Intervista: a tu per tu con Emit

«Semplificare la musica è quasi sempre un guadagno»: Emit a Musicultura 2022

Emit è un artista carismatico. Viaggiatore e cultore di suoni ed emozioni, ha iniziato da bambino a suonare la chitarra e a scrivere canzoni e non si è più fermato, fino ad approdare sul palco di Musicultura e a rilasciare alla redazione del Festival questa intervista.  

La maggior parte dei tuoi brani lascia molto spazio all’immaginazione di chi li ascolta. Come pensi vengano recepiti? Che tipo di riscontro hai da parte del pubblico?

Spesso vengono reinterpretati, anche in chiave diversa rispetto all’origine del pezzo. Però secondo me il fatto che seguano un racconto o comunque uno svolgimento aiuta a entrare nel mondo del brano e sentirsi protagonisti, o almeno testimoni vicini. Anche il fatto che siano sempre radicati in episodi reali di vita rende forse inequivocabili le sensazioni di fondo della canzone. Il pubblico mi sembra che in generale si emozioni, e questa è una grande soddisfazione oltre che un fattore motivante.

Con Vino sei riuscito a far parte dei 18 finalisti del Festival. Come è nato questo pezzo?

Il pezzo è nato quando ho fatto per breve tempo il cameriere a Torino. Quello che racconto è proprio ciò che è successo. E mentre facevo tutti quei casini mi immaginavo che una persona per me importante e che non era più vicina a me comparisse all’improvviso lì, mentre ero confuso e perso rispetto alla mia vita, e non avrei saputo dirle cosa stavo facendo e perché.

Tra gli artisti che hai particolarmente a cuore, ci sono Tracy Chapman e Lucio Battisti. Hanno in qualche modo ispirato la tua musica? 

Sì, tantissimo. Quando ero adolescente ho scoperto Tracy Chapman tramite mio padre e il suo primo album l’ho ascoltato una infinità di volte e ho imparato a suonare alcuni dei suoi pezzi come “Fast car” o “For my lover”. Ha lasciato quindi proprio un’impronta forte in quello che creavo. Soprattutto al liceo si sentiva molto, poi si è miscelata con altre influenze.
Lucio Battisti lo ascolto da prima di nascere, soprattutto nei viaggi in macchina con la mia famiglia, ed è il numero uno per me. È proprio una questione di affetto indiscutibile.

Fino a quindici anni hai scritto e cantato in inglese, per poi passare all’italiano. Ti va di raccontarci il motivo di questo cambiamento? Qual è tra queste due la lingua che più esprime la tua verve artistica? 

Certo. Ho cambiato lingua quando i sentimenti che avevo da esprimere sono diventati più sostanziosi. Il primo pezzo che ho scritto in italiano è stato quando mi ha lasciato il mio primo amore, e quell’emozione aveva bisogno di essere super chiara, innanzitutto per me. E da lì ho continuato a scrivere in italiano quasi sempre.
Non so, è diverso l’approccio quando canto in una lingua o nell’altra. In inglese resta tutto più musicale, in italiano c’è più attenzione sulle parole. Beh si sa che è così. Diciamo che forse una delle cose che cerco di fare è proprio quella di rendere l’ascolto in italiano comunque super musicale. Mi piacerebbe che una persona potesse godersi le mie canzoni anche senza capire le parole.

Parliamo del rapporto tra parole e note: i tuoi pezzi sono composti da testi che raccontano storie e virtuosismi alla chitarra. In che modo riesci a combinare le due cose? È più importante la parola o la musica? 

Allora diciamo che le due cose secondo me non si possono combinare più di tanto. Il virtuosismo alla chitarra esclude quasi sempre un racconto verbale. Per me si tratta di fasi. In alcuni periodi il focus è stato più sulla chitarra e in altri sul testo. Per esempio, Vino era nata un po’ a cavallo. Venivo da un periodo di accordature aperte e chitarra percussiva, ma avevo quelle cose da raccontare. Però appunto la parte più “suonata” dello special non è cantata. E la parte di chitarra nel ritornello è molto semplice. Certo, il tocco è sempre quello perciò qualche chicca scappa. Ultimamente sto cercando di spostare il focus sulle melodie del cantato e la scrittura più che sul “chitarrismo”. Semplificare la musica è quasi sempre un guadagno, e quello che scarti in qualche modo rimane.


Mariamichela Perna