Il suono dell’intuizione: intervista a Franco Godi

Jingle storici, dischi d’oro e rap italiano: il compositore si racconta a La Controra 2025

Dai jingle ai dischi d’oro, Franco Godi ha scritto la colonna sonora di chi ha avuto il coraggio di osare per primo. “Mr. Jingle” per caso, talent scout per vocazione, è stato il primo a credere nel raitaliano, quando ancora nessuno scommetteva su di esso. Ha portato l’ironia nell’animazione accanto a Bozzetto e la sensibilità nell’autorialità insieme a Olmi. Oggi continua a scommettere sui giovani, ma senza fare sconti: «Basta sp cuse, è il momento di prendersi la scena». Il suo è un intuito che brucia la tecnica, un fiuto che anticipa le mode. Godi non si è limitato a raccontare la musica: l’ha intercettata, trasformata, rilanciata. Sempre con mezzo passo d’anticipo.

Ha debuttato incidendo negli studi di Renato Carosone e nel 1962 ha firmato il jingle Bertolli, diventando Mr Jingle. Quanto le ha insegnato quella sfida di sintetizzare emozione e ritmo in pochi secondi?

Sono nato con il desiderio di sintetizzare la musica che, certo, si sviluppa, ma alla base deve esserci un’idea chiara, racchiusa in poche note. È da lì che parte tutto. Lo facevano anche Bach, Beethoven, Brahms: scrivevano melodie semplici, quasi “orecchiabili”, che poi si trasformavano in grandi sinfonie. Non voglio fare paragoni altisonanti ma, ecco, questa è stata la chiave che mi ha permesso di andare avanti, di costruire la mia musica.

Lei ha iniziato come compositore e produttore per se stesso, poi è diventato scopritore di talenti e promotore di nuovi artisti, soprattutto nel rap italiano. Come si è avvicinato a questo ruolo da “talent scout”?

In realtà, più che cercarli, nei talenti mi ci sono sempre un po’ imbattuto. Quando incontro qualcuno che fa fatica a emergere, ma ha qualcosa da dire, tendo subito a sposare il suo progetto. È un qualcosa che sento come spontaneo.

E come è nato tutto?

Tutto è iniziato con la nascita di Best Sound. Per molti anni, fino al 1990, l’etichetta è stata lo spazio per la mia musica: sigle televisive, cartoni animati, produzioni per la TV. Poi, nel 1990 ho conosciuto gli Articolo 3. Da lì si è aperto un nuovo percorso, con Gemelli Diversi, Neffa, Fedez, Tricarico, Zilla, e ho sempre continuato a lavorare con artisti che sentivo vicini per intuizione e visione.

In fondo anche Musicultura è una fucina di giovani talenti, un po’ come lo è stata Best Sound per il rap italiano. Cosa la affascina oggi di questi spazi che danno voce a nuove scritture e nuovi suoni?

Penso che sia una fortuna che esistano. I giovani artisti, sempre più spesso, si sentono vincolati artisticamente dalle case discografiche, che li spingono in una direzione piuttosto che in un’altra.  Spazi come Musicultura, invece, danno loro la possibilità di esprimersi liberamente e senza vincoli. Trovo poi molto bello il fatto che ci siano otto vincitori, perché nella musica sono tendenzialmente contrario alle gare. Sanremo, infatti, insegna: l’ultimo Vasco Rossi poi è diventato quello che è diventato.

L’hanno definita “artigiano del suono” e ha citato tra i tuoi maestri Quincy Jones e Trovajoli. Quanto conta, per lei, l’intuizione rispetto alla tecnica per far nascere una musica che emoziona?

Conta moltissimo. Perché altrimenti basterebbe studiare tanto, essere bravi musicisti e tutti ce la farebbero. Invece no, è come l’amore: o scatta, o non scatta. O c’è, o non c’è. Tra i miei modelli, ci sono stati Quincy Jones, Travajoli, ma soprattutto Burt Bacharach: è stato lui a riempirmi il cuore di belle note. E da quelle emozioni sono nate alcune delle cose migliori che ho scritto.