Intervista: a tu per tu con PEPPOH

«Fiero figlio della periferia»: PeppOh porta la sua ”napoletanità” sul palco di Musicultura 2020

Giuseppe Sica, in arte PeppOh, è un rapper/soulman parternopeo, classe 1989.
Già finalista della XXVII edizione di Musicultura, dopo quattro anni torna a partecipare al Festival della Canzone Popolare e d’Autore con il brano Where is the Rapstar? per mostrarci la sua crescita artistica. Il suo stile di esordio, l’hip hop, ora si mescola con sonorità che spaziano dalla ballad all’indie e dalla trap al soul. Napoli, la sua città piena di contraddizioni – ci racconta l’artista che si esprime principalmente nella sua lingua madre (ma non solo) –  continua ad essere la sua costante fonte di ispirazione. E funge da musa anche per la nostra prima domanda.

”Napul’è mille culur’”cantava Pino Daniele. Ma Napul’è, senz’altro, anche fonte di ispirazione. Come ha influito la tua città sulla tua arte?

Napoli è quanto di più vivo si possa immaginare, nonostante la morte e le sciagure che spesso vengono raccontate, talune vere e altre romanzate, e nonostante alcuni beceri sciacallaggi e screditamenti mediatici.
È ispirazione continua, in ogni suo angolo, incrocio, rione e in ogni persona. È Inferno e Paradiso, è Abele e Caino, è Sacro e Profano che si abbracciano.
C’è poi da dire che, per parafrasare Mohammed Alì, “C’è un’altra Napoli in Napoli” e cioè la Napoli del Centro e dei luoghi “da cartolina” che spesso differisce dalla Napoli delle periferie.
Io sono un fiero figlio della periferia, la porto con me in ogni canzone, in ogni frase, in ogni aspetto della vita che vivo. È questa l’altra Napoli in Napoli, quella fatta di tanti sacrifici, di onestà oscurata, di “Tarantelle pe’ campà”, come cantano i 99 Posse. È questa la mia Napoli che mi ispira molto e che influisce in ogni mio testo, quella semplice, fatta di cose normali che poi normali non sono.
Quando vedi e senti e vivi la mia Napoli, è quasi impossibile non trarne qualcosa di profondamente emozionante che poi sfoci automaticamente in qualcosa di artistico, come le zeppole e panzarotti di Carminiello, la semplicità difficile a farsi, che diventa Poesia.

Restiamo ancora all’ombra di Partenope, perché il dialetto napoletano è la tua scelta espressiva. Cosa ti spinge ad utilizzarlo nei tuoi brani?

Come diceva Troisi: “Io parlo in napoletano, sento in napoletano (che, in napoletano, ha un significato molto più profondo del semplice “ascoltare”), vivo in napoletano, sogno in napoletano, perché non dovrei utilizzare una lingua che sento mia?”. Questo per dire che talvolta mi è inevitabile scrivere nella mia lingua madre.
Ovviamente non mi limito solo alla mia lingua: ho scritto e sto scrivendo tantissime canzoni in italiano soprattutto per far arrivare il mio messaggio a quante più anime possibili.
Utilizzo il napoletano quando esprimo un concetto che in italiano non avrebbe la stessa resa o lo stesso senso, quando metto la mia essenza più profonda in gioco, quando è l’anima a scrivere. non solo la mia mano, e ritengo che questa cosa sia un vantaggio. Attenzione, però: questo processo non vale solo per noi napoletani, perché i “dialetti” spessissimo sono di gran lunga più musicali delle lingue ordinarie,
E poi, ormai, tra progetti musicali, serie tv, film al cinema, Napoli e il napoletano sono alla portata di tutti. A tal proposito vi consiglio le opere di Eduardo De Filippo e di Raffaele Viviani; vi assicuro che, anche se totalmente in napoletano, sono di facile comprensione e vi lasceranno dentro un’emozione particolare, quasi unica.

Facciamo un piccolo salto nel passato. Hai già partecipato a Musicultura nel 2016, arrivando anche in quell’occasione tra i 16 finalisti. Qual è il tuo ricordo di quell’esperienza?

Fu una gran bella emozione! Ero alle mie primissime armi e per la prima volta mi esibii con una band di musicisti a mio supporto.
Ad iscrivermi fu la mia etichetta di allora, la Full Heads, ma all’epoca il mio mondo – quello della scena hip hop – mi sembrava molto distante da quest’orbita cantautorale. Ricordo la gentilezza dell’accoglienza, le premure di chi si occupava della kermesse, la professionalità estrema dei tecnici che per me era assurda, venendo appunto da scenari in cui spesso a stento c’era il microfono per fare le esibizioni. Quei momenti mi sono rimasti nel cuore.
Ecco perché sono ancora qui, questa volta da autoprodotto ed indipendente con la mia Area Nord Ammò, con la mia squadra di musicisti e tecnici che si fa chiamare la BabeBand, per cercare di rientrare tra gli 8 vincitori che andranno allo Sferisterio di Macerata.

Ecco, appunto. Oggi, dopo quattro anni, sei di nuovo tra i protagonisti del Festival. Come sei cambiato in questo lasso di tempo e in che modo pensi sia maturata la tua musica?

Sono cambiato un bel po’, ho preso coscienza di me e dei miei mezzi, delle mie potenzialità, sulle quali ancora sto lavorando giorno dopo giorno. Dal 2016 ad oggi ho pubblicato un altro album, Nuvole Nuove – in cui è appunto presente il brano Where is the Rapstar? – tutto prodotto da Speaker Cenzou, al secolo Vincenzo Artigiano, avendo avuto così il piacere di lavorare e stare a contatto con uno dei miei idoli. Poi, ho avuto l’onore di far parte di una produzione del teatro Stabile di Napoli Mercadante nell’opera Mal’Essere, una riscrittura in napoletano dell’Amleto di Shakespeare ideata e messa in scena da Davide Iodice con l’aiuto di diversi rapper campani. Grazie a questa esperienza ho recitato nel ruolo di Orazio, sono entrato in un bel progetto artistico-sociale come quello dei “Terroni Uniti”, riuscendo a salire su palchi prestigiosi. Ancora, ho scritto diversi testi per Ciccio Merolla e alcune canzoni per Maria Nazionale; ho collaborato anche con Valerio Jovine in alcuni brani e in molti concerti e sto scrivendo per il prossimo album di Rosa Chiodo; mi sono chiuso in studio con la mia band e soprattutto con Dj Cioppi, mio fedele amico nonché mio attuale Producer, e abbiamo macinato tante di quelle canzoni che ho quasi due, se non tre, album diciamo pronti e messi lì. Sto continuando a “cercare me stesso” attraverso la musica e sto lavorando assiduamente a quello che per ora è un semplice polo artistico, nonché un Brand, che spero a breve possa diventare una vera e propria label, Area Nord Ammò, appunto.
Ho lavorato molto in sordina e mi sento cresciuto spiritualmente ed artisticamente e sempre più motivato a fare di tutto questo un vero e proprio lavoro, Spero di crederci sempre e di non mollare mai, ma diciamo che la mia vita personale mi ha insegnato a rialzarmi sempre dopo ogni caduta e così continuerò a fare. Vale per Peppe, per PeppOh e per la Musica, l’unica cosa che in questi anni non mi ha mai abbandonato.

Parliamo ora di futuro: potresti anticiparci qualcosa sul tuo prossimo progetto musicale?

Ben volentieri! Ho pronto per l’uscita un nuovo album di cui ancora non svelerò il titolo ma posso assicurare che è quanto di più vero, intimo, personale e allo stesso tempo collettivo che potessi realizzare: un disco composto da 13 tracce, con alcuni featuring eccellenti, un sound che spazia tra diversi generi e non tocca solo l’hip hop, ma va dalla ballad all’indie, dalla trap al soul, restando sempre fedele alla mia penna, alla mia mentalità e al mio stile di vita.

Con Dj Cioppi, poi, stiamo curando altre produzioni musicali anche per altri artisti che vorremmo “lanciare”, come ad esempio MalaFede, tramite il nostro team di Area Nord Ammò.

Intanto, come dicevo prima, tantissime cose sono in serbo, tra singoli scritti sia prima che durante questa quarantena, concerti da fare, live studio sessions e tante altre cose tutte da scoprire.

 

Maria Chiara Demajo