INTERVISTA – Milena Vukotic: il racconto di un’attrice a tutto tondo

A La Controra arriva Milena Vukotic, celebre protagonista del mondo cinematografico, teatrale e televisivo che vanta collaborazioni con alcuni dei più grandi attori e registi. L’eclettica artista, recentemente candidata al David di Donatello, è capace di passare dalla recitazione teatrale e cinematografica ad espressioni artistiche di ogni genere, prima fra le quali la danza, che ha studiato per anni. Prima dell’incontro, tenutosi a Palazzo Conventati, ha rilasciato un’esclusiva intervista a “Sciuscià”, nella quale, con grande gentilezza e garbo, ci ha raccontato le sue esperienze lavorative e di vita.

Musicultura è una manifestazione che arriva a definire il prodotto artistico dei musicisti come qualcosa di profondamente culturale. Pensa che una manifestazione di questo tipo possa aiutare nella ricerca e formazione dei futuri grandi artisti?

Credo che manifestazioni come questa stiano proprio alla base di questo tipo di ricerca. Senza un qualcosa che ci apre delle porte è difficile maturare ed intraprendere la meravigliosa strada dell’arte, in tutte le sue espressioni; è una sfida molto difficile ed impegnativa.

Ha avuto una carriera brillante e molto diversificata. Teatro, cinema, televisione. Fellini, Scola, Zeffirelli, Bolognini, Buñuel, Neri Parenti e tanti altri. E’ passata da grandi produzioni cinematografiche a Serie Tv come Un medico in famiglia. Come e quanto esperienze così distanti aiutano a definire un’artista?

Credo che aiutino moltissimo, perché la varietà evita di farti rimanere dentro una schema, psicologicamente e praticamente. In questo modo si è costretti ad uscirne per cercare altre maschere da indossare dentro noi stessi, e credo che questo possa essere solo positivo. È anche un grande piacere farlo, perché fa parte di un bel gioco che facciamo.

Molti attori preferiscono calarsi in ruoli simili fra loro perché si sentono più sicuri; lei, invece, ha interpretato molte tipologie umane differenti. Qual è il ruolo interpretato che le è rimasto più a cuore?

C’è un personaggio che è stato molto importante per me; l’ho fatto quando ero già adulta e lo rifarei ancora, anche se probabilmente in modo diverso: Alice nel paese delle meraviglie, tratto dall’opera letteraria di Lewis Carrol e adattato per la televisione. Proprio oggi, alla stazione di Roma, ho comprato un libricino su Guido Stagnaro, il regista che ha diretto appunto Il mondo di Alice per la televisione di Milano; era la prima volta che facevamo una trasmissione a colori. Io ero già molto grande, di certo non ero l’Alice di 12 anni che descrive Caroll, ma ritengo sia un personaggio universale che racchiude tutte le possibilità di evasione fantastica.

Può essere assurta come il simbolo di una femminilità delicata, di classe. Una bellezza di straordinaria eleganza, mai volgare in nessun tipo di ruolo. Ora il mondo dello spettacolo porta con sé una carovana di donne provocanti, alcune senza arte né parte. Perché crede ci sia stata questa involuzione?

Non credo ci sia solo quel tipo di donna nel mondo dello spettacolo di oggi. In generale, c’è sicuramente stata una rivoluzione nel campo dell’immagine: viviamo in un periodo in cui si viene continuamente provocati visivamente. La figura della donna è diventata più evidente, sì, ma credo sia solo una moda che, come tutte le altre mode, finirà. In futuro forse tornerà un’immagine femminile più “normale”.

A Federico Fellini la legava una stretta amicizia. Come è stato collaborare e conoscere un così grande regista?

Collaborare con lui, e conoscerlo, è stata una grande fortuna e un grande privilegio. La mia vita, grazie a Fellini, è cambiata: io vivevo e lavoravo a Parigi, avevo un mio percorso già avviato. Sono voluta andare a vivere a Roma, dove abitava mia madre, per tentare di conoscerlo e di lavorare con lui, e ci sono riuscita! Sono stata una privilegiata, in questo senso.Silvia Ruggeri e Francesco Bacci

INTERVISTA a Paola Minaccioni: una mina vagante

Paola Minaccioni è, per sua stessa ammissione, iperattiva. “Non so stare senza lo stress”, ci confessa all’appuntamento A tu per tuorganizzato dal laboratorio La Controra. Ci fidiamo, visti gli impegni in radio, televisione, cinema, teatro e cabaret. Un’artista poliedrica che si presenta subito per come sembra: diretta, simpatica, decisa e piena di energia. Ha le idee chiare sul suo lavoro, sa cosa vuole fare e con chi vorrebbe collaborare. Durante l’incontro delizia una divertita platea con alcuni dei suoi personaggi comici più famosi, mostrando chiaramente la spontaneità e la naturalezza con cui il suo lavoro si crea e sviluppa. Divertente, quindi, ma non solo: Paola Minaccioni è capace di una profondità agrodolce e di venature tragicomiche che si accompagnano alla sua idea di recitazione e al suo credo teatrale sull’importanza dell’approfondimento psicologico del personaggio. Sfumature e varietà si incontrano e danno vita ad un’artista che, semplicemente, riesce in tutto quello che fa e non dovrebbe essere inquadrata e limitata solo alla sfera comica. L’abbiamo intervistata per voi:

La sua esperienza radiofonica diversifica il suo curriculum di attrice da altri. Quanto è riuscita  a riutilizzarla nel suo lavoro televisivo e cinematografico?

Mi ha aiutata molto. Intanto perché in radio non si può fare finta: devi avere qualcosa da dire, dato che vale e vince la parola. Nella mia esperienza come attrice e conduttrice devo dire che questo particolare ha fatto la differenza, anche perché ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni programmi cult: Il Ruggito del coniglio, ad esempio; sono alla prima stagione, lavoro con Antonello Dose e Marco Presta. Ho fatto la stagione invernale compatibilmente con altri impegni, ed è stato molto divertente. Meno divertente è stato alzarsi alle 6, ma certe volte ne vale la pena. E poi Lillo e Greg: sono 10 anni che faccio parte del cast di 610, e quella è una grandissima scuola, perché io, Lillo e Claudio ci conosciamo da molto, quindi arriviamo naturalmente all’improvvisazione, e questa lo rende una palestra meravigliosa. Infatti alcuni personaggi che sono nati o che sono stati perfezionati in radio li ho poi portati al cinema; è tutto un circolo, un bellissimo gioco.

Ferzan Özpetek l’ha scelta come interprete di molti dei suoi film. Nell’ultimo, Allacciate le cinture, si affronta un tema piuttosto scomodo: quello del cancro. A riguardo ha dichiarato: “La mia Egle riesce a far ridere nel dramma della malattia”. Quanto pensa sia importante l’affrontare con ironia, a livello cinematografico, temi come questo?

Io penso che la vita sia una tragedia di cui bisogna imparare a ridere e che nei momenti tragici l’ironia aiuti: vivere i momenti di crisi generale con il giusto e sano distacco aiuta. Quindi sì, sarebbe meraviglioso poter parlare di temi presenti nella vita vera, come la sofferenza, il dolore e la malattia in modo ironico, attraverso i grandi mezzi di comunicazione. È un obiettivo difficilissimo da raggiungere; i più “grandi” ci sono riusciti, non solo nel cinema, ma in tutte le arti, attraverso il talento.

Lei non è solo attrice, ma anche comica. Un mestiere a tratti sottovalutato, ma molto complesso. Oltre alla sua naturale predisposizione, quali sono le cose che l’aiutano ad affrontare le sue esibizioni? Ha mai avuto paura di non risultare divertente?

Io non distinguo tanto il mezzo comico dal resto, perché sia la comicità che la recitazione sono cose che nascono dal corpo e dalla testa; sei sempre la stessa persona, in entrambi gli ambiti. Mi è capitato spesso di interpretare dei ruoli drammatici a teatro. Nell’ultimo film di Ferzan Özpetek, ho avuto l’occasione di cimentarmi in un ruolo tragicomico, finalmente, e spero di avere l’occasione di farne altri, perché il tragico e il comico, per me, sono indissolubilmente legati. Per quanto riguarda la paura di non risultare divertente, adesso che ho un po’ di esperienza, posso dire che il dubbio può nascere nei posti in cui c’è un pubblico che ti conosce poco o che ha un altro tipo di cultura. Col tempo, però, ho capito una cosa: se ti diverti, gli spettatori si divertono. Probabilmente ci saranno delle piazze in cui rideranno di più, altre in cui rideranno di meno; alcune che dimostreranno l’apprezzamento in modo diverso, altre ancora che magari staranno in silenzio per tutto lo spettacolo ma, alla fine, faranno 15 minuti di applausi. L’importante è che tu rimanga concentrata sul tuo gioco e sul tuo divertimento, perché è difficile che, se fai qualcosa divertendoti, questa non passi al pubblico.

Cinema, teatro e televisione: tre luoghi diversi dove poter esprimere la propria arte e dove poter dare il meglio di sé. Quanto sono diversi e qual è l’ambiente in cui si trova più a suo agio?

Il teatro è la mia vera casa. Il cinema è un’esperienza più esaltante, una specie di droga; produci  endorfine quando fai cinema, ed è una novità, nella mia esistenza, che mi sta dando tanto, sia a livello professionale che personale. Spero di interpretare ruoli sempre più vasti, e non parlo della loro quantità, ma della qualità: vorrei potessero avere tante più sfumature. Il fatto è che quando ti propongono delle figure comiche, nella maggior parte dei casi sono create partendo solo da semplici battute. Manca l’approfondimento psicologico del personaggio, che invece è fondamentale per questo lavoro, perché lo arricchisce. Tutti questi ambiti, comunque, sono pezzetti che fanno parte della mia esistenza, ma se dovessi sceglierne uno, sarebbe il teatro: è sicuramente il luogo in cui ho più esperienza e quindi quello dove mi sento a casa.

Il sogno impossibile: un regista con cui vorresti lavorare e un attore con cui vorresti recitare.

Oddio! Di impossibili  ne ho duemila, ma poi tutti i sogni sono impossibili, sennò che sogni sarebbero? Se fai dei sogni possibili non vale! Per quanta riguarda le collaborazioni: da Meryl Streep a Scorzese, da Di Caprio a Cate Blanchett, per dirne solo alcuni. Anche in Italia ci sono molti colleghi e registi con cui vorrei lavorare: Virzì, Luchetti, Segre, ma anche giovani, come Matteo Leotto. Ho già recitato con Elio Germano, ma lo farei di nuovo! Insomma, in Italia ci sono tantissimi artisti e artiste che conosco e che sarei onorata di incontrare in questo percorso.

È già stata gradita ospite a Musicultura, nel 2010. Come sa, quest’anno il festival compie 25 anni. Ha notato un’evoluzione dall’ultima sua partecipazione?

Per prima cosa: auguri! Buon compleanno! Passiamo alle cose serie: Musicultura è un Festival in perenne evoluzione e cambiamento, e la cosa che mi colpisce di più non è tanto il traguardo, ma il percorso, perché ogni anno ci sono delle novità, degli esperimenti, e questo è molto interessante. Ricordo, per esempio, che il primo anno che sono stata ospite c’era un progetto sulla poesia dialettale. In questa manifestazione si trovano sempre delle proposte interessanti fuori dal comune.

E lei cosa proporrà quest’anno?

In realtà io non propongo, ma mi è stata fatta una proposta: quella di essere ospite e fare una chiacchierata con il pubblico e con degli allievi. Mi è sembrato molto interessante e ho accettato. Fra l’altro, l’ultima volta che sono stata qui come ospite, a questo incontro c’era Lina Wertmüller:  è stato un grande onore ricevere questo invito. Ora andiamo e vediamo che succede!

INTERVISTA – Tiziana Cera Rosco: la creatura che in punta di piedi si è affacciata alla porta dell’universo.

“Tutto quello che succede nell’arte è utile” e la poesia essendo puro spirito può ridare all’essere umano quella selvatichezza alla quale non si approda facilmente con le altre espressioni di scrittura come la letteratura. Spesso nei suoi scritti la Cera Rosco parla del bosco e di tutto ciò che lo caratterizza, andando ad ampliare e chiarire la sua visione sulla libertà e la selvatichezza. La sua ricerca poi non è solo sulla parola, ma anche sul silenzio, visto non come interruzione dei suoni ma come conquista della capacità di ascolto del proprio canto dell’esistenza. Nelle sue perfomance si percepiscono vibrazioni molto sottili ma allo stesso tempo intense, perché alla parola si associa il corpo dove  la gestualità, il movimento e gli oggetti di scena diventano un insieme imprescindibile, dando il giusto peso alle parole.

Musicultura da 25 anni dà voce sia alla canzone d’autore che alle arti in generale, qual è il suo punto di vista riguardo il festival e la sua missione?

Missione è un termine bello impegnativo. Io conoscevo il festival perché ho partecipato alla stesura di varie canzoni per molti cantautori che sono venuti qua. Musicultura ha una grande eco soprattutto per quanto riguarda la poesia che è il mio campo d’origine che poi genera tutto il resto, sono anche molto contenta che si chiami in questo modo  in quanto dalla musica parte anche la parola. Prima sentivamo una conferenza sulla musica che diceva “è dal suono che viene originata la materia” e quindi è anche un po’ come questo festival  che si sta espandendo, perché sebbene mi ricordo all’inizio era molto più piccolino e man mano cresce proprio come si propaga il suono oppure un sasso nell’acqua.

Ha scritto canzoni per molti artisti. Sapendo che ogni parola ha una musicalità e un ritmo, quanto si discosta un testo poetico da una canzone?

Sono due mondi. Non è che si discosta, è come parlare di Marte e di Venere però come succede in tutto l’universo, le cose si avvicinano per risonanza quindi è come ci fosse un punto in cui risuonano insieme e forse è proprio in questo che le affratella, s’incontrano molto bene. Di tantissimi cantautori si dice che siano poeti perché in qualche modo rispecchiano un sentimento profondo che schiude qualcosa che magari una canzonetta da sola non fa, quindi anche quando si parla di musica leggera è meglio andarci piano, perché a volte la musica leggera è molto intensa. Come spesso anche quando si parla di poesia in realtà non si considerano delle altre parti che sono molto sperimentali e d’avanguardia, molto dure, dove il sentimento poetico viene abbastanza scavalcato. Sono due mondi che sicuramente si avvicinano, si parlano, comunicano, si comprendono ma non sono un unico mondo.

Cosa propone per il pubblico dello Sferisterio?

La mia partecipazione a Musicultura è molto semplice. Mi avevano chiesto un testo, ho preferito non farne uno mio, ma di portare il testo di un’altra poetessa e ho scelto di mettermi addosso i testi della Szynborska che non mi ha ispirato da subito quando ero ragazzina, perché di solito metto in scena solamente testi che mi hanno ispirato. Questo è un testo che è venuto col tempo, parla della pietra e all’interno di un festival di musica leggera diciamo che mette un po’ di sana pesantezza. Questa performance si porta dietro anche un aspetto musicale, infatti ne  ho scritto anche la musica e costruisco la gonna – in complesso che tutto quello che si vede è un manufatto e secondo me è un po’ la direzione dove anche le cose umili riprendono ad avere la loro dignità e quindi sono assolutamente onorata di partecipare con un mio intervento che però non parla di me ma parla di un’altra poetessa.

In Conversazioni con una pietra avvalorerà i testi con la sua fisicità in modo quasi teatrale. Come mai sceglie questa tipologia d’interpretazione della poesia?

E’ una performance artistica più che teatrale probabilmente la si vede sotto quest’occhio perché si è all’interno di un contesto quale lo Sferisterio. Negli ultimi tempi la poesia per me si è spostata proprio sulla parola oltre che sul silenzio quindi non è soltanto la scrittura della poesia, allora in questo senso, quando si sposta sulla parola come dice Rilke: “Canto è esistenza”, essa cerca di esistere nel suo massimo ed è per questo che ho cercato di dare  anche fisicamente altezza a questa cosa,in modo tale che le persone siano spinte ad alzare la testa, lo sguardo, l’ascolto per la poesia che molto spesso è come se fosse in un cantuccio quindi o intimamente presente o quasi dimesso. Inoltre in questa occasione ho cercato di dare una risonanza un pochino più centrale.

Perché nel suo lavoro poetico che presenta a La Controra, la creatura viene definita ininterrotta?

Questo è un libro, ovvero uno sguardo di tutte le cose che ho fatto da prima fino ad ora e sono contenta di presentarlo qua, perché è una scrittura che parte dal suono. Quando è stato concepito, stavo ascoltando un compositore immenso che si chiama Ezio Bosso che l’Italia dovrebbe valorizzare molto di più, infatti ha lavorato e lavora molto di più all’estero. La sua è una musica che mi ha permesso dei passaggi e soprattutto mi ha dato accesso a qualcosa di remotissimo, la  parola questi ingressi li porta in sé ma alle volte non si riesce ad aprirli. Quindi l’incontro per me con questa musica mi ha dato la possibilità di esplorare una profondità, un qualcosa di remoto di molto antico quasi universo come se fossi in giù è come se accedessi a qualcosa che tocca tutto che non si interrompe mai: né col dolore, né con la felicità o con le cose che la vita ti propone ma solamente ininterrottamente ti porta in contatto con qualcosa.

Lei è una poetessa e fa della parola un  vero e proprio impegno, e mi riferisco a Terapia della Lettura. Qual è il fulcro di questo progetto educativo  di cui lei è l’ideatrice? Mi incuriosiva approfondire Genere F che possiamo definire una costola di Terapia della Lettura.

I primi corsi sono nati per i ragazzi e anche per evitare la solita caduta nei termini della psicanalisi, che sembra essere quasi l’ultima spiaggia per sondare una profondità che dentro di te si è complicata. Durante questi laboratori venivano usati testi che normalmente non vengono affrontati perché difficilissimi, invece se riproposti in un altro modo divengono strumenti, delle sonde che entrano dentro di te e da lì poi vedi cosa ti ritorna dietro. Per me è stato importantissimo vedere la risposta di quella fascia d’età che è risultata propulsiva al massimo, quindi non serve mettere tutto nel dolore come se fosse una scatola che qualcun altro deve saper leggere perché per te è inaccessibile, non è così. Poi da questo si sono sviluppate una serie di cose laterali, di tutto quello che riguarda la luce come immersione della lotta su Caravaggio e riguardo Genere F vengono analizzate le figure di artiste femminili e non solo poetesse, che oltre alla loro complessità e al loro talento vi è anche un principio di dolore e difficoltà fortissimo infatti talvolta alcune di loro ci sono rimaste secche. A questo punto poi si va a vedere se i termini e le cose che loro usavano per esprimersi, per sondarsi se valgono anche per noi, perché tutto parte da un principio: tutto quello che succede nell’arte è utile e quindi l’utilità bisogna solamente capire in che campo dell’esistenza farla entrare.

INTERVISTA a Oliviero Malaspina: un artista in continuo divenire

Oliviero Malaspina, per due volte vincitore del festival Musicultura, nel ’91 e nel ‘93, ha presentato il suo nuovo album di inediti Malaspina agli antichi forni di Macerata introducendo e presentando i brani più importanti al pubblico maceratese. Ha collaborato con Cristiano De Andrè e suo padre Fabrizio e nel 2000 ha preso parte al concerto genovese a lui dedicato: “ Faber, amico fragile”.

Nel suo nuovo cd è presente anche la canzone “Migranti”, il cui testo è stato scritto a quattro mani con il grande cantautore ligure. Non solo musicista, ma anche scrittore e poeta, rappresenta l’artista a trecentosessanta gradi di cui il Premio città di Recanati per primo riconobbe il grande potenziale.

E’ sia cantautore, paroliere che scrittore ed ha pubblicato vari libri e raccolte di poesie, oltre a cinque album. A questo punto della sua carriera, Oliviero Malaspina in che ruolo si riconosce di più, in quello di scrittore o in quello di musicista?

Non riesco a riconoscermi in nessuno di questi ruoli, mi ritengo un artista in divenire: voglio fare un milione di cose diverse e vorrei riuscire a completarle tutte bene. Senza lasciare niente in sospeso.

Ha collaborato con Cristiano de Andrè, ma anche, anni addietro, con suo padre Fabrizio, per il quale ha aperto i concerti dell’ultimo tour. Che ricordi ha di questo periodo della sua vita e cosa può raccontarci della sua collaborazione con il grande cantautore genovese?

Direi che è stato il periodo più bella della mia vita, finito nella maniera più drammatica possibile. Ho una quantità di ricordi infinita, ma solitamente, anche se racconto qualche aneddoto agli amici, è una parte della mia vita che preferisco tenere per me per una sorta di salvezza personale.

Presenta il suo ultimo album di inediti: Malaspina. Come si è sviluppato questo suo nuovo progetto musicale? Quale canzone ritiene la rappresenti di più e perché?

Riconoscersi in un concept album o in una canzone è molto difficile. Nello sviluppo del mio album ho deciso di non rimanere a casa, ma di andare per strada, conoscere e stare a contatto con altre realtà umane: quelle dei senzatetto e degli zingari. Il mondo del diverso, non del marcio. I mali della società non stanno per strada, ma stanno in altri luoghi. Ho cercato un approccio neorealista che però mi concedesse anche degli spazi “poetici”.

Crede che una manifestazione come Musicultura riesca a dare giusto spazio e visibilità agli artisti emergenti o pensa che ormai il mondo televisivo – in particolare i talent show – sia l’unico trampolino di lancio possibile?

Siamo di fronte ad un binario duplice. Il problema è che se negli anni passati queste due realtà riuscivano a convivere, adesso c’è una tensione fortissima. Forse a causa di una grande manovra dei network, vengono a mancare manifestazione alternative che danno spazio a concetti, non solo ad effetti. Non dividerei la musica in bella e brutta: definirei la musica prodotta da Musicultura e dei festival simili come musica per adulti, quella prodotta dai talent come X Factor musica per “bambini” e capiamo questa differenza se andiamo ad uno dei concerti degli artisti usciti dai talent. E’ un po’ come parlare della fine dello “Zecchino d’oro”: la funzione educativa della manifestazione educativa viene a mancare e si creano inevitabilmente questi due poli opposti, che però fortunatamente non si attraggono.

INTERVISTA – Marco Ciriello: l’anima del calcio come strumento per comprendere la realtà

Marco Ciriello , scrittore e giornalista, presenta a Musicultura il suo ultimo romanzo Per favore non dite niente, liberamente ispirato alla storia di Cesare Prandelli. Protagonista è Marco, ex calciatore diventato allenatore, che lascia la panchina per assistere la moglie Carla malata di cancro, immergendosi a fondo nella parte sommersa della sua vita, tralasciando il chiasso dei giornali e della tifoseria, che diventa solo un rumore di sottofondo. Cesare Prandelli, attuale allenatore della Nazionale, nel 2004 lasciò la direzione tecnica della Roma a causa della grave malattia della moglie Manuela, dichiarando: «Era lei la mia priorità. Molti si sorpresero […] Il calcio a volte ha paura della normalità».

Per favore non dite niente è una storia raccontata al maschile declinata al femminile, con una donna che istruisce alla dolcezza e alla delicatezza il suo compagno. Quanto una persona può imparare ed apprendere da colui o colei che le sta accanto?

Sicuramente molto, nella vita di coppia si ha una sorta di scambio: si sceglie di vivere con altre persone per avere un mondo che non è il nostro e per crearne un altro insieme, con l’apporto di due culture, esperienze ed educazioni sentimentali differenti.

Questo è sicuramente un romanzo sul dolore, di cui ciascuno può avere esperienza nella propria vita, come la morte per cancro di una persona che ti sta accanto. Pensi che la vera anima di uno sport nazionale come il calcio possa istruire i giovani all’affrontare il dolore e la realtà?

In realtà può istruire, e ciò dipende dagli educatori, dagli allenatori, dalle squadre, ma principalmente dalle famiglie di provenienza. Nel calcio ci sono stati moltissimi dolori, alcuni affrontati bene, altri male, tra tutti ricordo Morosini, calciatore morto sul campo di cui la storia e l’esempio non sono stati ancora ben recepiti.

Nel romanzo Carla si ammala e Marco sceglie di dedicarsi solo a lei. Questo non può che ricordare una storia vera, quella del commissario tecnico della Nazionale italiana, Cesare Prandelli, e infatti ne è liberamente ispirata. Quanto veramente c’è di Prandelli nel tuo romanzo?

Innanzittuto c’è il linguaggio di Prandelli, la sua medietà e delicatezza sia nell’affrontare la storia con la moglie, sia nell’allenare che nell’accogliere i calciatori. Pensiamo ad esempio al rapporto quasi paterno che cerca di instaurare con Balotelli.
Prandelli sembra aver trovato il linguaggio per far diventare i suoi ragazzi calciatori e nello stesso tempo uomini.

E’ nota la storia della diffida firmata dall’ufficio legale della federcalcio, forse più del tema di cui si occupa il romanzo. Come hai affermato, la lettera della Figc è la chiara dimostrazione che il libro non è stato letto nemmeno da Prandelli. Come è stato interpretato, secondo te, ciò che è solo un atto d’amore per il calcio, per lo sport e per una storia che ha colpito tutti?

E’ stata interpretata male, come del resto fa sempre il potere in Italia. La Figc è un potere, quello del calcio, che prima ti da un calcio in faccia e poi ti chiede cosa volevi.
Penso che non leggendo il libro e diffidandolo, abbiano fatto indubbiamente una brutta figura, Prandelli compreso. Non hanno capito il messaggio, rimanendo lontanissimi dal linguaggio della letteratura e delle narrazione dell’occidente. Penso che col tempo, e leggendo il libro, si capirà che questa è una storia qualunque che ha dato vita ad un libro pieno di delicatezza, proprio perchè ne era piena.

Da anni musicultura rappresenta la fusione tra la musica e molteplici forme d’arte, compresa la scrittura, che riveste un ruolo fondamentale. Come un autore può esprimere al meglio le proprie idee e i propri pensieri?

Trovando il linguaggio più adatto per lui. C’è chi lo fa con la musica, io lo faccio con la scrittura, dove c’è comunque suono. Nei precedenti libri ho usato diverse lingue, una addirittura inventata. Un metadialetto pieno di musica e sonorità, proprio perchè avevo bisogno di restituire un mondo pieno di culture differenti, soprattutto quelle africane. In questo libro, invece, avevo bisogno di moltissimo silenzio, tanto che mi sono ispirato a Mahler ed al silenzio che c’è nelle sue opere.

INTERVISTA – La tecnologia che aiuta la musica: intervista a Quirino Cieri

Dal 19 al 21 giugno, Quirino Cieri propone, presso gli Antichi Forni di Macerata, i suoi “Ascolti in hi-fi”: una serie di incontri finalizzati all’ascolto della musica attraverso strumenti d’avanguardia che possano rendere ottimale la qualità del suono. La tecnologia utilizzata vuole essere un ulteriore supporto alla riproduzione musicale che, purtroppo, molto spesso si avvale di mezzi che indeboliscono le potenzialità comunicative proprie di ogni canzone.

In occasione del Festival di Musicultura, i suoi incontri mirano alla sensibilizzazione del pubblico nei confronti dell’ascolto musicale. Quanto pensa sia importante, nella vita e per la vita di tutti i giorni, la musica?

Penso che la musica sia importante, anzi importantissima: l’ascolto della buona musica, eseguita in un certo modo piuttosto che in un altro, fa parte della nostra vita quotidiana e rientra nel processo di formazione artistica e culturale di tutti noi. Ma non solo: la musica ha un ruolo fondamentale anche per quella che mi piace definire “formazione emotiva e sensibile”. È un po’ come andare al cinema per vedere un film che non sia il solito “cinepanettone” natalizio, ma un film che possa lasciare qualcosa in più; lo stesso accade con la musica. Di conseguenza, è importante avvicinarsi all’ascolto musicale non attraverso mezzi che siano in un certo senso “poveri”, come i lettori portatili o le cuffie che troviamo al supermarket a prezzi stracciati, ma con qualcosa che, pur avendo un costo non eccessivo, possa permettere l’ascolto in maniera più partecipativa, più consapevole e più attenta a certi dettagli delle registrazioni.

Anche se in modi diversi e attraverso strumenti differenti, la sua azienda e Musicultura sono entrambi produttori di musica: che tipo di connessione si può stabilire tra l’ascolto in hi-fi ed il Festival?

Siamo stati invitati, come azienda, ad utilizzare i nostri prodotti per far ascoltare al meglio la musica. In questo preciso contesto, che è quello di Musicultura e che non è quindi commerciale, non siamo chiamati a promuovere o vendere i nostri prodotti, i quali vengono semplicemente messi a disposizione di chiunque per far sì che la musica possa essere ascoltata in modo ottimizzato. L’obiettivo di fondo è comunque quello di proporre brani musicali che vengano anche trattati tenendo conto del loro background culturale, ad esempio comprendendo la storia di quel pezzo, le sue motivazioni, le fasi di registrazione e le intenzioni del suo autore.

Quanto pensa sia importante, adesso, il ruolo della tecnologia per la diffusione dei prodotti musicali? In altre parole, crede sia un mezzo imprescindibile o riesce a vedere altre alternative?

La tecnologia, adesso, ha già raggiunto un livello elevatissimo ed ha fatto passi da gigante in pochi anni, però viene, di solito, usata male o non adeguatamente. Alcuni interventi che propongo nelle mie presentazioni sono basati proprio sul modo in cui, purtroppo, spesso la musica viene letteralmente massacrata attraverso la ricerca del volume sempre più alto. Bisogna capire che non è alzando il volume al massimo che la qualità dell’ascolto migliora. Nonostante questa tendenza sia andata sempre più consolidandosi negli ultimi dieci, quindici anni, proprio per un preciso motivo commerciale e discografico, fortunatamente si sta assistendo ad un “ritorno alle origini”: sia gli artisti che i produttori, piuttosto che gli stessi studi di incisione, infatti, si stanno rendendo conto che si deve fare un passo indietro, si deve tornare a proporre la musica utilizzando le sue naturali dinamiche di ascolto, anche attraverso i silenzi. Quello che, di fatto, accade per la musica classica, dovrebbe in realtà essere trasferito nell’ambito della musica leggera, pop, rock, e così via. E per fortuna sono sempre di più gli artisti che stanno comprendendo questa necessità.

Musicultura, il Festival della musica popolare e d’autore dedicato ai giovani artisti, tende in un certo senso a mantenere viva la tradizione musicale italiana. Che futuro prevede per la nostra musica? Crede che l’avanzamento tecnologico possa nuocere o essere invece d’aiuto alla trasmissione di una certa cultura popolare?

Sicuramente la tecnologia può essere di grande aiuto. Mi viene in mente, ad esempio, il fatto che adesso è molto più semplice, rispetto a qualche anno fa, registrare musica in casa propria, in piccoli studi improvvisati, o in minuscole cantine, con mezzi più economici rispetto a quelli che si trovavano in commercio fino a poco tempo fa, ma che permettono comunque di raggiungere un risultato migliore. Ma ci vuole molta sensibilità: bisogna conoscere bene i mezzi che si stanno usando, saperli utilizzare nel modo migliore e non aver paura di chiedere agli specialisti del settore informazioni utili su come ottimizzare il loro uso senza degenerare in cattive abitudini. Uno strumento che, in questo senso, può essere d’aiuto, passa attraverso la conservazione di un Archivio storico musicale italiano. A Roma, ad esempio, esiste la Fonoteca di Stato, che conserva tutte le registrazioni pubblicate nel nostro Paese; non so sinceramente se ad oggi sia ancora attiva al cento per cento, probabilmente è una di quelle istituzioni che sta risentendo in modo particolare dello snaturamento culturale attuale. Potrebbe essere una buona idea quella di creare una specie di Archivio centrale digitale, consultabile on-line e ad accesso gratuito, che conservi campioni di registrazioni a disposizione di tutti gli utenti.

INTERVISTA – Luigi Lo Cascio e il lato umano del fare l’attore

Nel nostro immaginario, Luigi Lo Cascio è Peppino Impastato, è Nicola Carati, è Saro Scordia; è uno straordinario attore teatrale, capace di tenere il palco in Amleto e Sogno di una notte di mezza estate; è il vincitore di Nastri D’argento, David di Donatello e premi UBU; e, per finire, è il regista di alcune pièces teatrali e di un film, La città ideale. Ma questo non è Luigi Lo Cascio, questo è solo il suo lavoro. Lo dimostra all’incontro organizzato da La Controra: si relaziona con la sala gremita di persone di tutte le età con un fascino e una sicurezza che lasciano la platea totalmente ammaliata. Parla di quanto sia grato alla sua famiglia, di quanto gli piaccia il lavoro che fa, dei suoi desideri, di alcuni aneddoti riguardanti il suo passato, degli esordi, di cinema e letteratura; risponde alle domande che gli vengono poste dai ragazzi del laboratorio de La Controra e guarda con piacere i video realizzati per lui; il tutto intermezzato da scene esilaranti, che alleggeriscono l’atmosfera: si alza per chiudere la finestra perché “c’è corrente”, chiede al pubblico di non farsi fare foto e video perché “non ha il fisico” e ci dice che, a lui, il suo film da regista è piaciuto molto. “Se dico qualcosa degno di rimanere nella vostra memoria, lo ricorderete. Sennò, meglio che lo dimentichiate”. Io ricordo tutto. E adesso mi piaceve scriverlo. Signore e signori, Luigi Lo Cascio:

Ha interpretato molti ruoli forti, impegnati, “politici”, se mi passa il termine. Ha mai avuto paura di non riuscire a rendere loro giustizia?

A prescindere dal ruolo che interpreto, rimango sempre un po’ insoddisfatto. Nel teatro la cosa è diversa: il fatto che ci siano 30 giorni di prove permette di interiorizzare, poco a poco, il dispiacere di non essere all’altezza di rendere giustizia ai grandi autori. Siamo troppo piccoli, ci manca la strumentazione intellettuale e sentimentale adeguata al privilegio di poter pronunciare certe parole. I giorni di prova ti permettono di abituarti all’idea di accontentarsi della forma che hai raggiunto, cercando di rimanerci il meno male possibile. Per quanto riguarda il cinema, invece, vivo tutti i giorni col dispiacere di non aver potuto raggiungere qualcosa di più preciso, di più in linea con come secondo me le cose andavano fatte. È un mestiere, per come l’ho appreso io, dove la forma è provvisoria; c’è sempre una possibilità ulteriore di miglioramento che spesso il tempo, o le tue capacità, ti negano. A volte vivo con grande dispiacere il lavoro di attore, perché impone il doversi fermare ad un certo punto. Ma questo è anche il suo bello, è la cosa che lo rende più umano, perché anche nella vita non abbiamo modo di provare, e siamo sempre impreparati. La risposta, quindi, è che, al di là del ruolo politico o meno, io sento sempre di avere una responsabilità rispetto ai testi che interpreto e vivo con dispiacere il fatto di non essere mai, purtroppo, del tutto adeguato.

Lei pensava di non essere adatto al mondo del cinema e di appartenere maggiormente al teatro. Ha vinto il David di Donatello per l’interpretazione di Peppino Impastato nel film I Centi Passi, primo ruolo in assoluto che ha interpretato cinematograficamente, cui ha fatto seguito una brillante carriera. Questo l’ha aiutata a modificare il pensiero che aveva su se stesso o continua a preferirsi sul palco?

È difficile rispondere in poche parole. Mi piace moltissimo il lavoro che provo a fare al cinema e ho imparato ad amarlo ancora di più dopo aver fatto il regista, perché mi ha permesso di provare una posizione più scomoda: quella di chi propone il film. L’attore è facilitato nel rapporto con questo mestiere, non deve pensare a molte cose e deve concentrarsi solo sul personaggio. Per permettegli di vivere sul set lo stesso sentimento che prova quando sale su un palcoscenico teatrale, però, il cinema deve disporre di un grande personaggio, un grande autore e una grande sceneggiatura. Se siamo a livelli molto alti, insomma, è gratificante anche il mestiere cinematografico, ma non capita spesso. Nel teatro puoi entrare in scena senza un montatore che sceglie per te o un regista che preferisce un tipo di angolazione piuttosto che un’altra; sei totalmente responsabile di quello che il pubblico vede. Fondamentale è anche l’approfondimento del personaggio: quando si recitano testi di importanza capitale, bisogna essere consapevoli di stare pronunciando parole che hanno attraversato millenni. Recitare una battuta di Edipo, davvero, anche una sola, è qualcosa di vertiginoso. All’attore cinematografico non sempre è richiesta questa presenza assoluta e questo livello di messa in gioco; perché una cosa è mettersi in gioco in ambito professionale, tipo sbagliare un film, e un altro è mettersi in gioco come uomo, capendo quanto peso abbia il dover dire certe parole come se fossero tue. Il teatro, in questo senso, ti impone una grande strumentazione emotiva e culturale che non sempre il cinema richiede.

L’uomo Luigi Lo Cascio è indiscutibilmente diverso dall’attore, e come tutti ha avuto sogni e delusioni. Se non ce l’avesse fatta in questo campo, chi sarebbe lei oggi?

Io, in realtà, volevo fare il medico; lo psichiatra, per l’esattezza. È una cosa che mi ha sempre affascinato, sin da ragazzino: la maggior parte dei miei parenti, appartenenti al lato materno della famiglia, sono dottori, e mio zio, che ha ricoperto un ruolo molto importante nella mia formazione, è proprio psichiatra. Se non fossi diventato un attore, quindi, avrei fatto quello; ho anche frequentato la facoltà di Medicina. Ne La meglio gioventù il mio ruolo era appunto quello di uno psichiatra, ed era anche il tipo che mi sarebbe piaciuto essere; l’ho trovata una felice coincidenza, perché anche nella finzione sono riuscito a percepire che quella era una vita che poteva essermi cara. Non l’ho mai dimenticato.

Nel 2012 ha scritto, diretto ed interpretato un film che ha concorso alla Biennale di Venezia, La città ideale. Pensa che rimarrà un caso isolato?

Mi auguro di no, ma non dipende da me. Posso dirti, magari, che scriverò ancora poesie, perché bastano la mia stanza, un foglio di carta, la penna e quello che mi viene in mente. Posso anche decidere di fare uno spettacolo teatrale in una saletta piccola, perché sono certo possa accadere. Col cinema, invece, non si può mai dire: fare un film costa troppo, bisogna convincere tante persone ad aiutarti. Il cinema non si fa da solo. È una cosa che non dipende da me, ma desidererei fortemente fare un’altra esperienza in questo campo.

Musicultura, il festival della canzone popolare, aiuta da ormai 25 anni giovani artisti emergenti ad ottenere visibilità cercando di eludere le logiche del mercato; permette, inoltre, a centinaia di artisti già affermati, in campo musicale e non, di interagire con il pubblico. Secondo lei quanto questo tipo di manifestazioni risultano effettivamente funzionali alla promozione della cultura in un paese?

Non te lo so dire in termini numerici, ma sono certo che queste cose siano fondamentali; non nel senso di importanti, ma proprio nel senso di “rappresentanti il fondamento”, basilari. Stiamo andando verso una sorta di imbarbarimento culturale. Nonostante io ancora non sia riuscito a fare qualcosa in merito, mi auguro di poterlo fare in futuro, perché penso che queste iniziative siano di grande importanza. Poi è ovvio che bisogna sì fare queste cose, perché sono occasioni di crescita e rappresentano quasi una forma di resistenza, ma bisogna anche focalizzarsi sul vero compito: cambiare le mentalità. È chiaro che cose come il cibo o la sanità rappresentino una priorità, ma non si può e non si deve sminuire l’importanza degli incentivi alla cultura. È fondamentale riuscire a capire che non si vive di solo pane, e bisogna cercare poi di farlo passare anche agli altri. Siamo tutti essenzialmente diversi grazie alla cultura! Nel momento della costruzione dell’identità, della moralità e del sentimento politico si passa anche attraverso l’apprendimento culturale di certi autori e di certe musiche. Noi siamo questo: io sono diverso da te perché le nostre storie sono diverse e questo è dovuto agli incontri che abbiamo fatto; incontri di tipo affettivo, certo, ma anche di genere culturale. Essendo noi molto piccoli, il poter ricevere l’insegnamento dei grandi dovrebbe essere considerato un privilegio. Perché non lo è per tutti? In questo senso penso sia importante che le persone che fanno questo mestiere riescano a trasmettere a tutti il valore della cultura; i tagli ai settori culturali e alle università non possono più essere trattati come un male minore, le persone devono sentire il torto che subiscono.

INTERVISTA – La vita ordinaria di un supereroe del XXI secolo: intervista a Davide Toffolo

Facile stare col proprio eroe quando vince. Ma cosa succede quando il nostro eroe torna a casa, si toglie la maschera, si sfila il costume e si rilassa? Succede che spuntano un paio di boxer imbarazzanti, dei calzini spaiati, una barba incolta e una pettinatura discutibile. Si riscopre la dimensione più intima del supereroe e si ribaltano i mondi: le azioni più quotidiane, come fumarsi una sigaretta o giocare una partita di tennis alla Wii, diventano eroiche, e per ogni palla andata a segno il pubblico esulta, ma per ogni punto perso è proprio Eltofo che chiede partecipazione al pubblico. O meglio, Davide Toffolo, cioè Eltofo lontano dai palchi, nella sua cameretta. E’ così che ci fa entrare nella sua vita privata, con uno spettacolo di stand up comedy dedicato a Andy Kaufman in cui ci accompagna in una visita guidata virtuale nel suo quartiere e in casa sua, la sua piccola Cappella Sistina, uno spazio ricoperto dalle sue stesse tavole. L’uso che fa della sua maschera segna con consapevolezza il confine tra la sfera privata e quella pubblica. Attraverso una proiezione di scatti rubati, ci fa ripercorrere con lui il viaggio dalla sua casa di Pordenone a Macerata, dove ci regala una bellissima intervista in cui ci parla del suo ultimo libro “Graphic Novel is Dead”.

Consideri il romanzo grafico un’evoluzione del romanzo tradizionale scritto con un linguaggio più adatto alle nuove generazioni o piuttosto una forma a sé con una sua precisa chiave di lettura?

La graphic novel è una delle forme del fumetto e in quanto tale ha un linguaggio specifico; ha a che fare con la letteratura in modo tangenziale, c’entra poco con la grande storia del romanzo scritto. E’ una storia nuova, un media che ha poco più di cento anni e che vive di un continuo rinnovamento di forme. Tutti nella vita abbiamo incontrato una delle forme del fumetto, tipo quelli della Disney da bambini, e i più fortunati di noi sono stati accompagnati da questo linguaggio tutta la vita. Io e altri autori, in questi ultimi venticinque anni, abbiamo lottato in modo disperato perché ci fosse una possibilità più adulta per questo linguaggio, e una delle forme adulte che il fumetto ha raggiunto è proprio la graphic novel.

Perché dici che il romanzo grafico è morto? Perché intitolare un libro “Graphic Novel is Dead” in un momento in cui invece, a giudicare dalle vendite, si direbbe un genere in piena espansione?

E’ vero, la graphic novel in questo momento vive la sua fortuna editoriale e commerciale. Uno dei motivi è la facile dematerializzazione dei libri, mentre quella del fumetto è molto più difficile perché è un pezzo d’arte costruito sulla riproduzione cartacea e la sua forma è fondamentale. La vera opera d’arte non è nell’originale, che può avere una forma artigianale più o meno interessante, ma proprio nell’oggetto fisico. Mentre ogni cultura nel tempo ha sviluppato una sua modalità per i fumetti, la graphic novel è il primo caso nella storia in cui esiste una forma unica e globalizzata in tutto il mondo, o almeno in Occidente: un romanzo con un formato di circa 24×17. “Graphic Novel is Dead” vuol dire che mi interessa ancora lavorare sul linguaggio: è vero che la graphic novel è un punto interessante ma non è un punto d’arrivo, bensì un punto di passaggio di un linguaggio che ogni volta che immagini di prendere ha la capacità di scappare e andare da altre parti. Ma è anche una specie di manifesto per dire che la graphic novel esiste. Se avessi proposto questo titolo dieci anni fa nessuno avrebbe capito di cosa stessi parlando, invece adesso un titolo così vuol dire tante cose: vuol dire che la graphic novel è una modalità di incontro col fumetto che esiste quasi per tutti, e che è un luogo di libertà per gli autori, non un luogo costrittivo in cui esiste soltanto il giornalismo a fumetti o la narrazione lunga.

“Graphic Novel is Dead” alterna foto di Cecilia Ibañez che raccontano la tua vita pubblica e tuoi disegni che rappresentano invece la tua vita privata: perché questa suddivisione?

Il libro è un’autobiografia, che è una delle caratteristiche di certi tipi di grandi graphic novel, come Maus o Persepolis, per citarne alcune, ma allo stesso tempo il tentativo che ho fatto è quello di lavorare ancora sul linguaggio: un linguaggio ellittico, che prosegue per pagine uniche, che ricorda un po’ l’origine del linguaggio del fumetto. Nel libro parlo di due aspetti della mia vita:  l’identità pubblica, coperta da maschera e costume da yeti, che è raccontata da foto, e la parte più intima, che invece è narrata da fumetti. Perciò c’è un doppio ribaltamento per cui la parte reale diventa finta o comunque costruita con una scrittura che potrebbe non sembrare realistica. E’ un perché narrativo e un gioco; il linguaggio è sempre quello del fumetto anche nel momento in cui c’è la foto.

Nel corso della tua doppia vita di musicista e fumettista, ti sei sentito più supereroe ad esibirti sui palchi o a disegnare nella tua stanza?

La vita  del disegnatore di fumetti è titanica perché sei da solo, con i tuoi pensieri, con un certo tipo di megalomania e di potere che hanno tutti i disegnatori di fumetti: tutti pensano di essere il Dio del proprio universo, perché lì controlli tutto, dalla forma delle finestre ai tuoi personaggi. Però devo dire che quando stai sul palco e tanta gente canta con te, certo l’ego rischi di non tenerlo a freno.

INTERVISTA – Musicultura presenta il selfpublishing con Antonio Tombolini e Valentina Capecci

In questi primi giorni di Festival è stato più volte ribadito un concetto che, del festival, incarna lo spirito essenziale: la parola Musicultura è una voce doppia composta dai due motori che ormai da venticinque anni animano la sua ricerca: musica e cultura. Tra i tanti appuntamenti de La Controra, dunque, è stato e sarà ancora possibile ascoltare artisti che spaziano tra diversi settori culturali: musica, cinema, teatro, arte e letteratura. Proprio quest’ultimo punto è stato l’anima dell’incontro tenutosi a Palazzo Conventati: LUI È MIO E LO RIVOGLIO. Un romanzo da hit, una riflessione su editoria e selfpublishing digitali, presentato dalla vicesindaco Federica Curzi, con la partecipazione di due ospiti che hanno avuto modo di conoscere e apprezzare il mondo dell’editoria digitale e del metodo del selfpublishing: Valentina Capecci e Antonio Tombolini. Nota scrittrice e sceneggiatrice di origini Ascolane, Valentina Capecci ha scalato la top ten di Amazon con il suo ultimo libro Lui è mio e lo rivoglio, edito da Narcissus.me, una piattaforma di servizi per l’autopubblicazione, che consente a chiunque lo voglia di pubblicare in autonomia le proprie opere in formato digitale (ebook) e di metterle in vendita nelle principali librerie online italiane e internazionali. Antonio Tombolini è invece il fondatore della Antonio Tombolini Editore, una casa editrice selfpublishing che, attraverso le sue collane, si dedica a generi, tematiche e stili molto diversi fra loro, dallo steampunk, al diritto penale, fino alla narrativa. Si è parlato della situazione dell’editoria digitale e, in particolare, del fenomeno dell’autopubblicazione. Anche noi di Sciusià abbiamo voluto fare loro qualche domanda. Ecco che cosa hanno risposto.

Sig. Tombolini, come è nata l’idea di creare l’Antonio Tombolini Editore?

Ho deciso nel 2006, quando ancora non c’erano gli ebook, perché ero interessato a capire se poteva accadere per i libri quello che stava già accadendo per la musica, ossia la transizione al digitale favorita dalla rete. Il tempo mi ha dato ragione e la realtà del libro elettronico oggi è sotto gli occhi di tutti, conquista spazi di mercato sempre più importanti. La chiave di volta è comprendere che non si tratta solo di un passaggio banale dalla carta stampata allo schermo di lettura, ma che vengono rimesse in discussione tante delle regole dell’editoria tradizionale. Il selfpublishing è probabilmente l’area in cui si sperimentano maggiormente queste nuove dinamiche della produzione libraria, ed è per questo che è il settore che più mi interessa.

Musicultura è un festival culturale, e non solo musicale, in cui si cerca di far emergere nuove voci in diversi campi dell’arte. Possiamo dire che anche il selfpublishing abbracci questa iniziativa, ossia dare spazio a nuovi geni letterari. Dunque, quale miglior evento per parlarne?

Ciò che il selfpublishing si propone è l’abbattimento delle barriere d’ingresso all’espressione culturale, in questo caso libraria, ma lo stesso vale anche per la musica. Il digitale, abbattendo costi di produzione e di distribuzione, consente finalmente l’ingresso nei grandi circuiti distributivi su scala globale a chi vuole provare a far conoscere le proprie produzioni artistico-culturali. Questa è la rivoluzione in atto, c’è da dire che molti operatori tradizionali dell’editoria vivono questo fenomeno in chiave di ostilità; ma a torto, perché se non si adegueranno a queste nuove logiche rischieranno di rimanere fuori gioco. Sono felice di parlare di questo argomento qui a Musicultura perché, come dicevo prima, è proprio grazie a ciò che stava avvenendo in campo musicale che ho deciso di muovermi verso il selfpublishing. Oggi credo che il fenomeno dell’autoproduzione accomuni tutte le espressioni artistiche e quindi anche un incontro tra la realtà editoriale del libro e quella della musica non può che essere utile.

Lui è mio e lo rivoglio , Sig.ra Capecci, è stato pubblicato con il metodo del selfpublishing attraverso la piattaforma Narcissus.me. Lei ha già pubblicato altri libri in formato cartaceo per diverse case editrici. Come mai ha deciso di sperimentare questo diverso tipo di pubblicazione?

Perché mi piace sperimentare nuove strade e perché è una soluzione a cui pensavo già da tempo. Inizialmente credevo di non essere in grado, e probabilmente sarebbe stato così se non avessi avuto modo di conoscere una struttura che si occupasse di questo, come quella delle case editrici on line. Anche se non dovrei intenderla così, ma piuttosto come un gruppo di editori molto flessibili e dinamici. Ho fatto questa esperienza perché mi piacciono le sfide e volevo mettermi in gioco, adesso, a distanza di sei mesi, sono molto contenta di averlo fatto.

Lei è molto legata alla città di Macerata, dunque non sarà la prima volta che assiste agli eventi legati a Musicultura. Che cosa apprezza maggiormente del festival?

Sì, amo molto questa città e mi “costringo” a fare la pendolare nonostante viva e lavori a Roma. Apprezzo il fatto che abbia delle iniziative che si rivolgono ai giovani, e Musicultura è una di queste: è pensata per i ragazzi che cercano di farsi strada nel mondo della musica per cui, avendo nei confronti dei giovani un amore, una cura, un rispetto particolari, apprezzo molto questo genere di iniziative che possono dare delle opportunità. Inoltre seguo e apprezzo la musica, dunque sono felice che qui le vengano dati il giusto spazio e il giusto merito.

Vorrei ora rivolgere un’ultima domanda a entrambi: il selfpublishing da voce a chiunque voglia esprimersi attraverso la scrittura e pubblicare così le proprie opere. Non pensate che questo, a lungo termine, possa portare anche all’accumulo di produzioni di scarso valore?

Tombolini: Io credo che la libertà espressiva non possa essere vista come un fattore negativo. E’ evidente che con l’abbattimento delle barriere di espressione c’è spazio per tante cose buone e per altre meno buone, ma questo non deve mai essere un motivo per non permettere alle persone che vogliono farlo di esprimersi. Se posso permettermi una piccola critica all’editoria tradizionale, che invece poneva questo genere di barriere quasi materiali e fisiche per cui chi voleva farsi leggere doveva passare attraverso quel mondo e i suoi determinati criteri, ora con il selfpublishing tale problema si pone sempre meno. È vero anche che il lettore adesso dovrà imparare a scegliere tra una produzione molto più vasta, dove non tutto è buono. Ma io tendo molto di più ad apprezzare un mondo in cui è il lettore a dover scegliere, che non un mondo in cui, girando per le librerie, si trovano sempre gli stessi quattro titoli imposti dall’editoria.

Capecci: Penso che in questo modo tutti quelli che vogliono scrivere si rivolgano a un pubblico senza filtri, e sarà esso a scegliere. È vero che il lettore deve sviluppare la capacità di saper scegliere, ma a maggior ragione egli si sentirà stimolato a leggere e comincerà a conoscere diversi autori. Comincerà a crearsi un gusto tutto proprio, per cui scoprirà degli autori che lo appassioneranno di più e di cui leggerà più opere, o viceversa altri che gli piaceranno meno. Inoltre c’è il passaparola, che caratterizza quella magnifica cassa di risonanza che è internet, per cui è il pubblico che decide ciò che è bello e ciò che è brutto. Certo, esiste anche la pubblicità, ma di sicuro su internet non ha la stessa insistenza che ha in televisione, dove un nuovo libro viene presentato ripetutamente in diverse trasmissioni e chi guarda da casa è portato a comprarlo perché figura come il nuove best seller del momento. Su internet il best seller lo fanno i lettori dopo aver letto il libro, secondo un loro giudizio, non dettato dai media. E ciò è molto positivo.

INTERVISTA impossibile: Bruno Gambarotta racconta il “fenomeno Simenon”

Sorride nostalgico Bruno Gambarotta, accompagnato dalla fisarmonica di Walter Porro. Un tentativo di riportare in vita il “fenomeno Simenon”, figura affascinante e artista prolifico del XX secolo, a lungo sottovalutato in Italia, o almeno apprezzato solo per la parte più commerciale dei suoi scritti. Gambarotta attinge a fonti autentiche di Simenon e alla sua esperienza diretta nella casa dell’autore a Losanna nel 1963, e attraverso un’intervista impossibile cerca di raccontarci un po’ della sua vita privata, della sua arte e delle sue manie: aveva la passione di annunciare le disgrazie, ci dice, contava i passi delle sue passeggiate in giardino e aveva un contenitore di matite tutte rigorosamente temperate dalla moglie. Non ci descrive un eroe ma una persona, con una grande sensibilità per l’ambiente che lo circonda e una sorprendente capacità d’osservazione, un artista con una vita movimentata di cui ha saputo cogliere ogni attimo, ed una vocazione all’infelicità di cui fa il suo mestiere: la scrittura. Gambarotta ci regala spunti di profonda emotività alternati a momenti di ironia, dimostra una conoscenza appassionata e una grande disponibilità, e si concede ad un’intervista, la nostra, con la tenerezza e la generosità di qualcuno che ha qualcosa di importante da raccontare.

Possiamo definirla un artista polivalente: si è occupato di letteratura, giornalismo, televisione, musica e gastronomia. Secondo lei la musica può essere definita una sorta di collante in quest’incontro tra forme d’arte?

La fruizione dell’arte sta cambiando. La figura ancora ottocentesca del lettore nel raccoglimento e nel silenzio non esiste più; spesso la lettura si accompagna con la musica, si crea una forma di compresenza in cui l’una aiuta l’altra. Le nuove generazioni, soprattutto, fanno le due cose insieme: studiano e intanto ascoltano la musica, molti si fanno addirittura ispirare dalla musica. Io stesso, che ho settantasette anni, se devo ricordare dei momenti precisi della mia vita, li ricordo molto più facilmente associandoli a musiche che ho sentito allora per la prima volta più che a letture. Perciò sicuramente la funzione della musica in questo senso è sempre più importante.

Come nasce l’idea di un’intervista a uno scrittore del passato? Dov’è il limite tra la finzione e la realtà, l’invenzione e il recupero delle fonti? Non si corre il rischio di confondere i due mondi?

L’intervista impossibile è un format radiofonico nato trent’anni fa nella testa di una grande programmista della radio: la regola fondamentale è che le risposte dell’intervistato devono essere autentiche, cioè prese da suoi testi reali. Nel mio caso c’è stata una grande libertà data dal fatto che Simenon è morto a 86 anni, ha cominciato a scrivere giovanissimo, si è sempre concesso ad interviste e ha scritto due libri di racconti autobiografici. L’intervista che ho preparato tocca temi fondamentali ma si basa su risposte che lui ha dato nell’arco di quarant’anni di vita, pur essendo stato sempre molto coerente. Il lavoro è nato in occasione dei sessant’anni dalla nascita di Maigret, e l’obiettivo è quello di spiegare il fenomeno Simenon, perché Simenon è un fenomeno: scriveva un romanzo in sei giorni, per anni ed anni ha scritto sei romanzi all’anno, centinaia di opere sotto diciassette pseudonimi. Scriveva in una specie di trance. Nel 1963 sono stato inviato come cameraman a casa sua a Losanna senza aver mai letto niente di suo in precedenza: piano piano sono rimasto affascinato da questa persona con tutte le sue manie, ho iniziato a leggerlo e ho capito che era un gigante della letteratura con degli aspetti quasi miracolosi, che ha scritto dei capolavori assoluti, una specie di Balzac del xx secolo.

Non definisce Simenon uno scrittore, bensì un narratore: in che consiste esattamente la differenza tra queste due categorie e per quale motivo ha inserito Simenon nella seconda?

Questa è una distinzione a cui tengo molto. Simenon dichiarava che nella fase di rilettura dei suoi lavori non faceva che tagli: cancellava aggettivi, avverbi, e soprattutto le belle frasi. Questo perché il narratore è uno che ha interesse a raccontarti una storia, non a farti vedere quanto è bravo a scrivere; questa è la differenza con lo scrittore. Il narratore tende a correre, e non è che si perde dietro alle bellurie; anzi, spesso i narratori sono giudicati cattivi scrittori, come per esempio Svevo, Pirandello, o Camilleri. Non è che siano superiori o inferiori agli scrittori, sono solo due cose molto diverse. Simenon ha scritto centinaia di romanzi e per leggerli non c’è mai bisogno di prendere in mano un dizionario per andare a cercare il significato delle parole che usa.

Com’è avvenuta la ricerca, da parte sua e di Walter Porro, di musiche adatte a restituire l’atmosfera della vita di Simenon?

Simenon richiama ovviamente gli anni ‘30 e ‘40 francesi, quindi quei grandi temi di Jaques Brel, Georges Brassens, Édith Piaf… Nel ’45 però Simenon va anche in America, scappa dall’Europa perché ha scritto degli articoli antisemiti e cerca di scamparla con la famiglia; non è stato un eroe, anzi. Sale sulla prima nave che parte dalla Gran Bretagna per gli Stati Uniti con quaranta bauli, la moglie e il figlio, e ci sta cinque anni aspettando che le acque si calmino. E quindi ci sono anche queste canzoni del periodo americano che fanno testo, fanno atmosfera…anche perché poi solo le parole stufano.