INTERVISTA – Con Li Daiguo la tradizione cinese incontra quella occidentale a Musicultura

È un emozionante incedere di suoni vibranti, prima lenti e poi, di colpo, accelerati, quelli che Li Daiguo fa rivivere nel cortile del Palazzo Municipale in occasione de La Controra di Musicultura. Un piede nella world music e l’altro nel mondo dell’improvvisazione, l’artista sino–americano si è da poco affermato, oltre che come interprete, in qualità compositore, avviando in Cina e in tutto il mondo una gratificante carriera da solista.

Improvvisazione, certo, ma all’interno di canoni e regole ben definiti, spiega Li Daiguo, che descrive così il suo metodo compositivo:  «È l’emozione del momento che mi spinge a suonare una certa melodia, che solo in un secondo tempo si cristallizza in un brano vero e proprio. L’improvvisazione è dunque preludio del comporre. E non è affatto eccezionale: tutti i grandi compositori, da Bach a Beethoven, cercavano ispirazione nelle performance estemporanee per scrivere le loro opere». Al pubblico de La Controra l’artista ha proposto una selezione di brani strumentali per pipa e violoncello, strumenti simbolo di tradizioni musicali – quella cinese e quella occidentale – tra le sue maggiori forme d’ispirazione.

Hai una doppia laurea in violino classico e letteratura. Credi che si possano definire forme d’arte complementari? Lo studio della letteratura ha influenzato in qualche modo la tua futura carriera musicale?

Si, ma solo nella misura in cui ha influenzato la mia vita. Lo studio della letteratura ha influenzato la mia concezione del mondo, il modo che ho di recepire le informazioni, i miei valori, le mie filosofie. Per quanto riguarda la loro somiglianza, sai, nel mondo delle idee e della parola si può rendere possibile tutto quel che si vuole. Mettiamo, ad esempio, che si voglia sostenere che pittura e musica siano simili: ci si limita a prendere qualche elemento che ne dimostri l’evidenza e si costruisce una tesi, proprio come fa un avvocato; e lo stesso vale nel caso in cui si voglia affermare l’opposto. Personalmente, sono legato alla musica e alla letteratura in maniera diversa, ma riconosco che, volendo, potrei sostenere entrambe le argomentazioni.

Sei cresciuto negli Stati Uniti, salvo poi far ritorno in Cina, tuo Paese d’origine. Avendole sperimentate entrambe, come descriveresti le tradizioni musicali di questi due Paesi?

In Cina c’è una gran varietà di tradizioni musicali perché ci sono diverse etnie, anche se quella Han è senz’altro la più antica. Pensa che persino in questa coesistono stili diversi! Credo che sia l’elemento temporale a fare la differenza tra queste due culture. Per quanto riguarda l’America, cosa si intende per tradizione musicale americana? Non sono neppure certo che quest’espressione abbia un qualche significato: è forse quella dei nativi americani, o il pop occidentale, il blues, il rock’n roll, il jazz o, magari, è tutti questi generi mescolati insieme? La musica americana è molto più complicata, molto più moderna, ma, soprattutto, molto più giovane.

È agli anni dell’Università che risale, se non sbaglio, la tua scoperta della world music, destinata a diventare una parte essenziale del tuo repertorio…

A dire il vero penso di aver scoperto la world music, o global music, comunque la si voglia chiamare, sin dalla mia adolescenza. In quegli anni, infatti, oltre alla musica classica, cominciai a studiare la bluegrass, uno stile del country, e l’erhu, un tipico strumento cinese. Pertanto una certa varietà di stili e tradizioni faceva già parte di me, ma certamente il periodo universitario mi permise di espandere le mie conoscenze. Poco alla volta mi appassionai alla cultura musicale dell’India, del Nord Europa, dell’Indonesia, come se stessi completando un puzzle.

Che cosa significa per te la global music? È forse una ricerca dell’universale?

Se universale sta per “vero in ogni tempo e ogni luogo”, allora la risposta è no; questo significherebbe per sempre, prima e dopo: se è questo ciò di cui stiamo parlando, non sono nemmeno sicuro che sia qualcosa che possiamo trovare, che sia qualcosa che la mente umana possa concepire. C’è una citazione di Dubussy (compositore impressionista francese) che mi sta particolarmente a cuore: alla domanda su quale fosse il suo metodo compositivo, rispose: «Prendo tutte le dodici note dello spartito e uso quelle che voglio, mentre non uso quelle che non voglio». Penso che sia un buon modo per esprimere l’altrimenti ingiustificabile gusto personale. Perché si ha bisogno di un suono e non di un altro? Perché sono incuriosito dagli strumenti africani e dei loro ritmi? Perché mi accade lo stesso con quelli del Medio Oriente? Perché amo fonderli insieme? La verità è che studio gli strumenti, le tradizioni e le teorie che hanno il potere di “parlarmi”. In fondo, non è altro che una questione d’estetica: perché mi piace questo colore (indica la camicia che indossa, n.d.r.), e tutte le risposte che potrei dare, che potrei immaginare o inventare, non sono davvero significative, perché potrei sempre inventarne un’altra e tutte avrebbero la stessa probabilità di essere vere. Come possiamo entrare nella nostra mente e determinare perché ci piace un certo sapore, o il motivo per cui si ama il viso di questa persona ma non si è attratti da quest’altra? Vedi, è solo un gioco, non si potrà mai parlare di ricerca della verità.

Non è raro che tu ti esibisca con altri artisti, non solo musicisti, ma anche esponenti di forme d’arte insolite per il palco di un concerto: ballerine di butü, attori, pittori dal vivo e persino clown sono solo alcuni dei performer di cui ti sei circondato nel corso degli anni. Cosa si nasconde dietro questa scelta?

È vero, lo facevo soprattutto in passato perché ero solito fare street performance. Quando si suona in quel mondo, specialmente se ci sono molti artisti di strada, è naturale incontrare gente interessante con cui suonare insieme. Non sono però veri concerti, il pubblico che vi assiste non è fisso. Tuttavia, ora mi capita sempre di meno. All’inizio lo facevo più per divertirmi, queste esibizioni mi piacevano per il loro carattere inusuale e imprevedibile, ma quando si cerca di fare di queste improvvisazioni delle performance organizzate diventa piuttosto difficile, persino quando si tratta di musica e modern dance. La cosa più difficile è fare in modo che esprimano vere emozioni. Lo stesso accade per le colonne sonore: richiede moltissimo tempo e un’indicibile dedizione per raggiungere un buon livello. La cultura multimediale ha semplificato i gusti degli ascoltatori che dalla musica, ormai, cercano altro che freschezza o un gusto vagamente esotico.

È nota la tua passione per la musica di strada e per i Festival che, come nel caso di Musicultura, portano la canzone d’autore in mezzo alla gente, anziché farla diventare un privilegio per pochi. Qual è, a tuo parere, il valore aggiunto di manifestazioni di questo tipo rispetto al più tradizionale concerto?

Penso che tutti i tipi di scenari musicali che vedono il massimo sforzo da parte di artisti e organizzatori abbiano un loro valore e suscitino effetti diversi, inclusi quelli realizzati per un pubblico ridotto. Non farei una classifica di valore: a ciascuno riconosco il loro senso e la loro importanza. Personalmente, sono più per quei festival che prevedono eventi raccolti, proprio come in questo caso. La mia musica, del resto, è pensata proprio per allestimenti non troppo grandi, in cui l’elemento rituale predomina su quello dell’intrattenimento.