Il tempo è umano e l’umano è tempo: storto e frantumato

A La Controra 2025, la poesia che nasce dalla vita e dà voce all’unicità del sentire umano.

Musicultura. E quindi, non solo musica.

Ma anche versi, scrittura e – com’è giusto che sia – le parole, al centro di tutto. È in questo spirito che si inserisce la rassegna “Poesia, nuove voci”, due incontri dedicati alla poesia contemporanea, che vedono protagonisti quattro voci poetiche del panorama italiano, in dialogo con Ennio Cavalli, poeta e giornalista di lungo corso.

Un confronto sul significato e sul ruolo della poesia oggi, tra momenti di riflessione e letture ad alta voce, ospitato nel cuore di Macerata durante La Controra, la settimana di arte, cultura e spettacolo che apre la fase finale della XXXVI edizione di Musicultura.

Un’occasione per ascoltare chi alla poesia affida uno sguardo sul mondo e su di sé.

Il primo incontro vede il confronto tra Giorgiomaria Cornelio e Beatrice Zerbini, due poeti uniti da un’idea condivisa: la stortura, ovvero quelle ferite interiori che, pur segnandoci, ci restituiscono una nuova immagine di noi stessi. Questa visione richiama la filosofia del kintsugi, antica tecnica giapponese che ripara gli oggetti danneggiati rendendoli più preziosi proprio nelle loro crepe.

Giorgiomaria Cornelio, nato a Civitanova Marche e cresciuto artisticamente nella celebre fornace di Smorlesi, parla di una “specie storta” a cui tutti apparteniamo: una comunità di sconfitti e deviati che, nonostante le ferite, porta con sé una luce particolare. La sua poesia è un intreccio di mito, cinema e parola, che non pretende di insegnare, ma di accompagnare il lettore in un viaggio attraverso alfabeti dimenticati e linguaggi naturali. Cornelio descrive il viandante – figura centrale nelle sue opere – come «la commisura del piede al vento», simbolo di un cammino sempre in movimento. In un mondo dominato dalla noia e dall’omologazione, egli sottolinea l’urgenza di grandi narrazioni capaci di riscrivere le mappe dell’esistenza. «I periodi di crisi di millenarismo interiorizzato sono complessi – afferma – e allora servono narrazioni immense, titaniche o anche piccole, non importa».

La bolognese Beatrice Zerbini, invece, si presenta con una voce più intima e domestica. Cresciuta in una casa silenziosa e a tratti solitaria, la sua poesia nasce dall’infanzia, dall’amore e dalle malinconie che le appartengono, mantenendo uno sguardo adulto ma sempre puro e fanciullesco. La sua scrittura è un atto di vulnerabilità sincera: nel libro In comode rate racconta la vita e il dolore pagati all’esistenza in piccole dosi: «Più sei onesta e arrivi al nocciolo della verità, più l’altro può indossare i tuoi panni», spiega. La sua poesia diventa così una sorta di «psicoanalisi condivisa», in cui ogni dettaglio assume un valore significativo ed empatico. Per lei, la poesia non è una metafora astratta, ma una sensazione tangibile, un gesto d’amore che tocca, cura e accompagna chi ascolta, tendendo la mano a chi ha bisogno: «A chi dire “Torna prima che faccia buio”? – A un mondo intero».


Nel secondo appuntamento della rassegna, le protagoniste sono Beatrice Achille e Mariachiara Rafaiani, due voci che esplorano la poesia attraverso archetipi e percezioni profonde. Achille, triestina con una formazione filosofica, si concentra sulla parola orale, quella sussurrata, perché crede che «la parola detta sia più intima e più sacra di quella scritta».

Nel suo lavoro Le Medeatiche, rilegge il mito di Medea non solo come una tragedia antica, ma come un gesto umano estremo e difficile da comprendere. Medea diventa per lei il simbolo dell’estirpazione del sé, cioè della perdita di se stessi, e dell’impossibilità di raggiungere una vera catarsi – quella purificazione interiore tipica della tragedia greca – nel mondo moderno, dove tutto è centrato sull’«io». Come spiega Achille, «l’esperienza catartica greca nasceva in un contesto in cui non si diceva io: l’ego veniva usato pochissimo, e mai in senso autoriferito. Oggi, invece, questa parola è ovunque».

Mariachiara Rafaiani, filologa classica, concepisce la poesia come un atto di riscrittura del presente attraverso gli eterni archetipi del passato. Nel suo libro L’ultimo mondo, scritto tra Londra e l’Italia nel 2020, in piena emergenza pandemica, immagina tre scenari possibili di fine del mondo. In queste pagine, il tempo si frammenta e la realtà si cristallizza in un eterno presente; le sue poesie si fanno testimoni di questa condizione post-catastrofica, intessendo profonde riflessioni: «Il mondo lo immagino disgregato sulle spiagge, come lembi strappati da qualcuno in corsa».

Attraverso la sua scrittura, Rafaiani ci invita a riconoscere nella poesia non solo una guida capace di orientare nei momenti di crisi, ma anche un archivio emotivo collettivo, in cui verità soggettive si intrecciano e si riflettono a vicenda. Come afferma lei stessa: «Le questioni private sono lo specchio della collettività e viceversa».

Insomma, il filo rosso di questi interventi è l’idea di poesia come strumento di resistenza e rinascita. Ogni poeta, con la propria voce singolare, mette in luce la fragilità umana e la necessità di riconoscere e valorizzare le ferite interiori: Cornelio celebra la «specie storta», emblema di un’umanità imperfetta ma luminosa; Zerbini esprime la delicata forza della cura e della condivisione; Achille indaga la profondità insondabile dell’animo umano; Rafaiani intreccia il fluire del tempo con la ricerca di verità profonde. In tutti, la poesia emerge come un atto d’amore rivolto a sé e agli altri, un universo personale che diventa esperienza collettiva.