“A Musicultura una mia fragilità è stata premiata”: Alessio Arena si racconta a qualche anno dalla vittoria

Partenopeo di nascita e catalano di adozione, sempre oscillante tra penna e chitarra, Alessio Arena racconta di sventure di mare e storie contadine di rinascita, di studenti inglesi ed esuli cubani pronti al nuovo, di paesi alla deriva, di chimere e migrazioni, di lingue diverse che tentano sempre una convivenza pacifica. La sua biografia, sia artistica che umana, sembra divisa in due polarità differenti ma in realtà mai in conflitto, anzi in dialogo in maniera quasi complementare. C’è una Napoli dei ricordi d’infanzia e una Barcellona matura e vissuta, due città separate e collegate dallo stesso Mar Mediterraneo, abbracciate dalle stesse sonorità di porto e dalle stesse cronache di mare, colpite dagli stessi drammi sociali. E poi, c’è la composizione musicale e il lavoro editoriale, entrambi frutto della ricerca sul linguaggio e sulla parola, dalla forma-canzone alla traduzione letteraria. La sensazione però è che questa duplicità nella produzione di Arena goda sempre delle potenzialità inedite delle zone d’ombra in cui nulla è certo; che quindi i banali limiti della divisione non si palesino mai sul serio, ma vincano anzi i vantaggi di questa doppiezza e le ricchezze degli spazi di frontiera, di nuovi terreni stabili che sono paradossalmente proprio quelli degli spostamenti o delle migrazioni, di una forma di arricchimento sempre in itinere e frammentata, e per questo sempre autentica. Si gode di lingue misteriose e di sonorità di confine, addirittura di viaggi interstellari, anche nella canzone “Tutto quello che so sui satelliti di Urano”, quella che anni fa, nel 2013, valse ad Arena il Premio assoluto a Musicultura. E proprio da quell’anno cominciamo questa breve chiacchierata con il cantautore.

Con “Tutto quello che so sui satelliti di Urano” vinci Musicultura2013 e il premio Afi per il miglior progetto discografico. Subito dopo è arrivata la menzione alla Targa Tenco per la migliore opera prima per il disco Bestiari(o) familiar(e) e diversi riconoscimenti ottenuti al Premio Parodi della World Music. Insomma, Musicultura sembra aver portato bene. Cosa pensi possa offrire un’esperienza del genere a un cantautore?

Si tratta di una buona presa di coscienza della musica d’autore prodotta in Italia, un momento prezioso di condivisione per chi dedica il proprio tempo a questo e spesso si isola, resta concentrato sulle proprie fonti d’ispirazione e si perde quello che gli suona intorno. L’anima vera di questa manifestazione è l’incontro con altre realtà musicali, credo sia il ricordo più importante che un artista che vi partecipi possa poi tenere con sé. Nel mio caso è stato tutto molto – troppo – emotivo, perché credo che il mio “racconto” possa rischiare di perdersi su di un palco grande e, soprattutto, di fronte al giudizio di una giuria. Nei tempi di Musicultura vivevo già tra due paesi, né in Italia, né in Spagna, tra due lingue e culture e con le idee poco chiare sul cammino da intraprendere per il futuro. Forse, è stata proprio questa fragilità – anche istrionica, a modo suo – a essere premiata.

A uno scrittore di professione, che da sempre fa della commistione tra letteratura e musica il proprio cavallo di battaglia, viene spontaneo fare una domanda: perché scegliere proprio (e anche) la forma-canzone, tanto sintetica e potenzialmente tanto pericolosa? Quali sono le sue potenzialità?

Su questa commistione, questo sincretismo del racconto, ci lavoro ancora e sospetto di averne per molto. Muoversi tra il romanzo e la canzone non è mai un percorso unidirezionale. Si potrebbe credere che si vada dalla costruzione complessa di una trama ricca di personaggi e con un’ambientazione precisa alla semplicità espressiva di un racconto musicale declinato nello spazio di poche strofe e ritornello. Ma spesso uso le mie canzoni per introdurre le storie che mi propongo di arricchire nei romanzi. La forma-canzone è il lascito delle nostre tradizioni orali, il patrimonio più ricco. Fare letteratura con canzoni ci pone sempre di fronte al sacrificio della semplicità di questo tipo di espressione popolare. Ecco, credo che questo sacrificio debba essere sempre minore, fino a farlo quasi sparire. La canzone non può perdere la sua immediatezza, ma forse la sua lacunosità: sarebbe bello poter ascoltare canzoni che sono non solo poesie, ma anche brevi romanzi, che sviluppino una trama anche solo per raccontare un sentimento.

A leggerla, la tua biografia sembra un’altalena continua tra l’uscita di un disco e quella di un romanzo. Preferisci scrivere libri o andare in sala di registrazione? E soprattutto, rispettando questo calcolo, dovremmo aspettarci un nuovo album a breve?

Non amo molto il tempo speso in una sala di registrazione: troppe cose in ballo in poco tempo, e poi sono una frana a gestire prove, orari, calendari dei musicisti. Se immagini che i miei dischi sono stati sempre realizzati in più paesi, puoi capire che qualche mal di testa in più l’ho avuto. Io sono un lettore, prima e dopo di tutto. Non esiste niente che sia paragonabile allo spazio vitale che mi piace dedicare ai libri. Ovviamente non parlo dei miei, o, meglio, non solo dei miei. La cosa che più mi appassiona di scrivere romanzi è la biblioteca che uno deve creare come struttura di un nuovo progetto, gli ipotesti che alimenteranno quella storia, le ricerche che ti portano da un autore all’altro, da un’autrice all’altra, a viaggiare nei posti più impensabili e a conoscere persone che non avresti mai osato immaginare.

I calcoli sono ben fatti, sì. Un disco nuovo è pronto. Adesso dovrebbero mettersi in marcia una serie di meccanismi per farlo uscire, che non dipendono da me. È il disco che ha una maggiore quantità di canzoni in italiano, un ritorno a casa che, nella mia biografia, è un’evocazione costante.

Una laurea in Iberistica, un paio di master in Spagna di specializzazione sulle letterature in lingua spagnola e per l’insegnamento, diverse traduzioni, anche per Neri Pozza, ben cinque libri a tua firma: come è andato l’ultimo romanzo uscito questo settembre, “Ninna nanna delle mosche” (ed. Fandango, 2021)?

È ancora appena nato, per me. E spero lo sia per molti altri lettori che verranno. È una storia ambientata tra la Lucania e il Cile degli anni ‘20 del secolo scorso. Ho cercato di ricreare il racconto avventuroso di un amore tra due contadini, Berto Macaluso e Gregorio Zafarone, rivoluzionari per la cifra di valore che li caratterizza. La loro è, in realtà, la storia di molti uomini e donne. Silenziati dal discorso ufficiale, negati e censurati, molto prima di noi ebbero il coraggio di vivere liberamente. Credo sia necessario ricordarlo se ancora oggi essere sé stessi è visto come una minaccia per l’integrità di un sistema sociale basato sulla bugia, la condanna e la stigmatizzazione delle diversità. Così come ho fatto con il romanzo precedente, “La notte non vuole venire”, cerco di raccontare questo libro accompagnando alcune letture con canzoni e con il linguaggio audiovisivo (Filmati d’archivio e un documentario di Luigi di Gianni, “Magia Lucana” del 1958), a modo delle antiche sonorizzazioni di film muti. Questo romanzo, del resto, è stato anche introdotto da una canzone, un singolo che ho pubblicato mesi prima della pubblicazione. Si intitola “Il paese che non c’era” e l’ho cantata al Premio Tenco quando di Gregorio e Berto avevo solo una vaga idea.

E proprio nel brano “Il paese che non c’era” racconti «Mi dispiace, ma trovo insultante questa pretesa di purezza e di ostentata identità». C’è dell’autobiografico?

Certo. Un po’ c’è quello che ho vissuto e vivo io, anche se mi considero un emigrante di prima categoria, visto che ho un passaporto europeo e non ho dovuto soffrire discriminazioni considerevoli, quando ho lasciato il mio paese. Affrontare concetti come identità nazionale, sessuale, di genere, oggi diventa sempre più complesso e delicato. La canzone, subito dopo, dice: “Tutte le nazioni hanno mentito, mischiando nel passato le proprie verità”. Intendo parlare delle persone migranti dal sud del mondo e delle difficoltà che incontrano nei paesi che li accolgono con discorsi di odio e molti ostacoli per la loro integrazione.

A noi puoi dirlo, ti manca Napoli?

Non direi semplicemente che mi manca. Ne sono orfano. Ci ritorno diverse volte in un anno, quando ho concerti e presentazioni di libri anche ogni mese. Ma sono diventato un altro napoletano, un altro italiano. Persino la lingua che parlo è diversa. Sembra assurdo, ma ci si sente stranieri quando si torna. E si è stranieri nel paese dove si è scelto di vivere. Napoli è il luogo idealizzato della mia infanzia. Per me, è diventata una mitologia.

Loretta Paternesi Meloni