A tu per tu con Dente

Ricordi, tempi passati, mainstream e immagini

Un trittico di canzoni tra passato e presente, tra ironia e malinconia: Giuseppe Peveri, in arte Dente, si è esibito sul palco di Musicultura – al Teatro Persiani di Recanati, in occasione del Concerto dei sedici Finalisti del Festival – con tre dei suoi brani: Invece tu, La vita fino a qui e Allegria del tempo che passa. Reduce dall’uscita – lo scorso 7 aprile – del suo nuovo album, Hotel Souvenir, il cantautore fidentino ci ha raccontato di come sia cambiato il suo rapporto con lo scorrere del tempo e di come quest’ultimo possa svelare le contraddizioni dell’animo umano. Siamo poi passati a parlare di musica, di artisti e di come non si dovrebbe mai perdere la propria unicità lungo la strada. Così, nell’intima atmosfera di un palchetto, ha risposto alle nostre domande.

In altre interviste hai descritto il tuo nuovo album, Hotel Souvenir, come “il disco della consapevolezza” e uno dei suoi temi centrali è il tempo. Ecco, com’è cambiata la tua consapevolezza rispetto all’inevitabile scorrere di quest’ultimo?

Il mio rapporto col tempo che passa è sempre stato abbastanza tragico, però a oggi lo vivo sicuramente con meno malinconia: anni fa, ripensando al passato, provavo solamente la nostalgia di qualcosa che si era perso, qualcosa di irrimediabilmente irrecuperabile, e ciò suscitava in me il desiderio di tornare a riviverlo. Pian piano questa nostalgia è sfumata, è andata ad attenuarsi sempre più, lasciando spazio a una visione più positiva, che mi ha dato la possibilità di concentrarmi meglio sul presente. E adesso vedo il passato come un percorso che mi ha portato a essere quello che sono oggi.

In uno dei versi di Allegria del tempo che passa nomini “la stupida paura di stare bene”; da cosa deriva questa “malattia” e, se esiste, qual è la cura per spegnerla?

Eh, a saperlo! (ride ndr).
Sì, la tratto come una malattia. Credo sia una caratteristica innata che abbiamo in tanti: pensiamo di temere solo le cose brutte e invece ci spaventano anche quelle belle. Per questo a volte ci auto-sabotiamo, per colpa di una paura che, magari, nemmeno riconosciamo; paura di avere successo, di riuscire nei nostri obiettivi, di stare bene, di mettere dei punti a capo. Queste cose ci spaventano molto e non dovrebbero, ecco.

Nel 2013 hai curato la rubrica radiofonica Perla Nascosta Hip Hip Hurrà, nell’ambito della quale proponevi all’attenzione degli ascoltatori un brano italiano ormai dimenticato o poco conosciuto. Spesso si tende a sottolineare la differenza tra musica mainstream e musica meno commerciale, ma di maggior qualità; pensi che questa distinzione sia ancora attuale o si può considerarla ormai superata?

Il discorso è molto ampio. Sicuramente ci saranno sempre, per fortuna, artisti che non puntano esclusivamente al mainstream. Purtroppo in questo periodo storico sono una rarità. Sembra che il percorso musicale debba essere uguale per tutti. Invece ognuno deve intraprendere la propria strada, lungo la quale far emergere la propria unicità. Infatti gli artisti sono belli perché sono vari. Alcuni abbracciano un pubblico più vasto e sono più popolari, altri meno. Ma non è un fallimento. Secondo me è come una biodiversità: è utile all’ecosistema. E invece, negli ultimi anni, sembra che questa specie di musicisti noncurante del mainstream sia in via di estinzione. Non voglio fare l’anziano che brontola “era meglio prima” poiché non è vero. Però credo che nella testa degli artisti si sia assottigliato il concetto “faccio la mia strada, vado dove vado” e che ora sia “voglio fare la mia strada per arrivare lì”. È molto diverso.

Le tue esperienze di scrittura non si limitano solo a quella delle tue canzoni; infatti, fra le altre cose, nel 2015 hai pubblicato il tuo primo libro, Favole per bambini molto stanchi. Come ti sei trovato a scrivere qualcosa non destinato a essere messo in musica? Quali sono le differenze fra i due processi creativi?

Sono due processi molto diversi. La differenza principale sta nel suono. A volte alcune parole messe in  musica suonano bene, non solo per il significato che hanno, ma anche per come si legano con le note. Nel caso della musica il suono è sempre esplicito, sia quando la si compone, sia ovviamente quando la si ascolta. Nel caso del libro, invece, il testo viene scritto in silenzio per essere letto allo stesso modo. Ma la musicalità c’è comunque, si tratta semplicemente di un suono interiore, che è nella testa di chi legge.

Musicultura è il Festival della musica popolare e d’autore. Quanto credi sia importante valorizzare la canzone italiana?

Ovviamente molto, sarebbe sciocco dire il contrario. È giusto e bello che ci siano eventi come Musicultura. Ora forse ce n’è anche la necessità. Infatti in passato era più facile esibirsi di fronte a un pubblico, visto che nei locali si tendeva a dare fiducia anche a cantanti e gruppi sconosciuti. Ecco, penso che questo tipo di apertura verso gli artisti emergenti oggi ci sia un po’ meno. Credo che realtà come Musicultura siano una cosa preziosa, di cui il mondo musicale ha fortemente bisogno per poter continuare a crescere e ad arricchirsi.

Sei un appassionato di fotografia e hai un profilo social dove pubblichi i tuoi scatti. Inoltre la tua discografia rivela una cura nel dettaglio di copertine e video musicali. Che nesso c’è per te tra la musica e l’immagine?

Il nesso tra la musica e l’immagine secondo me è molto forte. Ciò che vediamo influenza notevolmente il modo in cui ascoltiamo una canzone. È decisamente diverso compiere questa azione giovevole in riva al mare, oppure su un treno regionale senza aria condizionata: cambia la percezione di quello che si vive in quel momento e di quello che si ascolta. In questo senso, anche l’immagine delle copertine dei dischi è molto importante.  A volte diventano più famose degli album stessi. Per esempio la mucca dei Pink Floyd: è la foto di una mucca che però è passata alla storia. Sicuramente ci saranno più persone che hanno visto la copertina rispetto a quelle che hanno ascoltato il disco. Allineare immagine e musica crea una bella alchimia. E se il nesso tra le due, che ha senso nella testa dell’artista, è comprensibile anche per gli ascoltatori, abbiamo fatto bingo!