Vent’anni dopo: Simone Cristicchi a Musicultura

Una Studentessa universitaria. E un viaggio intimo tra parole, canzoni e storie di vita

Musica, teatro. Ricordi. Ironia e poesia. Risate e commozione. Questi gli elementi che hanno caratterizzato l’incontro di ieri sera di Simone Cristicchi con il pubblico de La Controra. Intervistato dal giornalista Andrea Scanzi, il cantautore è tornato vent’anni dopo sul palco di Musicultura, dopo la sua vittoria del Festival con Studentessa universitaria. Lo ha fatto nell’ambito di un evento dedicato ripercorrere la strada che da quel lontano 2005 l’ha portato a essere uno degli artisti più apprezzati nel panorama musicale italiano. Così, Cristicchi si è raccontato con la sincerità che lo contraddistingue, ripercorrendo le tappe più significative della sua carriera: dall’elaborazione del dolore personale all’impegno civile, dall’amore per il disegno alla musica, fino alla creazione di un linguaggio creativo capace di unire poesia, denuncia sociale, ironia. Tra un aneddoto e una canzone, ha condiviso con una platea numerosa e attenta il senso più autentico del suo percorso: quello di un uomo che ha trasformato la fragilità in forza espressiva e l’arte in strumento di cura. Tenendosi legato stretto a un fil rouge: la condivisione.
Ecco cosa ha raccontato alla redazione di Sciuscià prima di salire sul palco.

La sua è una carriera fatta di parole, storie, memoria, e di un modo del tutto personale di stare in scena. Se dovesse tracciare una linea che unisce il suo primo disco al suo lavoro più recente, quale sarebbe secondo lei il filo rosso che tiene tutto insieme?

Il filo rosso è la condivisione. La condivisione di tutto quello che fa parte del mio mondo, della mia dimensione interiore, con un pubblico composto da persone che magari si rivedono – o almeno si incuriosiscono – in ciò che riesco a creare. È questo il motivo per cui faccio questo mestiere, chiamiamolo così: una forma di condivisione. Ed è proprio questo che per me conta davvero.

Ti regalerò una rosa, brano con cui ha vinto Sanremo nel 2007, ha portato all’attenzione del grande pubblico un tema delicato come il disagio psichico. In un’epoca in cui si cerca sempre di “mostrare” la parte più forte e felice di sé, pensa che la fragilità, se raccontata con sincerità, possa ancora creare connessioni autentiche con il pubblico?

Mah, questo non lo so. Oggi c’è molta diffidenza, è vero. Però c’è anche un pubblico che sa percepire quando qualcosa è autentico e quando invece è costruito, falso. Quindi direi: metà e metà. La fragilità, comunque, è la parte più autentica che c’è in ognuno di noi. E quando riusciamo davvero a toglierci la maschera, a mostrarci per quello che siamo, è proprio lì che diventiamo perfetti.

Il pubblico la segue con affetto e attenzione da anni, anche perché percepisce una forte autenticità nel suo modo di fare arte. Quanto conta, secondo lei, restare fedeli a se stessi in un percorso artistico che dura nel tempo?

Restare fedeli a se stessi è fondamentale. Bisogna costruire una propria credibilità, anche se questo comporta dei rischi. Perché spesso capita che chi finge o interpreta un personaggio abbia un grande successo, mentre chi resta autentico può ottenere meno visibilità o riconoscimenti. Però, io la vedo così: è molto meglio essere un anonimo perbene piuttosto che un mediocre di successo.

Nei suoi progetti ricorre spesso il desiderio di portare alla luce memorie sommerse, voci dimenticate. Che cosa la colpisce in queste vicende e perché sente il bisogno di riportarle alla luce attraverso la sua arte?

Il bisogno che sento è quello di restituire dignità a certe cose che sono rimaste nell’ombra, quindi portarle alla luce in modo che possano avere nuova vita. Secondo me, l’artista ha un grande privilegio: quello di poter dare voce a chi voce non ce l’ha. Per questo, chi scrive canzoni o fa musica e teatro, come me, può scegliere di mettersi al servizio di storie nascoste, di persone e realtà più fragili e dimenticate.

Musicultura è da sempre un luogo dove i giovani artisti possono far sentire la propria voce. Se un cantautore agli inizi le chiedesse da dove partire, quale sarebbe secondo lei il primo passo da fare per costruire un percorso autentico nella musica e restare fedeli a ciò che si ha davvero da dire?

Secondo me, come dicevamo prima, è davvero importante restare fedeli a se stessi, senza copiare nessuno o diventare il clone di qualcun altro. È fondamentale. Inoltre, non bisogna inseguire a tutti i costi il successo, perché può essere una specie di lama a doppio taglio, con dei lati negativi. La cosa più importante è godersi il fatto di poter fare musica, di poter creare, anche solo questo. Non è necessario rincorrere il successo, che a volte può essere solo un incidente di percorso.