Intervista: a tu per tu con Valeria Sturba

Ceci n’est pas musique: Valeria Sturba e il surrealismo in musica

Musicista eclettica, cantautrice e polistrumentista, Valeria Sturba è fra i 16 finalisti di Musicultura 2022. Formazione classica prima e tanta ricerca, sperimentazione e contaminazione poi, la giovane artista bolognese racconta alla redazione di “Sciuscià” la sua visione della musica libera e scevra da preconcetti, che spazia fra l’elettronica, il cantautorato, il rock, il jazz e il minimalismo. In entrambi i suoi progetti musicali, quello personale e il duo OoopopoiooO, persegue una ricerca di suono surreale e avanguardistica, che intercetta “rumori” e mette in musica il disturbo. Ama uscire fuori dalla gabbia della ragione e smontare il reale per poi rimescolarne i pezzi.

Nel presentarti sui social ricorri di frequente al gioco di parole “di-sturba”. Questo vocabolo deriva dal latino disturbare, propr. «disperdere, scompigliare». Per te la musica, per essere tale, deve disturbare, nel senso di smuovere qualcosa di inatteso e di suonare il rumore? Il disturbo regge un’equazione tra forma e contenuto, nel senso di mettere in musica il disturbo in maniera “di-sturbante” e portare al centro il marginale, l’irrazionale, l’onirico o qualsiasi altro scarto del reale? 

Proprio così! Quel senso lì di disturbare ed essere disturbati è importante. Siamo sempre più assuefatti a questa strana realtà in cui tutto tende a essere molto controllato e razionale, ma nell’irrazionalità si nasconde un mondo ben più ampio. Se lasciamo fluire i sensi, se togliamo i pregiudizi, possiamo scoprire tante cose intorno e dentro di noi. Se invece facciamo, guardiamo, ascoltiamo sempre e solo ciò che ci conforta nell’immediato, rimaniamo chiusi in una piccola gabbia, apparentemente comoda ma anche parecchio limitante e noiosa. E, secondo me, anche dannosa!

Hai alle spalle una formazione classica al Conservatorio, ambiente che, come affermi in qualche intervista, hai iniziato ad avvertire come un po’ stretto e limitante. C’è un avvenimento in particolare che ti ha dato la spinta decisiva a svincolarti dal porto sicuro della carriera orchestrale o accademica e a dedicarti alla musica per la musica, come gioco e sperimentazione? 

Forse quando a dieci anni ho visto i Bluvertigo con L’assenzio a Sanremo. Ma in realtà non ho mai pensato a una carriera orchestrale o accademica. Quando mi sono diplomata al Conservatorio, a 18 anni, non avevo idea di cosa avrei fatto; ho iniziato a viaggiare, a suonare in strada, e ho scoperto un mondo nuovo, libero. Approdata quasi per caso a Bologna, ho frequentato laboratori musicali e teatrali, conosciuto tanti musicisti, mi sono appassionata ai piccoli strumenti, come tastierine, minisynth, giocattoli. Ho iniziato a suonare il theremin, l’elettronica, e il resto è venuto in modo naturale.

Un tema che mi pare ricorrente nei tuoi testi è quello dello spettro di un io frammentato, che si traduce musicalmente nel tuo destreggiarti fra mille strumenti musicali; uno sdoppiamento dell’io si percepisce nel tuo portare avanti due progetti in parallelo, quello personale e quello di OoopopoiooO, tuo alterego dadaista. Lo stesso nome del duo, mi sembra l’agglutinamento di alcune particelle linguistiche, Op, pop, poi, io: uno slancio al dopo, una parodia del pop e un’espressione dell’io. Si tratta di intuizioni corrette o di una concettualizzazione forzata di quello che è puro nonsense? 

Bellissima! Mi piace molto questa interpretazione. Dentro “OoopopoiooO” ci sono le Oopart, le onomatopee, la casualità, l’Ho’oponopono, la (quasi) palindromia. Ma anche la tua è un’intuizione corretta, perché è un nome libero e ognuno lo interpreta, lo scrive e lo pensa come vuole. Una volta abbiamo suonato a Los Angeles e nella locandina avevano scritto “Oppio”. Un’altra volta suonavamo nei pressi di un convento e, chissà se per caso, siamo diventati gli “Opiopio”.

Una costante della tua arte è la reinterpretazione della musica classica attraverso strumenti della tecnologia moderna, oggetti quotidiani e rumori intercettati dell’ambiente. Il risultato è una sacralità profana, un’antichità avanguardistica, una natura robotica, una musica senza tempo, “inattuale” ed “elettroclassica” che ricorda l’Intonarumori di Luigi Russolo e i cabaret dadaisti. Come concili questa “inattualità” con il panorama musicale attuale?

La musica è senza tempo; non mi piace pensarla compressa nelle mode del momento, nel mercato discografico e nelle logiche della vendita. La musica è ovunque, anche in quelli che definiamo rumori, e anche nel silenzio. Quando scrivo un brano non mi pongo alcun paletto, cerco di esprimere quello che provo in quel momento, nella mia attualità.

Due versi del brano con cui sei stata selezionata tra i 16 finalisti di Musicultura, Antiamore, recitano «Non ho mai cantato Amore / Sempre solo Psiche». La decisione di partecipare a Musicultura con questo brano coincide con un’esigenza di aprirti, metterti a nudo e raccontare una te più personale e intima? Pensi di sviluppare in futuro la parte di te che canta amore a discapito di quella che canta psiche o di mantenerti in bilico fra le due? 

Sì, sicuramente scrivere canzoni è stata, ed è, un’esigenza. Ho sempre amato la forma canzone, i testi, le poesie, ma per anni mi sono sentita bloccata, non riuscivo a mettere nero su bianco parole mie, anche se in testa ne avevo tante. Per quanto riguarda il futuro, chi lo sa, in fondo neanche in Antiamore sono riuscita davvero a cantare l’amore…  


Benedetta Rucci