INTERVISTA – L’Indie “made in Marche” di ieri e di oggi a La Controra di Musicultura. Sul palco si incontrano Umberto Maria Giardini ed i Lettera 22

Due differenti voci della musica alternativa italiana alle prese con un racconto sui rapporti fra gli esseri umani.

Umberto Maria Giardini, prima noto con il nome d’arte di Moltheni, ha dal 2012 recuperato il suo vero nome e avviato un originale progetto da solista. Un ritorno alle origini per lui – è nato a Sant’Elpidio a Mare, in provincia di Fermo –, intima e commossa infatti è l’atmosfera che si respira agli Antichi Forni durante la prima serata de La Controra. Con un’acuta ricerca all’insegna dell’incomunicabilità, il cantautore rilegge la sua ricca e variegata produzione da “La dieta dell’Imperatrice” fino a “Protestantesima”, in una suggestiva esibizione con la sola chitarra elettrica che accompagna però l’altro suo potentissimo strumento, la voce. I Lettera 22 invece, gruppo nato a Recanati nel 2010, si è aggiudicato nel 2012 il titolo di vincitore della XXII edizione di Musicultura. Con due album all’attivo, dei quali il secondo ha visto la direzione di Paolo Benvegnù, la band, oggi in una fase di fervida creatività, sceglie ancora il palcoscenico del Festival quale banco di prova per la sua musica. Propone quindi brani inediti che si intrecciano coi già collaudati a formare un vivido racconto della vita di provincia, intessuto di colori ed immagini iconiche e indelebili.

Il risultato è una serata di scoperte e riscoperte che scontorna e definisce il fulcro di un’attitudine, quella marchigiana, da sempre contrassegno di buona musica, originalmente e autenticamente ispirata. Prima del concerto, i Lettera 22 raccontano alla redazione di “Sciuscià” qualcosa di questo progetto, ma anche di altri ancora da realizzare: un fiume di parole favorito dalla cornice del Festival che innesca in loro un’esplosione di ricordi ed emozioni.

Come nasce la collaborazione con Umberto Maria Giardini, che stasera proporrete al pubblico de La controra nell’evento dal nome “Umani e affetti”?

Si tratta di un’opera unica, non immaginata come evento musicale ripetibile ed ideata appositamente per Musicultura. Abbiamo triangolato le distanze geografiche, essendo Umberto Maria Giardini marchigiano come noi. Sono due modi di interpretare un approccio musicale indipendente, fuori dagli schemi, che hanno la stessa base regionale. Hanno storie, vissuti e livelli diversi perché mentre noi siamo emergenti, Umberto Maria Giardini ha una lunga carriera musicale alle spalle. L’idea era quella di riuscire a mettere insieme un filo conduttore. Ci siamo accorti che i nostri testi parlano molto spesso di rapporti umani e la sensibilità di Umberto ha l’umanità nelle sue corde. Ci siamo divertiti ad immaginare cosa potesse succedere in un cortile, che – causa pioggia – diventa un luogo ancora più carbonaro come un seminterrato con gli archi a volta, raccontando storie di umani e di affetti. Aspettiamo di vedere come andrà stasera, a seconda anche della risposta del pubblico, per valutare se questa collaborazione possa avere un seguito.

Come avete già precisato,anche voi provenite dalle Marche. Cosa vi ha dato il vostro territorio, cosa significano le Marche per voi e per la vostra musica?

Fare musica nella provincia non è sicuramente facile. Ed è anche più vero, più sincero, meno filtrato dalle dinamiche interne alla musica. In una grande città c’è un’enorme concorrenza in termini numerici, ma c’è anche una grande omologazione: basta che una band abbia un minimo di successo e molti tenteranno di somigliarle. Certo, la provincia non è un luogo fisico, ma dell’immaginazione, perché non esiste più concretamente – basta che tu abbia una connessione wireless e sei in ogni luogo nello stesso tempo –; essa, più di ogni altra cosa, preserva e favorisce l’idea che il rapporto umano è quello che presiede alla costruzione della canzone. Ciò che invece manca è un polo d’attrazione: di band ce ne sono moltissime e nelle Marche si suona veramente dappertutto, ci sono le scene più diverse e più interessanti – a Castelfidardo, ad esempio, c’è un collettivo che si chiama “Castelfidardo Hardcore Crew” che fa hardcore nella patria della fisarmonica!
Mancano forse i giusti contenitori, che nelle grandi città ci sono. Fortuna Musicultura!

Cosa pensate di condividere con Giardini? Cosa invece vi differenzia?

Sono entrambi approcci musicali non filtrati dalla necessità di diventare piacevoli per l’ascoltatore, seguendo una ricetta che i discografici in genere vogliono vedere applicata, come se a presiedere l’arte – che poi il nostro è piuttosto “artigianato” – ci fosse una formula, un modello. Il bello della sensibilità artistica di Umberto è che è viscerale, incontaminata, non violata dall’eccesso di civiltà, dalle manie, dall’affettazione. È nuda e stasera lo sarà veramente perché suona chitarra e voce. Molto probabilmente quello che suoniamo è figlio di un desiderio di ricerca di un’identità che lui ha individuato e ha ben chiara, mentre noi stiamo tentando di far collimare quattro idee artistiche che a volte differiscono in modo totale, perché – sembrerà una sciocchezza alfanumerica – lui è un individuo che dialoga con le sue profondità dell’anima, noi siamo quattro persone. Una band può in questo senso essere una famiglia, un pessimo rapporto di coppia, una disputa che non si risolverà mai. Questo, quando un gruppo diventa famoso. Ancor peggio quando si tratta di quattro trovatelli che cercano di far collimare il desiderio di far musica con la propria vita. Ciò che ascolterete stasera è figlio di tante battaglie all’ultimo sangue, ma anche – perché c’è anche quello – di amori a prima vista.

Come definireste il genere musicale a cui la vostra musica afferisce?

Coniando un neologismo inesistente – ovviamente non mi prenderanno mai nemmeno come stagista in una rivista musicale (ride, n.d.r.) – direi “Post-pop neorealista”. Raccontiamo cose che ci sono molto vicine, ma il nostro è un pop consapevole del fatto che il pop è morto. Non nel senso nobile di scrivere una bella canzone, ma nel senso di mitologia culturale: non c’è più un brano che identifica una generazione; quando c’è, si sente dietro la mano del burattinaio.

Il mondo evolve in fretta, tra qualche decennio potrebbe rimanere ben poco del panorama musicale odierno e di quello del passato, per noi oggi di riferimento. Se poteste salvare dall’oblio una sola delle vostre canzoni, quale sarebbe?

Continentale, singolo tratto dal nostro ultimo disco “Le nostre domeniche”. È un brano che parla dell’attesa di una primavera immaginaria. Ognuno ha la sua.

Se doveste salvarne una di Giardini, invece?

Splendido amore, che al di là della quasi ovvietà del titolo, ha tutto quello che dovrebbe avere una canzone d’amore. Negli ultimi cinquanta anni si è scritto solo d’amore in Italia, un Paese pieno d’odio. La maggior parte dei brani sono da buttare, mentre questo è uno dei pochi non banali e che commuove quando lo si ascolta.

Qual è, se c’è, il punto di svolta, il giro di boa, che pensate abbia cambiato la vostra carriera?

Sicuramente la collaborazione con Paolo Benvegnù, sia per quanto riguarda la scrittura che l’approccio vocale: ci ha insegnato come scavare negli abissi per la stesura di una canzone, come tirare fuori la voce nel modo giusto per esprimere determinate cose; poi, non meno importante, è il rapporto umano che con lui si è creato.

Cosa avete in cantiere al momento? Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Stiamo scrivendo tanta musica nuova, che proponiamo di volta in volta, come faremo anche stasera.  Con l’entrata nel gruppo di Matteo che ha sostituito Arianna, stiamo vivendo una seconda giovinezza in questo senso. Quando le band si trovano ad affrontare un abbandono è sempre un evento lacerante, in questo caso invece è stato il “click” che ha cambiato il nostro approccio, anche a livello di sensibilità. Fare musica nuova per noi adesso è come respirare e mangiare. Per una band che non ha contratto né agenzia, è difficile poi programmare un disco. I mecenati non esistono più chiaramente, ma sarebbe bello che qualcuno ascoltandoci potesse dire: “questo è un gruppo che meriterebbe di andare avanti”.

Cosa rappresenta Musicultura per voi?

A ripensare allo Sferisterio ancora ho i brividi. L’esperienza di Musicultura ti mette alla prova come band, perché ci si trova a dover prendere necessariamente delle decisioni. Come quando una coppia va a convivere: dal momento che nessuno più se ne torna a casa sua a dormire, se ci tieni lo devi dimostrare, devi chiarire delle cose, devi essere onesto. È un livellatore per tutti i concorrenti e ancor di più se sei originario del posto, perché c’è come un’aspettativa generale, sia che tu partecipi che non partecipi al Festival. Inoltre, è un marchio di garanzia anche quando vai a suonare altrove. Nella nostra biografia, Musicultura rimane al primo posto!