Dardust a Musicultura. Un viaggio tra Giappone ed elettropop, psicologia e dualità

L’intervista rilasciata da Dario Faini alla redazione del festival

Dualità è la parola d’ordine, Duality il titolo del suo ultimo progetto da solista. Dario Faini, in arte Dardust, ha costruito un tassello dopo l’altro la sua carriera spaziando tra generi e influenze differenti, e mostrandosi al pubblico attraverso le due anime che lo contraddistinguono: pianistico-minimalista la prima ed elettronico-sperimentale la seconda. Autore e produttore di alcuni tra i più importanti nomi del panorama musicale contemporaneo – Mahmood, Elodie, Ermal Meta, Mengoni, ma anche Sophie and the Giants – ha riempito palchi d’Italia e d’Europa con le sue sonorità adrenaliniche e coinvolgenti.
Arriva sul palco dello Sferisterio come ospite della seconda serata finale della XXXIV edizione di Musicultura, travolgente e suggestivo nei suoi colori elettropop e immerso in una scenografia di luci, tamburi e influenze giapponesi dai timbri al vestiario. È così che ha entusiasmato, e fatto ballare, il pubblico della serata, ribadendo l’importanza del Festival nel suo intervento dopo l’esibizione e dichiarandosi onorato di calcare un palco su cui, da emergente, non era mai riuscito a esibirsi. Questa la chiacchierata con la Redazione di “Sciuscià”, in un intreccio di idee musicali e spirituali.

Sei ospite allo Sferisterio di Macerata durante uno degli eventi più importanti per le Marche: Musicultura. Che effetto ti fa prendere parte al Festival, nella tua regione, praticamente a pochi passi da casa?

Mi fa davvero un bell’effetto, anche se ormai vivo a Milano da anni e torno poche volte in Ascoli. Suonare allo Sferisterio è qualcosa di importante e al tempo stesso inatteso, soprattutto perché agli inizi – vent’anni fa più o meno – cercai più volte di passare la selezione del Festival proponendo le mie canzoni con la band dell’epoca, ma fui sempre scartato. Oggi invece sono sul palco in veste di ospite. Devo dire che è un bel risultato per me, una bella gratificazione, essenziale per capire quanto delle volte la vita sia inaspettata e i percorsi che la creano non siano mai del tutto logici.

In un’intervista hai spiegato come, in ambienti più puristi della musica neoclassica ed elettronica, non venga vista di buon occhio la capacità di produrre brani pop, “hit” commerciali, creando un pregiudizio nei confronti di chi, come te, ha interesse nell’approcciarsi a entrambi i mondi. Si tratta di una concezione fortemente limitante della musica in sé, ma anche della contaminazione di generi che porta alla vera sperimentazione. Ti va di approfondire questo punto di vista?

Sì. Penso che nelle nicchie puriste-estremiste del genere neoclassico – chiamiamola pure musica contemporanea – così come di quello elettronico, sia insita l’attitudine un po’ radical chic di snobbare artisti che prediligono la contaminazione, che riescono a vivere e a essere vincenti in diversi contesti. Chi scrive una hit pop prima, e decide di dedicarsi a un progetto sperimentale poi, crea una sorta di spaccatura nel sistema e non convince proprio per questa diversificazione di interessi. Allo stesso modo, nel mio percorso come Dardust, la volontà di parlare a un pubblico trasversale, più generalista, potrebbe sembrare poco cool. Personalmente sono riuscito a non dare troppo ascolto a questo tipo di pareri, specialmente perché, suonando in Italia e in Europa, ho capito quanto la mia musica possa parlare alle nicchie così come a un pubblico più ampio, senza distinzioni. Nel percorso artistico-creativo è bene essere ambiziosi, sperimentare, lasciarsi condizionare è invece altamente limitante. Ci sono dei colori interessanti nelle nicchie che sarebbe bello riportare a un uditorio vasto, è così che si sposta il pop verso il futuro.

L’esibizione

Profonda è la tua conoscenza della cultura giapponese e delle pratiche a essa legate – quali il Dàimoku, pratica meditativa del buddhismo – con influenze ben riconoscibili anche a livello musicale e performativo. Qual è stato il primo legame con questo territorio, e da cosa sei attratto in particolare?

Il mio passaporto per il Giappone, a un livello più adolescenziale-superficiale, sono stati i film di Miyazaki e tutta l’animazione giapponese. Da lì, crescendo, ho portato avanti una ricerca sempre più profonda e importante sul lato spirituale. Essendo anche un laureato in psicologia, quindi avendo una parte molto razionale, ho sempre sentito il bisogno di colmare un vuoto nella sfera opposta, di indagare la spiritualità: è lì che risiede qualcosa in più, al di là della nostra portata, della nostra razionalità e della nostra conoscenza. Quella è stata in effetti la chiave per farmi sopravvivere, per riuscire a guardare ai fallimenti come risultati e non come disastri, a imparare dagli errori e perseverare con atteggiamento costruttivo e spinta positiva. Credo che il buddhismo, in questa sua declinazione giapponese, sia stato per me il gancio fondamentale con questa terra.

La pluralità di riferimenti ti ha permesso di maturare una visione musicale originale, ad oggi una delle firme ben riconoscibili nel panorama italiano. Firma che, lo abbiamo appena detto, porta con sé anche una laurea in psicologia: questa scienza mentale ed emotiva influisce in qualche modo nella gestazione musicale?

Influisce eccome. Permette di cambiare prospettiva, sviluppare l’empatia, immedesimarsi in chi ascolta. Con una buona conoscenza della psicologia dell’ascolto e le sue varie declinazioni, ad esempio, si riesce ad avere un approccio variegato, una marcia in più proprio in fase costruttiva. Soprattutto, aiuta a capire quando gli stimoli creativi arrivano dall’inconscio, in maniera puramente emotiva e autentica, o quando al contrario si tratta di un prodotto dell’ego e delle sovrastrutture del cervello. Ecco, è come un terzo occhio a livello spirituale, come avere a disposizione una telecamera ad ampio raggio dall’alto che aiuta a comprendere i meccanismi in cui si è immersi, a individuarli e valorizzarli.

Tutti i tuoi dischi nascono “come forma di catarsi dai momenti scuri”: si potrebbe dire che Dardust curi Dario?

Sì, assolutamente. Dardust cura Dario, è l’alter ego illuminato, il pioniere, il coraggioso tra i due, il mio Spiderman. È il lato di me che mi porta a essere quello che sono. La cosa bella è che più passa il tempo, più Dario e Dardust si fondono: il mio lavoro in questo senso permette un avvicinamento continuo al proprio ideale, avanzando quanto più avanza la maturità. È un bel percorso.