«La verità è un coinvolgimento esistenziale profondo per noi esseri umani», afferma Edoardo Camurri. Non è, dunque, solo una questione filosofica o astratta: la verità è sentimento, momento, presenza. È il coraggio di sporcarsi le mani. E la lingua, in questo percorso, è lo strumento con cui l’essere umano la cerca: un mezzo potente che può opprimere o liberare. In attesa dell’uscita del suo nuovo libro La vita che brucia, a settembre nelle librerie, Camurri — giornalista, scrittore e speaker radiofonico — racconta cosa significhi per lui cultura e come vive il processo di scrittura. Lo fa nel suo primo ingresso a Musicultura, nel Cortile di Palazzo Buonaccorsi, nell’ambito degli eventi de La Controra.
A settembre uscirà La vita che brucia, appena un anno dopo Introduzione alla realtà, che ha colpito per il suo stile psichedelico e intimista. Il nuovo libro mantiene una continuità narrativa o rappresenta un cambio di rotta? Quali “spiriti” hanno accompagnato questa nuova scrittura, come accennava nell’intervista a Minima&Moravia?
Che bello, questa è la prima intervista su La vita che brucia: in un certo senso è un battesimo. Non voglio anticipare troppo, ma qualcosa ti dico . Gli spiriti che hanno protetto il primo gattone (riferimento a Introduzione alla realtà, ndr.) sono gli stessi che proteggeranno anche questo secondo gattone. In Introduzione alla realtà, invitavo me stesso, le lettrici e i lettori a immergersi nel cuore della realtà e, come scrivo nel libro, a incontrare l’albero del Thauma, quindi la sua origine. Ecco, adesso si fa il passo ulteriore.
Quindi è un proseguimento?
Direi piuttosto un approfondimento, nel senso che si entra davvero dentro il Thauma. Non è più soltanto un’esortazione, ma una vera e propria azione. La porta d’ingresso che ho scelto è la sofferenza universale che accomuna tutti gli esseri viventi. In questo viaggio dentro la realtà, attraversando la soglia della sofferenza, c’è un grande bisogno di spiriti che ci accompagnino e proteggano. Nel mio caso, lo spirito che ha guidato e sostenuto questo cammino è stato soprattutto quello del ragionamento, del pensiero critico. Il libro è, in fondo, un grande elogio al pensiero e alla filosofia, visti come forze capaci di sostenerci e guidarci attraverso le difficoltà e il dolore.
Restando in ambito di filosofia e cultura, lei definisce spesso quest’ultima come strumento e non fine, come una connessione. Citando il suo amato Epitteto: «Non sono le cose a turbare gli uomini, ma le loro opinioni sulle cose». Oggi, con l’accesso massivo a informazioni manipolate e fake news, quanto questa connessione culturale è minacciata?
È una domanda complessa. Il problema di distinguere il vero dal falso non è affatto una novità, e il dibattito che la tecnologia oggi ci pone non è che un capitolo di una questione che attraversa tutta la storia umana. Anzi, riconoscere la verità, interrogarsi sul suo significato e non confondere l’inganno con la realtà è uno dei temi fondamentali del nostro essere umani. Queste questioni vanno affrontate con approccio filosofico, con attenzione e senza paura di “sporcarsi le mani”. Servono anche un’intelligenza critica che sappia smascherare le falsità, ma soprattutto una profonda connessione con l’esperienza, la vita e il cuore. Questo insegnano la storia e la filosofia sapienziale: la verità non è solo un concetto astratto, ma un’esperienza che coinvolge sentimenti, speranze, paure e desideri. Non dobbiamo mai dimenticarlo, perché altrimenti rischiamo di pensare alla verità come a un oggetto da misurare o da calcolare, qualcosa di distante da noi; in realtà è un coinvolgimento esistenziale profondo, qualcosa che dobbiamo imparare ad abitare nella nostra quotidianità. E infine, non è detto che la falsità sia priva di qualche verità, così come la verità può contenere qualche elemento di falsità. Proprio in questo equilibrio sottile si gioca la complessità del riconoscere ciò che è reale.
La prof.ssa Bolzoni nel suo programma ironizzava sui censori che “forniscono liste di letture interessanti”. Quali sono state le letture fondamentali che hanno nutrito il suo pensiero e portato alla nascita di Introduzione alla realtà ed in generale al suo metodo?
Questa è stata una frase molto bella di Lina Bolzoni, e sono completamente d’accordo: le liste dei libri censurati sono sempre le più interessanti. Nella mia lista per Introduzione alla realtà ce ne sono veramente migliaia. Fare un elenco è molto complicato, posso dire, però, quelli che per me sono degli autori imprescindibili, e che infatti compaiono nel mio libro: Joyce, Elsa Morante, soprattutto con Il mondo salvato dei ragazzini, Giorgio Colli. Poi ancora, i grandi maestri dell’antica Grecia e dell’India, la tradizione ebraica, cassidica, Nietzsche. Tutto sommato, gli autori che a me interessano e che amo hanno un elemento in comune: sono scrittori del grande sì, che hanno come istinto e come predisposizione esistenziale l’affermazione e che fanno di tutto per non dire no. Preferiscono il sì al no, preferiscono che ci sia qualcosa piuttosto che nulla.
Prima parlavamo di un battesimo e questo è il suo battesimo a Musicultura, il primo ingresso al nostro festival: cosa l’ha colpita e che emozione le ha lasciato?
Mi sembra tutto molto bello, piacevole e allegro. Sono davvero contento di aver presentato Introduzione alla realtà e, soprattutto, di avere l’occasione (nell’incontro Le Parole delle Canzoni del, 20 giugno, ndr.) di chiacchierare con un grande amico: Davide Panizza, in arte Pop X, che per me è un genio assoluto. Lo considero il più grande cantautore italiano vivente. L’idea che Musicultura e Macerata abbiano fatto incontrare il gattone con Pop X mi riempie di gioia e mi sembra un segno bellissimo.
Nell’intervista per MOW parlava del rischio di damnatio memoriae per chi rifiuta le strutture che modellano la realtà, inclusa la lingua. Ma la lingua è anche poesia, amore, creazione. Come vive questa doppia natura della lingua chi, come lei, la usa per scrivere e raccontare?
Questo è un grande tema. Perché la lingua è sempre una struttura di potere e nello stesso tempo è anche una struttura di liberazione dal potere stesso. Ricordiamo che, per esempio, Joyce scrisse in inglese, quindi utilizzò la lingua dei conquistatori della sua Irlanda per poter liberare l’Irlanda stessa. Quindi, certo, si cammina sempre un po’ sul filo del rasoio. Quello che ho un po’ imparato dai grandi scrittori e pensatori è che una delle qualità fondamentali del lavoro intellettuale dovrebbe essere la capacità di accorgersi dei luoghi comuni, delle frasi fatte. Non necessariamente per rifiutarli, ma per prenderne consapevolezza. È questo che conta: avere coscienza di ciò che si dice, soprattutto quando si ha a che fare con la lingua, che può essere tanto uno strumento di oppressione quanto uno strumento di liberazione. Il compito, allora, è abitare la lingua con attenzione, starci dentro davvero. Allo stesso tempo, bisogna abbracciare, amare, gettarsi a capofitto nelle opere dei grandi maestri che attraverso la loro lingua e le loro opere hanno conquistato spazi che noi persone normali non saremmo in grado di calpestare. Credo che il nostro compito sia quello di abitarli con fiducia, sapendo che non corriamo alcun pericolo, perché qualcuno, più grande di noi, ci è già passato prima, rendendo possibile per tutti l’accesso a quel linguaggio, a quello stile. Abitare quegli spazi diventa allora un atto di libertà e di gioia: una forma di riconoscenza verso le grandi opere, gli artisti, i poeti, i filosofi che li hanno conquistati per noi. E quando ci muoviamo dentro quelle parole, quelle visioni, siamo salvi.