Cosa resta di vero nella musica, quando tutto sembra costruito per colpire?
In un’epoca in cui la spontaneità rischia di essere sopraffatta dall’ossessione per l’apparenza e dalla caccia alla visibilità, l’autenticità artistica diventa un atto rivoluzionario. È in questo contesto che Riccardo Cocciante si racconta: con la forza silenziosa e intensa di chi ha sempre preferito la sostanza all’impressione. Classe 1946, emigrato da bambino dal Vietnam alla Roma degli anni ’60, Cocciante è un artista che ha attraversato generazioni, stili e rivoluzioni culturali senza mai perdere la sua voce interiore; con una sensibilità segnata dalle radici miste e da un’infanzia sospesa tra mondi diversi, ha scelto fin da subito di camminare controcorrente. Canta ciò che sente, non ciò che conviene. Respinge mode passeggere, rifiuta imitazioni, si tiene lontano dai riflettori della banalità. Da oltre mezzo secolo porta avanti la sua idea di musica come linguaggio dell’anima, non come prodotto da confezionare.
E forse, in fondo, è proprio questa la sua lezione più grande: che la musica, quando nasce dall’anima, non ha bisogno di filtri per toccare il cuore.
Se fosse oggi un artista emergente, cosa crede che le piacerebbe portare su un palco come quello di Musicultura?
Cosa posso portare, se non me stesso? Non mi sono mai rinnegato da quando ho cominciato. Non ho mai cercato di seguire le mode, e forse è proprio per questo che, in un certo senso, sono ancora attuale. Cerco semplicemente di restare fedele a ciò in cui ho sempre creduto: essere sinceri con se stessi ed esprimersi liberamente, senza imitare gli altri né cercare scorciatoie per entrare nel sistema o adattarsi a ciò che va di moda.
Infatti in un’intervista a TV Sorrisi e Canzoni lei ha dichiarato: «Oggi c’è troppa attenzione al look, sei sul palco perché hai un’anima […] una canzone deve valere per ciò che è». Secondo lei, cosa si è perso nella musica di oggi rispetto a quella di quando ha iniziato? E, al contrario, cosa si è guadagnato?
Ai miei tempi la musica era un vero e proprio artigianato. Oggi, invece, mi sembra sia diventata troppo industriale. Si pensa troppo al successo immediato. Per me, il successo è qualcosa che si conquista con il valore, non un obiettivo da inseguire a tutti i costi. Quando si cerca di ottenere un successo a tavolino, si rischia di essere opportunisti — e purtroppo succede spesso. Io, al contrario, amo quando i giovani artisti mi propongono qualcosa di completamente nuovo, capace persino di sconvolgermi. È questo che considero una vera novità: una proposta originale, che non ripeta ciò che abbiamo già sentito in passato. Oggi vedo una corsa continua al successo, e in parte lo capisco, perché agli artisti non è più concessa la possibilità di sbagliare. Ma all’inizio un artista ha bisogno di tempo per capire chi è, dove si trova, cosa vuole esprimere. Noi, un tempo, avevamo questa libertà; oggi invece le etichette discografiche la concedono sempre meno: se non fai subito un successo, vieni scartato. Io credo, invece, che l’artista debba avere il tempo di maturare. Serve intuito per riconoscere il talento, e una volta individuato, bisogna investirci, lavorarci insieme, andare avanti. Ma purtroppo questo accade sempre più raramente.
Lei ha sempre dato grande spazio alla melodia e alla voce umana. In un’epoca dominata da beat elettronici e intelligenza artificiale, che ruolo vede ancora per la voce imperfetta, viva, umana?
Credo sia fondamentale creare una fusione tra uomo e tecnologia. Ho sempre amato la tecnica, fin da quando, anni fa, uscirono i primi sintetizzatori: fui tra i primi a sperimentarli. Questa fusione tra uomo e macchina è necessaria. Non possiamo fare a meno della tecnologia, ma nemmeno la tecnologia può fare a meno di noi, degli esseri umani, con tutte le nostre imperfezioni. E proprio l’imperfezione, a volte, è ciò che rende un’opera vera e autentica. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola di esagerare con la tecnica, come accade quando si abusa dell’autotune. Va bene usarlo come effetto creativo, ma non per nascondere i difetti. Ai giovani dico: andate avanti, sperimentate, ma ricordate sempre che l’elemento umano è ciò che rende la musica — e l’arte — davvero unica e bella.
Nel corso della sua carriera ha scritto per e con grandissimi artisti. C’è una collaborazione mancata, un artista che avrebbe voluto incontrare artisticamente, ma che non ha mai avuto occasione?
Ho avuto il piacere di conoscere Mina e di collaborare con lei, ma non ho mai incontrato Battisti, eppure l’ho sempre amato moltissimo. Nel corso della mia carriera ho incontrato tanti grandi artisti, che considero colleghi, non rivali. Ho lavorato con Venditti, ho fatto concerti con lui, con De Gregori e molti altri. La cosa più bella, secondo me, è che ognuno di noi è diverso. Non c’è competizione, perché ognuno ha la propria identità, il proprio spazio. L’Italia ha artisti straordinari, ma anche all’estero ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti francesi eccezionali. Quello che ho sempre apprezzato è proprio questo: non c’è nessuno che mi somigli, così come io non somiglio a nessun altro. Alla fine, siamo come isole. E restiamo isole.
Notre-Dame de Paris sta per tornare in scena in Italia a oltre venticinque anni dal suo debutto. Quali emozioni prova nel vedere quest’opera ancora così viva e attuale?
Sono emozionato, perché davvero non avrei mai immaginato tutto questo, quando abbiamo iniziato. Come dicevo prima, non si cerca il successo: si cerca l’autenticità. Abbiamo scritto quest’opera — io e l’autore francese — con amore, con sincerità, senza l’intento di stupire o di portare in scena qualcosa di straordinario. L’abbiamo fatto con verità. E credo che il pubblico lo percepisca. Sente che nella scrittura c’è qualcosa di profondamente artistico e autentico. Il nostro intento era offrire una lettura di Notre Dame de Paris attuale, ma che contenesse anche il passato e persino un’idea di futuro. Notre Dame de Paris non ha tempo: lo si capisce anche dagli arrangiamenti, dove convivono elementi moderni, come la chitarra elettrica, con strumenti antichi, come le percussioni di due secoli fa o il liuto. È un intreccio di epoche, un dialogo tra passato e presente. Forse è proprio questo uno dei segreti del suo successo. Ma c’è anche la forza della rappresentazione: ballerini straordinari, coreografie splendide. E poi c’è una fusione particolare tra persone molto diverse. Io e l’autore veniamo da mondi opposti, il regista da un altro ancora, legato all’underground. Il coreografo viene dalla danza classico-moderna. Insomma, sensibilità e stili diversissimi che si sono uniti e alla fine è successo qualcosa di inaspettato. Io lo chiamo il ‘miracolo Notre Dame de Paris’, perché sarebbe potuto non succedere nulla, e invece è successo tutto. Il pubblico se n’è accorto, si è affezionato, non l’ha più lasciato. Tanto che oggi, possiamo dirlo, Notre Dame de Paris è diventato un classico.