INTERVISTA – La musica per costruire le medaglie e le cicatrici della vita: Niccolò Fabi si racconta a Musicultura XXVI

Mentre Niccolò Fabi, ospite di Musicultura XXVI, si sta esibendo sul palco dell’Arena Sferisterio, accompagnato dal GnuQuartet, inizia a piovere. Non è un caso che questo accada proprio quando il cantautore sta intonando i primi versi di Oriente, un titolo che già di per sé fa pensare al caldo, agli odori di una terra lontana e ai colori di tramonti accecanti.

I testi di Fabi sono spesso ricchi di riferimenti al cielo, al volo degli uccelli, all’infinitezza del mare, alle cose della vita che accadono indipendentemente dal volere dell’uomo: la pioggia ha voluto prendersi il suo posto in Arena, ieri sera, per ascoltare le storie di un uomo che ha fatto della musica il timone della sua barca e l’ancora che lo salvato dalle bufere che colpiscono la vita di ognuno. È tornato il sereno con Costruire ed anche questo, forse, non è stato un caso. Ho incontrato Niccolò Fabi subito dopo la sua esibizione e gli ho fatto qualche domanda per tentare di conoscere più a fondo la carriera di un artista come pochi e la storia di un uomo come tanti.

Hai esordito nel 1997, al Festival di Sanremo, con il brano Capelli. Sono passati quasi vent’anni e, nel frattempo, l’ambiente musicale italiano ha subìto delle trasformazioni. Riusciresti ad individuare una direzione verso cui il cantautorato si sta muovendo?  

È complicato perché, rispetto al 1997, è venuto meno un interlocutore fondamentale, ovvero la discografia intesa come la figura dell’editore, di chi investe, di chi è alla ricerca di musicisti talentuosi e cerca di aiutarli. In questo caso la crisi del disco, o meglio la scomparsa del disco, ha fatto sì che quel tipo di editore non ci sia più e quindi i cantautori attuali non abbiano più un alleato. La televisione non è un alleato del cantautorato, perché il cantautorato non è televisivo. E non è, questa, solo una questione commerciale, perché se guardiamo alle classifiche di dischi degli ultimi venti anni, troviamo ancora grandi cantautori: da Renato Zero a Claudio Baglioni, Da Vasco Rossi a Ligabue, o Jovanotti. Questa è la prova che non è vero che il cantautorato non si vende bene, ma semplicemente non rientra nel concetto di “televisivo”. Rispetto a qualche tempo fa, la strada che i cantautori di oggi si trovano a dover percorrere è decisamente più complicata. Musicultura rappresenta una sorta di “via di mezzo” che si è evoluta allargandosi, in varie occasioni, ad autori non solo letterari ed aulici. L’allora “Premio Recanati” aveva un certo tipo di imprinting: raccoglieva sul palco coloro che la discografia non voleva, ovvero coloro che avevano anche una forte pesantezza autorale e non erano pop – e ricordiamoci che “pop” non è una parolaccia, ma qualcosa che significa anche fruibilità, cantabilità e comunicazione. Poi Musicultura, sia per poter essere il più fruibile possibile che per la ricerca di qualità, si è voluta aprire ad un panorama più ampio, un panorama che comprende cose molto più contemporanee.

Da Capelli a Costruire sono passati quasi dieci anni. Come è cambiato Niccolò Fabi in tutto questo tempo?

Sì, è passato quasi un decennio, e da Costruire ad oggi altri nove anni: un’infinità di tempo! Inevitabilmente, come accade ad ognuno di noi, la vita lascia cicatrici e medaglie. Artisticamente parlando, lo scorrere del tempo è stato per me qualcosa di positivo perché, crescendo, mi sono reso conto di avere un’innata predisposizione a raccontare l’invecchiamento. Ed anche le cicatrici. Questo, dal punto di vista professionale, mi ha aiutato ad invecchiare meglio. Penso ad alcuni musicisti, ad esempio a quelli che fanno punk ed hanno un certo tipo di chiave stilistica, che hanno una dote specifica, prettamente giovanile, per raccontare un determinato tipo di ribellione, insubordinazione e rivoluzione; poi, con lo scorrere del tempo, questi musicisti non sono più in grado di esprimere e raccontare artisticamente la maturità. Al contrario, io ho avuto la fortuna di sentirmi molto più “a fuoco” adesso che a venticinque anni, perché è probabilmente ora – ed in maniera più matura – che riesco a tirare fuori al meglio le mie caratteristiche.

Hai parlato di cicatrici. Come tutti, anche tu sei stato costretto a ricucire le ferite che la vita a volte procura. La perdita di qualcuno lascia sempre dei segni, ma tu hai avuto la forza di tirarne fuori il meglio e di iniziare un cammino – anche artistico – decisamente più consapevole. 

Dal 2010 in poi, la mia vita professionale ha subìto un salto di qualità incredibile. Detto così, questo può sembrare assurdo, una considerazione quasi ingiustificata. Non voglio assolutamente limitare la portata di quell’evento a ciò che sto dicendo, ma ho avuto senza dubbio più forza e più determinazione nel seguire le cose che mi piacciono ed ho le idee molto più chiare, come capita spesso a chi, da una parte, diventa adulto e, dall’altra, non ha più tempo da perdere dietro a cose futili. In questo senso, ho guadagnato un sacco di anni che avrei altrimenti speso forse male, e quell’esperienza mi ha dato tantissima forza nello scegliere la direzione da prendere per fare ciò che realmente mi interessa. Ed il cambiamento che ho affrontato è stato forse quello che la gente ha percepito: un’emotività diversa. Dopo questo evento, si è generata una sorta di “effetto domino”, come spesso accade in concomitanza di eventi estremamente potenti che generano delle onde altissime che, se indirizzate nel giusto modo, possono convogliare in progetti non autodistruttivi.

Pochi mesi fa hai deciso di intraprendere un’avventura artistica che ti ha portato ad esibirti in piccole cittadine, club e locali. Di cosa sentivi il bisogno, in quel periodo della tua carriera?

Questa è stata una parentesi tra la fine della tournée nei palazzetti ed il concerto all’Arena di Verona, un gioco meraviglioso durato circa un mese in piccoli locali e centri cittadini. Mi è anche capitato di passare proprio qui vicino, a Fermo e a Castelfidardo, per esibirmi in live di cui avevo dato comunicazione poco prima. Un’esigenza di libertà,  che penso sia la più grande esigenza di tutti: poter decidere di fare quello che si vuole, quando si vuole. Ed anche il bisogno di un contatto più intimo e più vicino con il mio pubblico.