Intervista: a tu per tu con PAOLO RIG8

A Musicultura 2020, “musica un po’ polare” con Paolo Rig8 e il suo brano Scemi in paradiso

A Paolo Rig8 ogni etichetta sta un po’ troppo stretta: scherza con i generi e con le forme, dal prog al jazz, dal rock al cantautorato; giocherella con gli esperimenti vocalici, ironizza con la scrittura dei testi o con la produzione in studio. Ma i suoi album, così come il brano selezionato dalla giuria di Musicultura, Scemi in paradiso, non si limitano mai al solo gioco. In attesa del suo prossimo disco, Hikikomori, in uscita il 17 aprile, la redazione di Sciuscià si toglie qualche curiosità.

La musica che proponi al tuo pubblico sembrerebbe un mix allucinato tra rock demenziale, space-prog, jazz e un cantautorato un po’ caustico. Delle etichette potremmo certo fare a meno, ma rimango colpita dalla tua definizione programmatica di “musica un po’ polare”. Cosa intendi?

Innanzitutto lasciami dire che secondo me hai trovato quasi tutti gli ingredienti principali del “mix allucinato”.  Le dosi però restano segrete, come per la Coca-cola. Musica un “po’ polare” è un vecchio gioco di parole, un ricordo d’infanzia letto su Topolino in cui un improbabile Eros Ramazzotti di Paperopoli cantava in un festival proto-sanremese “Nato ai bordi di periferia / dove il tram ti porta via / dove l’aria è un po’ polare”. Mi ha sempre fatto ridere.Tutto sommato credo di fare della musica popolare. Strana, ma popolare. Almeno mi piacerebbe che lo fosse, a modo mio. Ma ha la caratteristica di nascere in Piemonte, zona dal clima notoriamente non caraibico. Da qui la definizione di musica “un po’ polare”.

Parlando invece della tua scrittura, anch’essa è un bel bilanciamento tra il nonsense, il sarcasmo e una critica sociale beffarda ma quasi disinteressata. Risuona forse l’eco del magistero di Freak Antoni degli Skiantos, di cui difatti sei stato personalmente amico. Cosa hai appreso da un maestro del genere e come nasce di solito un tuo testo?

Amico Freak, ci manchi un casino.
Al di là della fortuna di averlo potuto conoscere e frequentare nei suoi ultimi anni di vita, la spietatezza della sua definizione di rock demenziale, “rendere evidente la stupidità per riconoscerla e quindi combatterla”, è il mio primo dogma, anche se non mi ritengo un musicista demenziale. Un testo nasce quasi sempre da una sola frase. Spesso da una parola, o da un gioco di parole. E sovente, per il solo gusto di utilizzare in una canzone il suddetto gioco di parole, nasce l’esigenza di costruirci attorno un testo. In realtà credo sia un metodo compositivo piuttosto comune, la cosa divertente (o frustrante) di questo metodo di scrittura è che non puoi cercare l’idea. Deve manifestarsi lei.

I tuoi primissimi contatti con la musica sembrano quasi accidentali, grazie a dischi e strumenti del tuo fratello maggiore, ma hai formalizzato presto gli studi al punto da essere tu stesso, oggi, insegnante di batteria e produzione musicale. Il brano che presenti a Musicultura, Scemi in paradiso, sembra proprio lo specchio di questo processo, tra un dominio del suono impeccabile, sebbene tanto imprevedibile, e una vocalità meno formalizzata ma altrettanto efficace: è una scelta estetica ben calibrata o casuale?

Questo brano nacque da un provino chitarristico di una manciata di note registrato tramite un cellulare e per mesi non fu altro che la suoneria della mia sveglia, generando alla lunga anche una certa insofferenza mattutina, soprattutto da parte della mia compagna. Finché un giorno non mi trovai a svilupparne la struttura e l’arrangiamento fino a farla diventare musicalmente quella che è presente sul disco Meno Infinito e – in forma un poco “accorciata” – nella compilation di Musicultura. Quindi mi ritrovavo una buona base musicale, forse un po’ barocca, certo decisamente schizoide.Il problema a quel punto era pensare ad un testo, e questo generò quasi un “blocco” creativo. Avessi optato per un testo o una tematica troppo “presa sul serio” il tutto mi sarebbe sembrato eccessivamente serioso e autocompiaciuto. L’argomento doveva essere davvero sghembo, possibilmente ironico. Per fortuna, riascoltando infinite volte in fase di scrittura la base della canzone trovai una metrica che mi piaceva nella frase “gli scemi vanno in paradiso e tu no”. Mi piaceva anche il senso, ammesso che ce l’avesse. Il resto, come faccio ormai quasi sempre in fase di composizione, è nato improvvisando davanti al microfono e scegliendo le frasi migliori. Quindi ti lascio immaginare come potessero essere le peggiori. Infine, l’interpretazione vocale la decide il testo. Uno scemo deve cantare come uno scemo. Purché intonato.

Una ventina di anni fa hai realizzato progetti audio-video con utenza affetta da disagio psicofisico medio-grave sotto la supervisione del musicoterapista Dario Bruna. Ci vuoi raccontare di questa esperienza?

Il lavoro con Dario e con la disabilità psichica è stato uno dei percorsi più formativi che abbia fatto. Innanzitutto, come è immaginabile, da un punto di vista umano e relazionale. E in secondo luogo fu determinante da un punto vista musicale, poiché artisticamente ti accorgi che il genio è ovunque, è involontario, è disinteressato e spesso inconsapevole. I ragazzi con i quali lavorai per almeno dieci anni non avevano nella maggior parte dei casi alcuna velleità artistica, musicale o letteraria. Eppure ciò che nasceva da molti di quei setting aveva una splendida aura di “non so cosa stia succedendo ma è importante”. Era molto spesso musica primitiva. Ma non primitiva come i Flintstones. Piuttosto primitiva come la paura del buio.

Cosa ti aspetti dall’esperienza a Musicultura2020? Cosa invece dovremmo aspettarci noi per i progetti futuri di un artista eretico e poliedrico come te?

“Non domandatevi cosa Musicultura può fare per voi ma cosa voi potete fare per Musicultura”.  Scherzi e citazioni a parte, farò il possibile per dare e ricevere una qualche forma di emozione. Se quello che faccio incuriosirà anche solo una minima parte di chi sentirà la mia musica avrò raggiunto un traguardo molto importante. Consideriamo inoltre che per me il fatto che una canzone come Scemi in Paradiso sia finalista in un premio di tale portata è già una soddisfazione quasi surreale. I progetti futuri sono quelli di un artista/musicista: dare alla luce il mio prossimo disco (almeno in digitale uscirà venerdì 17 aprile; adoro il fatto che esca di venerdì 17) che si intitolerà HIKIKOMORI, titolo con il quale battezzai il lavoro quando ancora era un embrione, oltre un anno e mezzo fa. Oggi sembra quasi profetico, visto che in questo momento siamo tutti una strana specie di Hikikomori. Hikikomori che escono, però, per pisciare il cane. Si tratta di una galleria di grandi e piccole manie, di disagi e stramberie che appartengono un po’ a tutto il genere umano. A me in primis.

Loretta Paternesi Meloni