Intervista: a tu per tu con Cassandra Raffaele

La musica, una «rivoluzione di cura»: il ritorno di Cassandra Raffaele a Musicultura

Anima rock, sonorità blues, contaminazioni elettroniche e immaginario cantautorale onirico e ironico,  Cassandra Raffaele è una vecchia conoscenza di Musicultura: selezionata tra i finalisti e poi tra i vincitori nel 2013, ritorna a calcare il palco del Teatro Persiani di Recanati a distanza di 9 anni. Qui di seguito, le risposte dell’artista alla nostra intervista.  

Curiosando nel tuo profilo Instagram mi sono imbattuta in un video in cui racconti il tuo percorso musicale in maniera molto sincera, autoironica e intelligente. Affermi che 5 sono i progetti in cantiere in questo periodo, 4 i singoli usciti, 3 i video ufficiali, 2 gli anni intensi e vuoti in cui tutto è accaduto e non è accaduto, 1 il mese in cui «non accadrà più che non accadranno cose». Come pianifichi, o non pianifichi, i tuoi progetti di vita e che rapporto hai con numeri e scadenze? 

Tendo a organizzare tutto, prendere appunti in ogni formato digitale o cartaceo, abbastanza rigidamente, perché ho poca memoria e sono un po’ distratta. Ma ho fatto passi da gigante, per assurdo da quando faccio musica. Adoro scrivere i miei progetti, ancora prima di costruirli e vederli nascere, e so chiaramente che se non mi autodetermino con impegno costante non realizzo nulla, come un’artigiana che gestisce la propria bottega. In questi ultimi anni molti dei miei programmi personali e artistici purtroppo sono saltati, ma ho imparato che esiste anche il pulsante “standby” che significa “quiescenza”. Energia al riparo, che non significa progetto perso. Il tuo progetto è sempre lì, tutto scritto, pronto per essere realizzato a tempo debito.

Mi sembra che movimento, libertà e (re)invenzione siano le parole chiave che ti descrivono. Il tuo percorso ha attraversato i paesaggi più disparati – dalla natia Sicilia a Cesena a Londra, dal palco di X Factor nel 2010 a quello di Musicultura nel 2013, dove ritorni quest’anno. Il viaggio era un tema centrale del brano Le Mie Valigie presentato alla XXIV edizione del Festival e dell’album in cui è confluito l’anno successivo. Come si è evoluto il tuo viaggio dalla prima partecipazione a Musicultura a quella di quest’anno e cosa ti aspetti di mettere ne le tue valigie questa volta? 

Userò due parole per descrivere l’evoluzione del mio viaggio: velocità e punto di vista. Ho provato l’ebrezza dell’andare veloce, due dischi nel giro di 2 anni, 4 tour. Ho vissuto lo stato incredibile di “particella accelerata” a Londra, trovando nel caos della quotidianità metropolitana energia e stimoli nuovi. Mai tanta velocità fu così cara alla mia mente creativa e alla mia fame di conoscenza. Ho provato dopo, in modo forzato all’inizio, la lentezza infinita dei lockdown, quello stato di “domenica pomeriggio” che detesto. Ma ho capito, fortunatamente, che dovevo dargli un senso e che poteva tornarmi utile per cambiare punto di vista delle cose. Ho scoperto la bellezza della “passeggiata nella musica”, quella “antioraria”, l’opposto della corsa nella musica “oraria” che sfugge e dura poco. Quella lentezza che ti rigenera, fatta di cose semplici e di momenti per pensare, spesso atroci, perché fanno affiorare inquietudini, ma curativi. E nel mio caso, ripeto, è stato necessario che questo momento arrivasse dopo la corsa.

Spesso nelle interviste ti viene chiesto di pronunciarti in merito alla tua partecipazione a X Factor nel 2010 e tu affermi che i talent sono l’espressione – e non la causa – della crisi della musica come mercato indipendente e, anzi, di una crisi culturale e sociale più profonda. Il talent è uno spazio collaterale che può fare da trampolino di lancio o da cassa di risonanza, ma gli spazi della musica, dici, sono altri e si stanno spopolando sempre di più in seguito a un crescente immobilismo. Durante la pandemia, in cui l’immobilismo si è fatto legge e la “domesticazione” degli spazi è diventata una prassi, come sono cambiati secondo te gli spazi e i luoghi dell’arte?

I luoghi dell’arte credo siano cambiati con noi, con la nostra forte esigenza di sentirci sempre vivi e mantenere, di conseguenza, viva l’arte. E l’unico modo è stato cercare di mantenere un livello di comunicazione alto con chi ci circonda, usando tutti i mezzi possibili. C’è chi l’ha fatto aprendo le porte dei musei online, chi creando opere in spazi aperti, sui muri, filmando con i droni e condividendo il risultato sui social, chi facendo home session. Credo che in questo gli esseri umani abbiano dato prova della loro capacità di adattamento ai momenti ostili, che, come ci ha insegnato il buon Darwin, coincide con il concetto stesso di evoluzione.

Nel tuo intervento in qualità di speaker al TEDx di Cesena 2021 hai parlato del rapporto tra cervello e facoltà sensoriali nel processo compositivo, che è per te la creazione di un’atmosfera musicale che si colora e fa da cartina di tornasole di uno stato d’animo. Affermi che l’ingrediente principale di una canzone è l’immaginazione musicale e il segreto che la rende “bella” è la verità. Mi viene da chiederti: qual è il rapporto tra la tua musica, la bellezza e l’immagine in senso lato, intesa come immagine psichica di suono e di pensiero che affiora nel flusso creativo, ma anche come manifesto estetico che la cantautrice Cassandra Raffaele porta di sé sul palco? 

L’immaginazione è fondamentale per me, che sia acustica, visiva o onirica, volontaria o involontaria, il mio rapporto con la musica e il mio flusso creativo partono da lì, da tutto ciò che vedo, sento e ricordo con gli occhi. E questo la musica lo sa benissimo. É lei, forse, che vuole farsi “guardare” da noi. Dobbiamo solo tenere gli occhi ben aperti e non perderla mai di vista.

Nella canzone con cui sei stata selezionata tra i 16 finalisti di quest’edizione di Musicultura, La mia anarchia ama te, parli di «disordine perenne» da cui «nascono stelle», di «tempesta che genera vita» e «rumore che genera armonia». A chi è rivolta la tua dichiarazione d’amore rivoluzionaria e perché il soggetto di questo sentimento non sei tu ma la tua anarchia? 

Alla musica. Ho dovuto usare la mia parte “anarchica” per amarla tanto, proteggerla e rispettarla, in un momento personale in cui sentivo di non riuscire più ad averne cura. Ma poi è stata lei che mi ha “curato”, per assurdo. Mi auguro fortemente che questa canzone possa toccare il vissuto di chiunque intenda l’amore in questo senso, una rivoluzione di cura, una prova di coraggio e consapevolezza, contro ostacoli e paure.


Benedetta Rucci