare, aiuta da ormai 25 anni giovani artisti emergenti ad ottenere visibilità cercando di eludere le logiche del mercato; permette, inoltre, a centinaia di artisti già affermati, in campo musicale e non, di interagire con il pubblico. Secondo lei quanto questo tipo di manifestazioni risultano effettivamente funzionali alla promozione della cultura in un paese?

Non te lo so dire in termini numerici, ma sono certo che queste cose siano fondamentali; non nel senso di importanti, ma proprio nel senso di “rappresentanti il fondamento”, basilari. Stiamo andando verso una sorta di imbarbarimento culturale. Nonostante io ancora non sia riuscito a fare qualcosa in merito, mi auguro di poterlo fare in futuro, perché penso che queste iniziative siano di grande importanza. Poi è ovvio che bisogna sì fare queste cose, perché sono occasioni di crescita e rappresentano quasi una forma di resistenza, ma bisogna anche focalizzarsi sul vero compito: cambiare le mentalità. È chiaro che cose come il cibo o la sanità rappresentino una priorità, ma non si può e non si deve sminuire l’importanza degli incentivi alla cultura. È fondamentale riuscire a capire che non si vive di solo pane, e bisogna cercare poi di farlo passare anche agli altri. Siamo tutti essenzialmente diversi grazie alla cultura! Nel momento della costruzione dell’identità, della moralità e del sentimento politico si passa anche attraverso l’apprendimento culturale di certi autori e di certe musiche. Noi siamo questo: io sono diverso da te perché le nostre storie sono diverse e questo è dovuto agli incontri che abbiamo fatto; incontri di tipo affettivo, certo, ma anche di genere culturale. Essendo noi molto piccoli, il poter ricevere l’insegnamento dei grandi dovrebbe essere considerato un privilegio. Perché non lo è per tutti? In questo senso penso sia importante che le persone che fanno questo mestiere riescano a trasmettere a tutti il valore della cultura; i tagli ai settori culturali e alle università non possono più essere trattati come un male minore, le persone devono sentire il torto che subiscono.