Intervista: Pupi Avati a La Controra di Musicultura

Il regista si racconta alla redazione di “Sciuscià”

L’incontro di ieri in occasione di Musicultura 2022 ne ha dato conferma: il Maestro Pupi Avati, oltre ad avere una spiccata predisposizione per l’arte, dopo aver fatto del cinema la sua vita è riuscito a maturare una visione profonda del mondo, che risalta magnificamente in questa intervista. Mentre parla, mostra con naturalezza disarmante il suo carattere introspettivo e la saggezza accumulata nel corso degli anni, che sente di dover condividere: “Alla mia età ho il dovere di dirvi cos’è la vita,” spiega durante la sua partecipazione a La Controra, alla quale fa da sfondo il cortile di Palazzo Buonaccorsi, nel centro di Macerata. Prima del suo arrivo, il pubblico è già fuori ad attenderlo; in molti cercano di acciuffare un posto per assistere all’evento; i giornalisti, pazientemente, aspettano il loro turno per porre qualche domanda. E anche noi lo facciamo: poniamo domande. E le risposte ricevute ci accarezzano.

Prima di affermarsi come regista ha avuto una carriera nel mondo della musica come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz Band; a distanza di tutti questi anni le è rimasta questa passione e suona ancora il suo clarinetto oppure la fiamma si è spenta col tempo?

La passione è rimasta perché è stato il primo sogno della mia vita. E dal primo sogno della vita è difficile svegliarsi. Purtroppo non si è realizzato: essendomi confrontato con musicisti di grande talento (io non credo di averne), e sentendomi ancora in tempo per cambiare progetto, ho abbandonato quel sogno. Ma dentro di me il desiderio di poter fare il musicista è rimasto vivido e ho ancora vicino alla scrivania il mio clarinetto montato; ogni tanto provo a fare qualche nota ma la musica richiede esercizio e studio, quindi non la pratico più. Però, se mi chiedessero se avessi preferito essere un musicista o un regista, avrei scelto la musica.

Oltre a diverse fortunate collaborazioni, condivideva con il compianto compositore pesarese Riz Ortolani un’amicizia di vecchia data; conserva di lui qualche ricordo in particolare che le piacerebbe condividere?

Avrò fatto con Riz all’incirca 30 film, sono il regista con il quale ha lavorato di più nella sua vita. Ha contribuito a fornire un’anima ai miei film, carica di sentimenti e di un’emotività che prima non avevano. Montavo la sua musica sulle riprese e levitavano, raggiungevano l’emozione; per questo io a Riz debbo tantissimo. Il nostro era un rapporto tra musicisti – nonostante abbia smesso di suonare sono un cultore della musica – così gli suggerivo quali suoni o atmosfere ricreare, quali artisti ascoltare tra Béla Bartóko Miles Davis, e lui immaginava un mondo musicale solo per quel film. Riz era straordinario nell’arrangiamento degli archi, aveva questo grande dono.

A settembre uscirà il suo ultimo film, Dante, che narra della vita del sommo poeta in uno scenario post mortem attraverso gli occhi di un giovane Boccaccio; come ha trovato l’ispirazione per affrontare in maniera così “inedita” e singolare un personaggio tanto conosciuto?

Tanto conosciuto e così poco indagato, perché nonostante le biografie dantesche siano infinite il Dante “umano” è raccontato pochissimo, quando in realtà non era così difficile desumerne il carattere. I gesuiti dicevano: “Dammi un bambino i primi cinque anni della sua vita e sarà nostro per sempre”; Dante ha vissuto la sua infanzia nel dolore per aver perso la madre a 5 anni e gli furono imposti una matrigna e un fratellastro; poi incontrò questa Beatrice, della quale si innamorò, e lei si sposò con un altro; non era difficile intuire che la sua grande sensibilità poetica derivasse da tutto il dolore patito. Perché il dolore è un percorso attraverso il quale ci si forma. Non è da augurare a nessuno, certo, però le persone più profonde sono tutte transitate attraverso il dolore. Ho quindi voluto raccontare un Dante giovane e autentico in cui ci si possa riconoscere. Corrado Augias, alla fine della prima proiezione a Roma, mi disse: “Dopo 80 anni, finalmente Dante non mi è più antipatico.”

Da quale scuola o movimento cinematografico è maggiormente affascinato?

Ho cercato di liberarmi dalla fortissima influenza che ho avuto e dalla fascinazione che ancora ho nei riguardi di Federico Fellini: se faccio cinema è perché ho visto 8; non avrei mai immaginato che il cinema fosse una cosa del genere. Per i primi anni della mia attività venivo definito “il giovane regista felliniano”, poi via via oltre all’aggettivo “giovane” anche “felliniano” è scomparso, perché ho trovato un mio tono di voce, una mia calligrafia, ma non è stato facile: i maestri sono importanti, ma è importante anche liberarsene. Non si può rimanere allievi tutta la vita.

Tra musica e cinematografia c’è un sodalizio che in qualche maniera oggi va avanti anche attraverso la produzione di video musicali. C’è un brano nel panorama nazionale di cui le piacerebbe dirigere la componente visiva?

Più di uno. Ci sono molti brani ne L’alta Fantasia, la biografia che ho scritto; ogni capitolo è accompagnato da un suggerimento musicale, c’è una sorta di playlist composta da pezzi che ascolto mentre scrivo, e già da lì si desume la grandezza della mia passione; non c’è un brano unico, ci sono brani che variano a seconda delle mie emozioni, di cosa sto scrivendo e di cosa provo, anche se è evidente che i miei riferimenti musicali sono tutti nella musica classica e nel jazz. La musica popolare non mi incuriosisce, non produce in me le stesse emozioni.