A tu per tu con DELVENTO e il suo “Inferno rosa”

Carmelo Genovese, in arte DELVENTO, torna a Musicultura dopo quattro anni con una consapevolezza diversa. Volgendo gli occhi all’esperienza fatta all’epoca, si vede “non troppo deciso e artisticamente acerbo”, soprattutto a confronto col suo primo palco importante. Ora, invece, col suo Inferno Rosa è tra i 18 finalisti del Festival, spinto da un uragano che è la libertà di perseguire i propri obiettivi e dalla bellezza della poesia,  punto di partenza delle sue canzoni, come ci racconta in quest’intervista rilasciata alla redazione “Sciuscià”.

Il palco delle Audizioni di Musicultura non ti è nuovo, avendo tu già partecipato nel 2020. Come è stato tornare e perché hai deciso di farlo?

Tornare sul palco di Musicultura è stato emozionante, ho avuto l’opportunità di mettermi ancora alla prova. Ho deciso di tornare perché penso che Musicultura sia una tappa fondamentale del cammino del cantautore in Italia; per crescere artisticamente è tappa obbligatoria, lo dico anche pensando al me del 2020, quel me cantautore ancora non troppo deciso e artisticamente acerbo ritrovatosi sul suo primo palco importante. Adesso ci sono di nuovo e non vedo l’ora di rimettermi in gioco e continuare a imparare.

Proprio alle Audizioni, hai aperto la tua esibizione con Tetto del mondo, brano che, a mio avviso, ci ha catapultati appunto all’interno del tuo mondo. Su Instagram, poi, nella tua biografia parli di “tutto il vento che vuoi”. Ecco, quanto di quel vento c’è sul Tetto del mondo?

Sul tetto del mondo c’è un uragano, e quell’uragano si chiama libertà. Io amo il concetto di “libertà”; cercare di elaborarlo è un esercizio per la mente critica, fantasticarci su è un esercizio per la mente emotiva; le sue infinite vie colorate, i suoi lati oscuri e la sua natura contraddittoria la rendono una grande fonte di ispirazione. Conciliare essere umano e libertà è la sfida originale; io in Tetto del Mondo parlo della libertà identificandola nel perseguimento degli obiettivi; quindi, “Stare sul tetto del Mondo” per me è il percorso, non la vetta; un percorso di vento, fatto di uragani e sogni, di vita vera ed emozioni fortissime, di enormi sofferenze, ma anche di grandi conquiste. Quanto siamo disposti a sacrificare per vivere liberi?

Ancora a proposito di biografia: leggiamo che hai iniziato la tua carriera partecipando a reading poetici. Quest’altra forma d’arte, la poesia, ti ha aiutato nella scrittura delle canzoni? Se sì, in che maniera?

Tutte le mie canzoni partono da una poesia. Per me la poesia è amore profondo: quando ne leggo o ne scrivo una, sprofondo in uno stato emozionale che ancora non riesco bene a descrivere: sembra di provare tutto, dalle emozioni più oscure a quelle più calorose e avvolgenti. Non so esattamente come la poesia aiuti la scrittura delle mie canzoni, però so che le canzoni sono emozione. Se in una canzone non c’è una chiara e forte emozione a far da collante alla musica e al testo, è meglio cestinarla e scriverla di nuovo.

Passiamo invece a Inferno rosa, brano selezionato da Musicultura per il tuo ingresso nella rosa dei 18 finalisti. Parlando di inferno, il primo colore a cui verrebbe da pensare è un rosso scuro, a definizione di un ambiente tetro, e invece tu lo hai descritto come rosa, facendo del titolo del pezzo quasi un ossimoro.  Come mai questa scelta?

Secondo me ognuno di noi vive il proprio inferno; per scrivere questa canzone mi sono distrutto emotivamente e poeticamente, l’ho cestinata e ricestinata, ho visto la protagonista nascere parola per parola e me ne sono innamorato. E ho pianto perché più la storia andava avanti più capivo che per lei non avrei mai potuto fare nulla se non attenuare un po’ il rosso del suo inferno con la dolcezza e la morbidezza del bianco, trasformandolo così in rosa.

Hai appena concluso il tuo Carmelo Tour: come hai vissuto quest’esperienza? Hai altri progetti in cantiere per il prossimo futuro? 

Stare in tour è mistico, è un mondo a sé; ha il suo codice, i suoi climax ed è la parte più bella del lavoro. Ho fatto un bel su e giù da settembre, con quasi 30 date in Italia tra piccoli club di periferia, teatri e club importanti del circuito, un po’ in band, un po’ da solo chitarra e loop; in tutti questi posti ci ho lasciato un pezzetto di cuore. Per quanto riguarda il futuro, al momento sono molto concentrato sul fare bene a Musicultura; seguiranno la release di Inferno rosa su tutte le piattaforme, a fine aprile, e nei mesi estivi altri singoli supportati da concerti.


 

Musicultura 2024: con “Halloween”, l’elogio all’imperfezione dei Dena Barrett

Un nome (e un cognome) che ne racchiude quattro: i Dena Barrett sono Tommaso, Elia, Michel e Marco, quattro ragazzi di Viareggio, figli degli anni ’90, uniti dalla passione per la musica e dall’esigenza di far sentire la propria voce. Così nasce la loro band che – muovendosi tra sonorità dark pop e indie rock, arricchite da echi cantautoriali – dimostra di avere tanto da dire già nel suo disco d’esordio, Immobili a ballare, espressione delle dinamiche di una generazione che non può, e non vuole, più stare in silenzio: precarietà e vita di provincia, senso di oppressione e di inadeguatezza, lavoro e alienazione, aspettative e tempistiche da rispettare sono solo alcuni dei temi di cui si fa portavoce questo progetto. Si aggiudicano un posto tra i finalisti di Musicultura con la loro Halloween; a spaventare, però, non sono i travestimenti horror – no, neanche quelli da fantasmi di Ghostbusters (da cui il nome della band) – ma una società che sembra pretendere sempre di più, schiacciando qualsiasi libertà. Come spiegano alla redazione di “Sciuscià”, la loro risposta è un elogio all’errore e all’imperfezione. In un mondo che si muove sempre più veloce, la loro protesta è quella di permettersi di restare fermi; e, infatti, alle feste non ballano.

Per cominciare, parliamo della vostra storia. Come nascono i Dena Barrett e come siete riusciti a conciliare le vostre precedenti esperienze artistiche personali, soprattutto in un anno difficile come il 2020?

Nonostante tutto quello che stava accadendo nel mondo, per noi è stato facile iniziare a scrivere musica insieme: i nostri percorsi precedenti con altre band ci hanno portato a frequentare gli stessi ambienti della realtà viareggina, quindi ci conoscevamo già tutti e quattro; ci piaceva quello che facevamo divisi e così abbiamo deciso di unirci. Il fatto di aver avuto esperienze diverse ci ha dato molti spunti creativi e allo stesso tempo ci ha spinti a ricercare un sound e una poetica che fosse più nostra e identitaria possibile: speriamo di esserci riusciti.

Immobili a ballare è il vostro disco di esordio. Il titolo è un ossimoro che sembra voler sintetizzare la difficoltà-necessità di esprimersi e il senso di inadeguatezza che fa da sfondo a tutti i nove brani. È così? Ci parlate di questo album?

È proprio così. Con questi nove brani abbiamo voluto raccontare il nostro punto di vista: quello di quattro ragazzi figli degli anni ’90 un po’ incazzati e un po’ disillusi; quelli della generazione che, citando Alberto Ravasio, da bambini ci hanno ingrassati di desideri. E quando poi siamo cresciuti, c’hanno detto che erano finiti i soldi”. Per questo, sentirsi inadeguati in questo tipo di società, forse, è una naturale conseguenza. In questo disco ci sono le dinamiche umane che ci fanno scervellare quotidianamente, dal rapporto con l’altro alla condizione di individui che cercano un loro posto nel mondo, lavorativo o esistenziale che sia. Canzoni che sono piccole cose nostre ma, forse, anche di altre persone.

“Nascendo in provincia si vive con un elastico legato al cuore, più provi ad andare lontano e più ti tiene qui”, si legge nel testo di Clara. La provincia, dunque, è un punto di partenza da tenere saldo o qualcosa da cui evadere?

Questa è una domanda che ci coinvolge molto. Probabilmente per chi nasce e cresce in provincia arriva sempre un momento in cui ti chiedi: “Ma io voglio vivere tutta la vita qui?”. A noi è successo e chissà, magari succederà di nuovo. Io (Tommaso) ed Elia (chitarrista) ci siamo trasferiti per un anno rispettivamente a Torino e a Milano; come diciamo dalle nostre parti, ci siamo rigirati presto. Vuoi per un motivo, vuoi per un altro, ma ad incedere è stata anche la nostalgia, è stato quell’elastico di cui parliamo che in qualche modo ti porta a tornare al punto di partenza. Vivere in provincia è quella cosa che ti fa sentire un po’ indietro rispetto a quelli che vivono in città -forse questo è un dato di fatto abbastanza scontato- e, per recuperare questo gap, la soluzione più naturale sembrerebbe quella di andarsene. A noi è servito a poco, ma invidiamo molto chi ci riesce.

Il brano selezionato per il Concerto dei finalisti, Halloween, esprime il disagio di una generazione rinchiusa in vincoli e sovrastrutture sociali, alla ricerca di un “elemento anarchico” per liberarsene. Credete di poterlo trovare qui a Musicultura? Cosa vi aspettate da questa esperienza?

Il fatto che Musicultura sia un festival che difende e porta (in) avanti la musica d’autore -ascoltando ciò che arriva dall’industria musicale mainstream- forse rappresenta già di per sé un elemento anarchico. Essere arrivati fino a qui per noi è bellissimo. Abbiamo tante cose da dire e poterlo fare in un contesto del genere è molto importante e gratificante.

“In ritardo da sempre per sentirsi vivi/col rischio di arrivare sempre ultimo, ma a me piace restare e sentirmi l’ultimo” è una affermazione, contenuta proprio in Halloween, che mi ha colpito; cosa volete dire? Forse che il percorso è più importante dell’arrivo?

Per noi quella frase è un elogio all’imperfezione. In un sistema che ci vuole sempre performanti, sempre al passo con i trend del momento, produttivi e consumatori, in cui si dedicano sempre più articoli a persone – solitamente privilegiate – che raggiungono obiettivi impossibili per i più, generando in questi ultimi maggiore ansia, crediamo che essere sbagliati sia anche un piccolo atto di resistenza e un motivo d’orgoglio. Quindi, volevamo dire che sentirsi inadeguati, a volte, ci fa anche piacere.


 

“Vivere è ok” e Ormai è a Musicultura

Il crollo e il disastro che lasciano spazio a sogni, idee e desideri; gli esordi con una band sperimentale; la vita tra euforia e baratro; il desiderio di lasciare un’impronta e un nome d’arte che se ne fa testimone. E ovviamente lei, la musica. C’è tutto questo nell’intervista che Ormai, tra i 18 finalisti di Musicultura con il brano Vivere è ok, ha rilasciato alla redazione Sciuscià.

La tua carriera artistica prende il via da unesperienza in un gruppo, per poi passare al progetto solista. Esser parte di una band ti ha fornito gli strumenti necessari per iniziare il tuo percorso da solista o senti di aver ricominciato tutto da capo?

Inquietude, la band in questione, è stata singolarmente l’esperienza formativa più importante del mio percorso, se la sommi alle esperienze autorali. Basta pensare che in tre, su quattro che eravamo nel gruppo, siamo sul palco di Musicultura. Quando abbiamo iniziato non pensavamo ci saremmo scambiati così tanto: molto di quello che ora sappiamo sulla musica nasce dalle ore divise insieme.

“E dico frasi assurde come Vivere è ok“: questo è un estratto di Vivere è ok, brano selezionato per il concerto dei finalisti di Musicultura. Cosa porta a pensare che vivere è okay” sia così assurdo e cosa, invece, può condurre lontano da questa assurdità?

“Vivere è ok” è una assurdità perché oscilliamo tra l’euforia e il baratro. Vivere per me è sempre stato un disastro perfetto, allo stesso modo in cui le stelle vincono sulla notte ma quest’ultima rimane fondamentalmente oscura. Ho perso moltissime persone e ne ho trovate altrettante, con la facilità con cui sono uscito da dipendenze mi sono tuffato dentro altre. Non so come si esca dall’assurdo e dal paradosso di malsopportare la vita e poi restare stupefatti di fronte a un tramonto qualunque. Forse è un assurdo che mi piace.

In diverse occasioni hai dichiarato di sentirti tormentato dall’idea di essere costantemente in ritardo e non al passo con i tempi che corrono. Deriva da questa sensazione il tuo nome d’arte, Ormai? Raccontaci della sua genesi. 

Non sono fatto per quest’epoca musicale. Questo è evidente. Penso però che, in ritardo o in anticipo, sia giusto fare le cose in modo puro, anche se nel processo ci fa sentire inadeguati o imperfetti. Penso sia parte dell’esperienza di essere artisti. Il mio nome d’arte arriva da “orma” perché volevo, come si fa da adolescenti, lasciare un’impronta, una scritta sul muro. È diventato “Ormai” perché ero parecchio disperso all’epoca.

Stai lavorando al tuo primo album, riguardo al quale dichiari di avere una missione ben precisa: parlare a chi soffre di esperienze simili alla tua, trovare una nota positiva, la scintilla da cui ripartire. Qual è, o qual è stata, per te quella scintilla?

Senz’altro la scintilla è il rapporto con gli altri, sentire di dedicarsi a qualcuno e viceversa. Forse tempo fa avrei detto che era la musica, ma purtroppo la musica non può salvare nessuno, amarsi e amare invece sì.

Hai collaborato con Clementino, Rosa Chemical, Nayt, Fabri Fibra, Giorgia; immagino che queste esperienze abbiano arricchito molto il tuo percorso artistico. In che maniera ti aspetti che quest’ultimo venga ulteriormente impreziosito dal confronto con gli altri finalisti di Musicultura e col palco del Festival?

Intanto ascoltando gli altri partecipanti sto scoprendo brani bellissimi. Spero di legare con chi ha missioni simili alla mia. Ogni artista con cui ho lavorato mi ha dato qualche frammento di esistenza su cui arrovellarmi. A pensarci bene, ha fatto lo stesso ogni persona in generale con cui ero pronto ad ascoltare. Penso ci sia margine per crescere parecchio.


 

“Scogli”. Perché senza il mare i Velia non sarebbero quelli che sono

Irene e Matteo si sono conosciuti alle audizioni per entrare all’Officina Pasolini.  Dopo un’iniziale collaborazione per la produzione di testi, hanno deciso di iniziare a fare musica insieme. La loro intesa, ben evidente sul palco, passa anche per il legame con il mare, il cui richiamo è presente nel titolo e nel testo di Scogli, brano col quale sono in concorso a Musicultura. Il tema centrale del pezzo è la capacità che ha appunto il mare di custodire i ricordi e i segreti che le persone si portano dentro. E qualcuno di questi ricordi e di questi segreti attraversa anche questa intervista. 

Velia, ovvero Irene e Matteo: due giovani cantautori, una sola creatura musicale. Il classico caso in cui il tutto è più della somma delle singole parti. Come vi siete conosciuti e com’è nato questo sodalizio artistico?

Ci siamo conosciuti all’Officina Pasolini, un laboratorio di alta formazione musicale di Roma. Ci siamo presentati singolarmente alle audizioni per entrare nella nuova classe con due progetti individuali, separati. Il sodalizio artistico è nato per necessità: entrambi avevamo bisogno di un aiuto per le produzioni e per i testi. Iniziando a collaborare abbiamo anche iniziato a suonare insieme, e sono state le persone che venivano ad ascoltarci a farci rendere conto che il modo in cui cantavamo e ci accompagnavamo non era da progetti singoli, ma era da gruppo. È stato un processo naturale, dovuto anche al fatto che ci sono state sin da subito una specie di colpo di fulmine artistico da parte di entrambi, profonda stima e voglia di imparare dal modo di fare musica l’una dall’altro.

L’immaginario marino è il vostro elemento distintivo, richiamato sia dal titolo del singolo Scogli, con cui siete in concorso a Musicultura, sia dal nome d’arte, Velia. Questa parola latina, infatti, significa “nascosto” e rimanda forse a tutto ciò che è avvolto dalle onde e si deposita sui fondali. Perché è così importante per voi il mare?

Il mare è il luogo dove entrambi siamo cresciuti; quello di Irene è il mare pugliese e quello di Matteo è il mare toscano. Entrambi abbiamo sempre avuto un legame particolare con il mare, che sentiamo essere un elemento che negli anni ha accolto e custodito i nostri segreti e le nostre paure. Probabilmente senza la vicinanza al mare non saremmo le persone che siamo.

Il brano Respirare, che avete presentato alle Audizioni Live del Festival, parla delle reazioni umane di fronte al dolore e della capacità di affrontarlo per andare avanti. C’è stato un avvenimento particolare che vi ha portato a scrivere questa canzone? E perché avete scelto proprio questo titolo?

Respirare racconta la storia vera di un trauma che Irene ha affrontato pochi anni fa; descrive la giornata in cui ha perso suo padre, nell’ambito della quale molte delle persone che aveva intorno si aspettavano da lei una reazione più visibile di quella che all’apparenza ha avuto. Non riusciva a piangere, ma guardava nel vuoto perché si concentrava a respirare, una funzione primaria che in quel momento faceva molta fatica a svolgere. Questa canzone è stata scritta da lei dopo un paio di anni in cui è stata totalmente in silenzio su come si fosse sentita ed avesse affrontato quella giornata in particolare: scriverla è stata una vera e propria liberazione. L’ha poi fatta ascoltare a Matteo che con la massima delicatezza possibile è riuscito a dare, con l’arrangiamento e la sua produzione, un valore aggiunto alla comprensione del testo e del momento che c’era dietro.

La vostra musica è un’originale contaminazione tra elementi pop ed elementi alternative rock. Come vi siete avvicinati a questi generi? Ci sono degli artisti che vi hanno particolarmente ispirati?

Abbiamo avuto culture musicali per certi versi simili e per altri molto diverse. Entrambi abbiamo avuto in comune l’amore per i Queen, partito sin da piccolissimi, che poi si è diramato in Matteo per una passione per gruppi come Depeche Mode e Muse e per Irene per gruppi come Florence and The Machine e Aurora.

A quali progetti vi dedicherete dopo Musicultura e cosa porterete con voi di questa esperienza?

Di Musicultura sicuramente ci porteremo dietro la gentilezza e la professionalità che abbiamo incontrato in tutte le persone che ne fanno parte: lavorare insieme a loro è una coccola e nonostante chi concorre viva un momento di tensione, la professionalità con cui poi ci si rapporta rende tutto sereno. Per quanto riguarda i nostri progetti, ci dedicheremo all’uscita del nostro EP, che abbiamo previsto per settembre, e a suonare live il più possibile: è il momento che in assoluto preferiamo del nostro lavoro.


 

De.Stradis: «“Quadri d’autore” per lasciare un riflesso nitido di me»

Probabilmente lo avrete già conosciuto come frontman dei Westfalia, la band con cui nel 2021 si è presentato al grande pubblico partecipando a X Factor. Vincenzo De Stradis, in arte De.Stradis, è un musicista cresciuto tra le spiagge della Puglia e le aule del Conservatorio di Bologna. Duale il suo percorso artistico e di vita, Duale il titolo del suo EP d’esordio, che dà forma al suo progetto solista. In questo lavoro c’è tutto: la sperimentazione vocale e strumentale con gli amici di vecchia data, l’influenza delle esperienze internazionali con la band, le citazioni tratte dagli ascolti del cuore e la ricerca costante del calore nostalgico della terra d’origine, richiamato dalle sonorità R&B e soul jazz. In Quadri d’autore, il brano selezionato per il Concerto dei Finalisti di Musicultura, Vincenzo si riflette in De.Stradis come in uno specchio d’acqua, cercando di far combaciare i due volti in una perfetta corrispondenza. In questa intervista rilasciata alla Redazione Sciuscià, svela infatti di voler lasciare al pubblico un’immagine di sé nitida e sincera.

La Puglia, il mare, l’estate, le sonorità calde dell’R&B e del soul jazz: le tue canzoni sembrano avere un immaginario e una palette di colori precisi. C’è un ricordo della tua infanzia pugliese – che sia un episodio particolare o una semplice sensazione – a cui sei particolarmente legato e che ti ispira quando componi?

Ho imparato ad amare e ad apprezzare la mia cultura di provenienza solo quando me ne sono andato: è un gioco psicologico che ha colpito molte persone che hanno vissuto una separazione con la propria terra d’origine. Per questo motivo, nella mia musica ricerco spesso quel calore in maniera nostalgica. Avrei tanti ricordi da rispolverare, ma credo innanzitutto di essere una persona abitudinaria che ama la ripetizione e la tradizione; quindi, sono i dettagli e le abitudini che ritrovo ogni anno a regalarmi maggiore emozione e stupore. Ce ne sono molti che mi stanno a cuore, ma forse l’emozione più forte è tuffarmi in acqua ogni volta come se fosse la prima, nuotare in apnea sul fondale e abbandonarmi, dopo un anno di rumore in città, al silenzio del mare.

E poi c’è Bologna, la città dove hai studiato al Conservatorio e attualmente vivi. Come ha inciso il capoluogo romagnolo sul tuo percorso? 

Bologna in Italia è un porto di mare: tutti ci passano e tutti ne restano stupiti per l’energia che regala e, se non sei ben centrato, ha anche il vizio di intrappolarti in una spirale di divertimento. Io a Bologna devo tantissimo: se la Puglia mi ha dato i valori e la stabilità per costruire la persona che sono, Bologna mi ha dato gli strumenti per diventare quello che volevo. Vivo in questa città da 10 anni e ho conosciuto persone incredibili non solo musicalmente, ma anche umanamente, per ricchezza di vissuto e diversità di personalità. Al Conservatorio ho avuto la fortuna di trovare amici, oltre che colleghi, con cui continuo tuttora a far musica: per esempio Antonio Rapa, che suona con me alla batteria, l’ho conosciuto proprio in classe 10 anni fa; come anche Filippo Bubbico, con cui collaboro da sempre. È con lui che ho lavorato alla produzione di Duale.

Parliamo proprio di Duale, il tuo EP di debutto pubblicato nel 2023. A quale dualismo intendevi dar voce?

 Duale è una raccolta di tanti momenti degli ultimi 5 anni, in cui il tema della dualità nell’affrontare la vita mi è tornato spesso in mente. Mi sento una persona “duale”, nel senso che la mia personalità è scissa tra una forte componente razionale, che mi guida nell’affrontare la vita di tutti giorni, e una grande spontaneità e impulsività, che viene fuori nella musica quando ho un’idea o mi esibisco sul palco. Duale è poi il mio modo di affrontare il dolore, che, come ho scritto nel testo del brano Ombre, è sia forza distruttrice che perno per il cambiamento. Duale è anche il modo in cui i miei brani sono stati concepiti: con un’improvvisa intuizione iniziale, seguita da un’idea precisa di come svilupparla e cosa comunicare. Insomma, nonostante creda più in un mondo “multipolare”, ho sempre trovato affascinante il concetto di dualismo.

Anche la tua carriera è segnata da un certo dualismo: porti avanti in parallelo il tuo progetto solista e quello con i Westfalia, band con cui nel 2021 hai partecipato a X Factor. Come riesci a conciliare questi due progetti? E come cambia la tua personalità artistica, se cambia, tra l’uno e l’altro?

Quella di questi due progetti è una dualità un po’ parziale. Sicuramente, quando canto e scrivo con i Westfalia viene fuori un lato della mia personalità più ironico, cinico e rabbioso, che però è frutto di una coscienza collettiva. Il più grande pregio dei Westfalia è proprio che siamo, anacronisticamente, una band vera: tutto il processo creativo viene svolto insieme e, quindi, anche nella parte autoriale si manifesta una volontà di gruppo. I Westfalia puntano poi a un campionato internazionale che forse avrei più timore di affrontare in solitaria, ma che allo stesso tempo mi permette di suonare tanto all’estero e arricchirmi di nuovi stimoli che poi riverso anche nel mio progetto solista. In questi anni, la cosa più bella di aver portato avanti due progetti musicali in contemporanea, e in maniera sana, è stata la possibilità di rinnovarsi continuamente prendendo un po’ dall’uno e un po’ dall’altro: quando abbiamo scritto l’ultimo disco dei Westfalia, per esempio, ho esplorato artisticamente dei mondi che ora sto portando anche nel nuovo lavoro discografico come De.Stradis; la stessa cosa accade spesso anche all’inverso.

Il brano con cui sei stato selezionato per il Concerto dei Finalisti mi fa pensare che la tua musica sia molto visiva: sembra nascere da uno spiccato spirito di osservazione e voler creare, appunto, immagini sonore. È così? Se sì, che immagine di te vorresti lasciare al pubblico di Musicultura?

Nella musica mi piace molto trasmettere attraverso le citazioni. È una caratteristica che credo di aver assorbito, anche se in maniera molto diversa, dai primi dischi di Caparezza, artista che mi ha folgorato al liceo. Forse, quando in Quadri d’autore canto «i miei occhi hanno la tua firma» rivelo inconsciamente questo mio guilty pleasure. Questo è per ora il pezzo più sincero che abbia mai scritto, ci tengo molto. La prima immagine che ci vedo è il movimento dell’acqua paragonato a quello della gente che si muove fluidamente per le strade. È questa, forse, l’immagine di me che vorrei lasciare al pubblico di Musicultura: un riflesso nitido su uno specchio d’acqua calma e trasparente, che mostri la mia copia più sincera.


 

«Un’occasione da non perdere»: così PORCE vive la sua esperienza a Musicultura

Sembra correre in equilibrio su due binari la vita di Emiliano Porcellini, in arte PORCE: è un tecnico informatico, ma da qualche anno ha intrapreso la strada del cantautorato. Complici la pandemia e la nascita di sua figlia, ha riscoperto la passione per la musica e ha iniziato a dedicarsi alla scrittura delle sue canzoni, tra le quali La fine della festa, brano grazie al quale è tra i finalisti di Musicultura 2024. Quello del Festival è il suo primo palco; lo condivide con due musicisti incontrati per caso, che pur appartenendo a una generazione diversa “parlano la sua stessa lingua”. Di tutto questo ci racconta nell’intervista rilasciata alla redazione “Sciuscià”.

Sei un tecnico informatico e la tua esperienza artistica è nata di recente, durante i periodi di lockdown: è allora che hai scelto di dedicarti di nuovo agli strumenti musicali che tanto ti avevano appassionato da piccolo; è allora che hai cominciato anche a scrivere canzoni. È stata solo una questione di maggior tempo a disposizione o è un’altra la molla che è scattata?

Il sovrapporsi di due circostanze particolari, ovvero la nascita di mia figlia Eva Luna e l’arrivo del Covid, mi ha obbligato a rimanere per molto tempo tra le mura di casa, dandomi la possibilità di riscoprire una passione mai sopita a cui potermi dedicare senza orari. Questo mi ha permesso dapprima, con un po’ di fatica, di riordinare le idee per capire cosa fare, successivamente di dedicarmi alla scrittura di testi e musiche, che a volte erano solo delle bozze, ma che spesso prendevano la forma completa di una canzone. La sorpresa e la soddisfazione di vedere appunto che i pezzi che si completavano mi hanno dato l’impulso per insistere e proseguire. Il fatto che – non sempre, alcune volte – c’erano delle canzoni che nascevano e si completavano in una sola sera mi ha fatto riflettere ed è stata probabilmente la vera molla che è scattata. In ogni caso, in quel periodo non pensavo minimamente che avrei potuto suonarle e cantarle io.

Musicultura è la tua prima esperienza su un palco; cosa significa approcciare a un contesto come quello del festival e perché hai scelto di partecipare?

Ho scelto di partecipare perché volevo avere un confronto esterno per capire se quello che stavo facendo poteva avere un significato anche per altri e non solo per me.  Musicultura mi è sembrata subito un’occasione da non perdere e senza pensarci più di tanto mi sono detto: “Perché no?”.

Ancora a proposito di palco: i musicisti con cui lo condividi sono molto più giovani di te. Come vi siete conosciuti, cosa vi ha portati a decidere di percorrere questo pezzo di strada insieme e qual è il rapporto che lega due generazioni diverse?

Ci siamo incontrati una prima volta casualmente nel luogo in cui lavoro per la riparazione di un computer che aveva come sfondo del desktop una loro foto mentre suonavano e ne abbiamo parlato. Quando, tempo dopo, il caso li ha fatti tornare una seconda volta, ho preso l’iniziativa e abbiamo iniziato a vederci in una sala prove nella via accanto per cercare di dare forma alle mie canzoni. Probabilmente ci lega la passione per un certo tipo di musica che attraversa il rock, il jazz e la musica sinfonica e che paradossalmente non c’entra molto con le canzoni che proviamo a costruire.  Anche se apparteniamo a due generazioni diverse, mi sembra che parliamo la stessa lingua. Mi ritengo molto fortunato ad avere incontrato dei ragazzi che oggettivamente sono musicalmente molto più avanti rispetto alla loro età anagrafica.

In La fine della festa, brano con cui sei in concorso a Musicultura, scrivi: “Sono l’angelo dei ricordi, ma solo di quelli che fanno male”. Perché questa scelta? È qualcosa di autobiografico che spinge ad abbandonarsi a memorie che feriscono o questa frase sottende altro?

Il brano La fine della festa è caratterizzato da frasi il cui soggetto è la guerra in senso lato.
Ognuna di queste dà vita a un’immagine che prende senso dalle rappresentazioni che il mio vissuto ha conservato di questa specie di calamità che attraversa la storia dell’uomo. Solo a tal proposito si può dire che il testo conserva qualcosa di autobiografico, non per esperienza diretta, ma per conoscenza mediata dei fatti accaduti nel passato e che anche oggi si ripetono, cercando di lasciare comunque una certa libertà di interpretazione all’ascoltatore. Per esempio, la frase “Sono il ghigno del lupo appena dentro all’ovile” fa riferimento specifico all’agghiacciante dichiarazione di Joseph Goebbels al primo ingresso, nel 1928, dei nazisti in parlamento, “Stiamo entrando come lupi nell’ovile”, ma funziona comunque anche se interpretata letteralmente. Che “la guerra” sia il fulcro su cui poggia tutto il testo viene suggerito alla fine del brano, nel rimando a La guerra di Piero, in cui i “papaveri rossi” si trasformano senza veli in “cadaveri rossi”.

Stai lavorando a un progetto che uscirà quest’estate: cosa dobbiamo aspettarci?

Al momento non ho ancora modo di rispondere compiutamente a questa domanda; spero solo di riuscire a pubblicare sulle principali piattaforme alcune canzoni, ovvero un mix di pezzi cantautorali e di brani pop rock un po’ più leggeri, e di proseguire con una certa regolarità a pubblicarne di nuovi.


 

«In movimento mi sento particolarmente vivo»: “I mirabolanti racconti di Tommi Scerd”

Tommaso Montarino, in arte Tommi Scerd, è giovane bresciano – nomade di destinazione, però – che con il suo brano Mela 5 si è aggiudicato un posto tra i diciotto finalisti della XXXV edizione di Musicultura. Dice di cacciarsi spesso in situazioni assurde, è stravagante, sempre in cerca di nuove avventure e di sfumature in cui muoversi in diagonale, costantemente in viaggio. E tutti questi elementi sembrano essere racchiusi nel titolo del suo primo album, I Mirabolanti Racconti di Tommi Scerd. Proviamo a farcene anticipare qualcuno con questa intervista. 

Partiamo dalla tua nota biografica, nella quale scrivi: “Tommi Scerd vi racconterà di essere un cantautore e potrebbe anche convincere alcuni di voi. Non credetegli, perché questo ragazzo non sa niente, né chi è e nemmeno che sta facendo”. Sembra quasi tu voglia scappare dalla consapevolezza di te. Perché?

La musica funziona quando ci si diverte, ma c’è anche da dire che per funzionare deve rispettare molti parametri, spesso poco divertenti. In questo ambito, infatti, bisogna sapere chi si è e cosa si sta proponendo, quale genere, quale target, con quali tempistiche pubblicare e chi tenersi vicino nel farlo. Toglie tanto divertimento, quindi non appena trovo una sfumatura in cui posso muovermi in diagonale io lo faccio, compresa la bio. E poi a pensarci bene lo penso davvero.

Genova è la città in cui vivi. Ed è la città di Fabrizio De André, primo firmatario del Comitato Artistico di Musicultura, di Gino Paoli, Luigi Tenco, Bruno Lauzi. Muovere in un contesto così importante per il panorama musicale italiano ha in qualche maniera influito sulla tua scelta di essere un cantautore?

Mi sono trasferito a Genova da Bologna due/tre anni fa: sono originario di Brescia, ma nomade di destinazione. Sicuramente con la mia ragazza siamo finiti proprio lì e non da un’altra parte anche per l’atmosfera che si respira, che è legata alla storia musicale della città e che ha nutrito le canzoni a sua volta.

Genova, ancora: è lì che sei stato cameriere tra i vicoli e – faccio appello di nuovo alla tua bio – “apprendista di vita di strada di un uomo che viveva su una bicicletta”. È un’immagine molto bella, che restituisce il quadro di un vissuto volutamente intenso. Come quel vissuto entra nella tua musica? Bussa, chiede permesso o si fa largo con prepotenza? 

Mi caccio spesso in situazioni assurde, per curiosità, per sfida, per sfortuna. Provo emozioni forti e faccio ragionamenti che mi piace poter condividere. Le mie canzoni sono state per molto tempo autobiografiche e di autoanalisi; il mio vissuto le ha attirate verso me e io mi son lasciato guidare a mia volta in tante occasioni.

“Io non ho più suole, dovrei cambiarmi le scarpe, sembro distante ma guarda, non parlarmene di ritornare a casa”, scrivi in Mela 5, brano che ti è valso l’ingresso nella rosa dei 18 finalisti di Musicultura. Hai viaggiato molto, tanto da consumare le scarpe, e sembra tu non abbia alcuna intenzione di fermarti. Parti per sola sete di conoscenza, per osservare il genere umano nella sua interezza, o è altro che ti porta a non riuscire a star fermo in un posto?

È una serie di fattori che non saprei riassumere con nitidezza. L’effetto percepibile alla fine della catena dei perché è che in movimento mi sento particolarmente vivo, perché mi sento alla ricerca. Sono in cerca di punti di vista originali per guardare la realtà, perché penso che fornirli sia il fine ultimo dell’arte. E siccome mi sento un addetto a questo ambito, ho bisogno di sentirmi utile e all’opera.

I Mirabolanti Racconti di Tommi Scerd è il titolo del tuo primo album, che dovrebbe uscire a breve. Cosa dobbiamo aspettarci da questo progetto?

Sarà un album in cui la parola e la musica hanno la stessa importanza. Le parole comunicano la trama, di racconto in racconto, ogni canzone col proprio messaggio. La musica è l’ambientazione: un po’ moderna, coi suoni fatti col computer, un po’ antica, con chitarra, basso e cori, e un po’ sperimentale, perché non si rifà consapevolmente a nessun modello.


 

“Musicultura? È il mio habitat”: a tu per tu con Anna Castiglia (e pure con “Ghali”)

Città diverse; forme d’arte diverse; esperienze diverse: la carriera di Anna Castiglia è puntellata di molteplicità. E di fasi che coincidono col passaggio da un posto all’altro: da Catania, luogo di nascita in cui scopre la passione per la musica e inizia le prime sperimentazioni, a Torino, scenario di crescita professionale e concretizzazione di un sogno, fino a Milano, metropoli ancora da scoprire. E ora? Ora Musicultura, perché il suo nome è tra quelli dei finalisti della XXXV edizione del concorso e Ghali il suo brano selezionato dalla giuria del festival. Il pezzo affronta alcune tematiche della società contemporanea, tra cui il rapporto che c’è tra le nuove generazioni musicali e quelle legate a una modalità espressiva che guarda di più al passato. Ci racconta proprio di questo, e di molto altro, in questa intervista.

Partiamo dagli albori: quale è stato il momento in cui hai capito che la musica sarebbe diventata una parte fondamentale della tua vita?

Ho capito di poter e voler fare questo nella vita a Torino, quando mi sono trasferita a 18 anni. La città è piena di locali ed eventi per emergenti, vedere concretamente qualcuno/a che cantava le proprie canzoni per lavoro ha fatto credere anche a me di poterlo fare. La passione è nata molto prima, a Catania, quando ero piccola, ma prima di uscire dalla stanzetta restava sempre un sogno. Ancora lo è ma lo sento più concreto e necessario, non mi immagino in altri panni.

Non solo cantautorato: l’arte sembra abbracciare il tuo percorso in molteplici forme.  Non a caso, tra i vari studi che hai fatto c’è anche quello di recitazione. Come ha influenzato il tuo modo di stare sul palco? 

In realtà, se ci penso, è arrivata prima la recitazione della musica perché i miei genitori hanno fatto entrambi teatro; anche io e mia sorella da piccole abbiamo fatto qualche commedia dialettale. La recitazione, così come la danza, è utilissima alla musica; e la musica è utile a recitazione e danza. Conoscere anche le altre discipline è stato ed è tutt’ora fondamentale per me. Il mio progetto futuro e più grande è realizzare uno spettacolo musicale, non un musical, che possa contemplare le discipline, anche il tip tap. Quindi una sorta di varietà con monologhi musicati, canzoni e danze.

E se l’arte non è una sola, nemmeno le città lo sono: nel corso della tua vita ne hai cambiate diverse, passando da Catania a Torino, per poi approdare a Milano. Quanto differiscono le scene musicali di questi tre posti e che input hanno dato, o stanno dando, alla tua produzione artistica? 

Le scene musicali sono spesso legate alla città in cui nascono. A Catania ho fatto la prima gavetta, quella delle cover e del piano bar, dei cavi aggrovigliati e dei mixer non funzionanti, Insomma, ho imparato l’arte di cavarsela e dell’intrattenimento. Fare tante cover è un ottimo modo per imparare a suonare ma anche ad arrangiare e comporre; quindi, il periodo catanese è stato fondamentale. La scena Torinese è molto definita ma anche variegata; come accennavo poco fa, ci sono tantissimi posti in cui suonare e in cui ho suonato. È qui che colloco la seconda gavetta, quella più professionale e burocratica, delle ritenute d’acconto e dell’esenzione; ho imparato a lavorare. Invece la scena Milanese è nuova per me, non sto avendo modo di sviscerarla in tutti i suoi localini perché sono qui da poco, perché mi sono catapultata in un’altra fase e perché al momento sono in tour in tutta Italia, però da pubblico ovviamente la conosco e noto un carattere molto metropolitano ed europeo, c’è di tutto.

Il brano Ghali, selezionato da Musicultura per il tuo ingresso nella rosa dei 18 finalisti, parla di problematiche e contraddizioni della società odierna. Vi fanno capolino, per esempio, la disoccupazione e la facilità con cui un giudizio può essere influenzato dal pensiero altrui. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio queste tematiche?

Volevo scrivere una canzone che parlasse dello scarico delle colpe. Di chi si sente vittima di qualunque cosa, anche delle cose inanimate, perché incapace di assumersi le proprie responsabilità. Accusare, per paura di essere accusate/i, denigrare e affibbiare uno stereotipo o una colpa storica: questo mi ha spinta a scrivere Ghali. Si chiama così perché anche noi cantautrici/cantautori di “vecchio stampo” diamo spesso la colpa alla trap o ai nuovi generi per i nostri insuccessi. Ma non è certo colpa di Ghali se le nuove generazioni si sentono spesso più rappresentate da quel genere e da quei temi, non è proprio una colpa, è normale.

Il tuo curriculum è nutrito di esperienze anche molto diverse tra loro. E adesso approdi anche a Musicultura. Cosa rappresenta questo festival per Anna Castiglia?   

Musicultura rappresenta un traguardo, dato che seguo il festival da anni e ho sempre sognato di parteciparvi, ma anche uno schieramento: sottolinea un po’ il mio habitat in un periodo in cui ho fatto anche cose lontane da me, come il passaggio in televisione (X-Factor, ndr); poi sono contenta di aver conosciuto nuovi ambienti e aver cambiato forma, mai contenuto, però sicuramente Musicultura per quello che faccio e voglio fare è il massimo.


 

“In debito” col rap che lo fa sentire vivo: intervista a FALCE

FALCE, all’anagrafe Alberto Falcetta, classe ’95, cresce nella provincia torinese. A 20 anni inizia a cimentarsi con il suo genere preferito, il rap. Per sperimentare anche al di fuori del suo progetto da solista, nel 2022 fonda insieme a un suo amico il collettivo North Flow, che attualmente raccoglie venti artisti. Con il brano In debito si è aggiudicato un posto tra i finalisti della XXXV di Musicultura e proprio alla redazione del Festival racconta ora del suo percorso nel mondo della musica, delle sue esperienze e di un domanda – preziosa nella sua semplicità – dalla quale tutto è scaturito: “Perché non provo anche io?”.

Guardiamo un attimo indietro: quand’è che Alberto Falcetta ha deciso di diventare FALCE e perché?

Domanda non banale. Quasi dieci anni dopo sento che sto appena iniziando a sfiorare il “perché” lo faccio. Quindi partiamo dal come. Ho iniziato a rappare a 20 anni, dopo praticamente tutta una vita passata come fan del genere. Ho iniziato chiedendomi: “perché non provo anch’io?”. Negli anni mi sono sempre chiesto perché avessi iniziato, trovando risposte sempre meno complesse. A oggi posso dire perché lo amo. Perché è la cosa che più mi fa sentire vivo, necessario, che dà quotidianamente un senso e una narrazione alla mia vita. Ogni giorno scopro cose nuove. Vi terrò aggiornati.

Scrivi canzoni e suoni fin da bambino, hai calcato numerosi palchi, sei molto attivo nella scena underground torinese, hai pubblicato quattro dischi. Insomma, la tua carriera artistica è ben nutrita. C’è una cosa, però, che leggendo la tua biografia pare renderti particolarmente orgoglioso: la fondazione del collettivo North Flow. Ci racconti di questa esperienza e di quello che rappresenta per te?

North Flow nasce a settembre 2022 come un progetto di coppia, iniziato col mio caro amico Francesco Gargantini Mezzena, rapper pinerolese classe ’96, conosciuto col nome di Mezzi Termini. Voleva essere un modo per noi di esprimerci al di fuori del nostro percorso artistico solista, permettendoci di sperimentare stili, parole e soprattutto di divertirci. Come una piccola palla di neve che rotolando diventa valanga, nel tempo è diventato un collettivo di 20 artisti, tutti della mia zona, che ad agosto 2023 ho riunito a casa mia per una session di produzione musicale lunga 3 giorni. Da quell’esperienza è nata una grossa cartella di provini, che puntiamo a trasformare in un mixtape da fare uscire entro il 2024. North Flow significa per me prendermi cura e sentirmi parte di qualcosa. Significa identità e orgoglio. Il mio sogno è che la NF diventi la più importante etichetta discografica in Italia, che sia fucina libera di talenti di ogni provenienza e gusto musicale. Sogno che la sua fiamma riattizzi il fuoco sacro della creatività più libera e spregiudicata, ché al momento sembra essercene molto bisogno.

In debito è la canzone in concorso a Musicultura 2024; il suo testo, nella parte inziale, recita: “Coscienza di Zeno al servizio degli altri”; poi, un riferimento a Oliver Twist. Insomma, Italo Svevo e Charles Dickens nello stesso brano. È inevitabile chiedertelo: che rapporto hai con la letteratura e come entra nelle tue canzoni?

Ho sempre letto, fin da quando ero bambino, e la letteratura, come ogni cosa su cui si posi la mia attenzione, entra nelle mie canzoni per essere masticata e sputata nei testi, con l’intento di renderla più digeribile per chi ascolta. Come fanno gli uccelli coi loro piccoli. È il bello della musica.

Porti il rap sul palco di Musicultura, con due esibizioni in teatro: una al Lauro Rossi di Macerata, in occasione delle Audizioni Live, l’altra al Persiani di Recanati, per il concerto di presentazione dei finalisti. Com’è esibirsi in un contesto così diverso da quelli che nell’immaginario collettivo sono solitamente destinati a questo genere?

È sempre una bella sfida. Negli anni ho fatto molte date e i live con davanti più di cento persone li conto sulle dita di una mano, forse due. Ma per me è sempre un’enorme soddisfazione quando, fuori da teatri come il Lauro Rossi, mi si avvicinano persone totalmente estranee al rap per dirmi che le ho in qualche modo toccate con la mia musica.

A proposito di rap, concludiamo quest’intervista con una richiesta un po’ sui generis: so che è quasi un paradosso chiederti di farlo per iscritto, ma ci regaleresti qui un pezzetto di freestyle, con le prime parole che ti vengono in mente, dedicato a Musicultura e alla tua esperienza al festival?

Niente paura, lo dico sereno

Musicultura 100 volte San Remo


 

Tra viaggi, musica e energia dell’universo, Nyco Ferrari si svela: “Sono fatto così”

Nyco Ferrari: oggi cantautore, ieri poeta, domani raver; da sempre, insaziabile viaggiatore. Sulla sua bio di Spotify scrive: «Le canzoni le trovo in giro […] suono le storie che ho raccolto come se rilegassi le pagine di un diario di viaggio». Per adattarsi alle diverse città in cui ha vissuto – Londra, Dublino, Parigi, Shangai, Milano, New York – all’occorrenza è stato anche cameriere. Il suo nome d’arte, infatti, è nato nella cantina di un ristorante a Central Park, alla vista di uno scatolone di Pepsi con su scritto “NY-Cola”. Da lì è partito tutto. Un progetto artistico dove raccoglie tutti i souvenir musicali presi in giro per il mondo e li unisce in una formula che contempla l’indie, il pop, il jazz, il cantautorato e l’elettronica; le scale armoniche minori arabeggianti e le ballate celtiche; la profondità dei testi intimi e la leggerezza del sound dance che fa alzare tutti in piedi e ballare. Il risultato è una musica che muove da un’energia vitale e, come un rituale, connette le persone con il senso profondo dell’esistenza e le rigenera. Il brano che canterà al Concerto dei Finalisti 2024, Sono fatto così, è un vero e proprio biglietto da visita: una dichiarazione programmatica grazie alla quale Nyco Ferrari si racconta con grande sincerità. Un po’ come fa in questa intervista.

Nyco Ferrari: oggi cantautore indie-pop, ieri studente e poeta, domani raver. Scrivono di te che le parole “rito”, “connessione” e “rigenerazione” racchiudono la formula della tua musica. Ci dici di più di questo?

Ha a che fare con la mia visione del mondo. Credo molto nell’energia che ci pervade in quanto esseri umani, e che questa sia la stessa energia di cui è fatto l’universo. La musica, l’arte, come mille altre discipline, ci permettono di riconnetterci a questa energia, ritrovando il senso di quello che facciamo. Diciamo che vedo la musica come un rituale che connettendoci all’universo ci rigenera.

Sulla tua bio di Spotify scrivi che il tuo nome d’arte è nato nella cantina di un ristorante di New York, alla vista di uno scatolone di Pepsi Cola con su scritto “NY-Cola”. È partito tutto da lì. Ti va di raccontarci la genesi del tuo progetto musicale nella Grande Mela?

Sono arrivato a New York due mesi dopo aver pubblicato un album intitolato Sipario, sotto il nome d’arte di Nicola Savi Ferrari. Ma nella Grande Mela tutto è veloce, tutto è pratico, funzionale. E quella musica, quell’identità dal doppio cognome, era troppo pesante per trovare il suo posto fra gli ingranaggi impazziti di quella grande macchina. Lì, dondolando come un pendolo tra il ristorante a Central Park dove lavoravo e le jam session del Greenwich Village, ho dovuto semplificarmi. Quello scatolone marcio di Pepsi Cola mi ha ribattezzato, e due giorni dopo sono andato in un famoso pub irlandese a Times Square a propormi per un concerto. Al proprietario, un vecchio irlandese dall’accento forte, ho stretto la mano dicendo «Hi, I’m Nyco Ferrari», e quello mi guarda e fa: «nice name». Lì ho capito che era appena nato un nuovo me musicale.

Sei un insaziabile viaggiatore, sempre in giro per il mondo: a 19 anni hai lasciato tutto e sei partito per Londra, poi Dublino, Parigi, Shangai e la già citata New York. Quali sono i souvenir più significativi – sia nel senso di influenze musicali, che di oggetti materiali – che hai portato con te dalle città dove hai vissuto fin ora?

A Londra ho ballato la drum and bass di Camden Town. A Dublino ho ascoltato le ballate celtiche nei pub di Temple Bar. A Parigi ho riempito il cuore di Aznavour, fisarmoniche sotto i ponti e canzoni di cantautori di tutto il mondo che ogni martedì sera si riunivano dietro al Pantheon per cantare all’open mic del Petit Bonheur la Chance. Ma già in Francia pendolavo tra il ristorante dove lavoravo e il jazz del Duc de Lombards. A Shanghai ho provato ad ascoltare il jazz a Xin Tian Di, ma mi annoiava; preferivo ascoltare i vecchi cantare canzoni con un sacco di “OO” e di “AAA” nei parchi o i suonatori cechi di Er Hu nelle stradine turistiche. E poi, a New York, tanto, tanto, tanto, tanto, jazz. Ma anche vivere a Milano è stato un viaggio continuo. Per me è una città di musicisti e di cantanti, ed è grazie a lei che ho capito chi volessi essere davvero come artista.

Gli arrangiamenti, le strumentazioni e il ritmo tribale di alcuni tuoi brani, invece, rivelano delle influenze arabe e africane. Come ti sei avvicinato al mondo mediorientale?

Credo che centrino alcuni viaggi fatti da bambino con i miei genitori, uniti alla mia visione di musica come rituale. Le scale musicali non occidentali, in particolare quelle legate al mondo arabo e mediorientale, mi riportano a un immaginario di sole cocente e terre lontane dove poter abbandonare la propria struttura metropolitana, riconnettersi ai sensi e, per rarefazione del mondo, al senso più vero dell’esistenza. Quando canto improvvisando su una di queste scale, chessò, un’armonica minore, viaggio. Con l’acustica giusta potrei andare avanti ore senza accorgermene.

Vivere è quello che sono / poi trasformare la vita in un suono”, canti nel brano con cui sei stato selezionato per il Concerto dei Finalisti di Musicultura. Si intitola Sono fatto così ed è un po’ il tuo bigliettino da visita. Come nasce l’esigenza di raccontarti in maniera così sincera e libera in questa canzone e nell’omonimo album?

Dopo New York, tornato in Italia, ho iniziato a pubblicare qualche singolo decisamente più pop rispetto alle mie canzoni pre-New York. Ma avevo l’impressione di non riuscire comunque, nonostante la musica più semplice rispetto a quella del primo album, a comunicare davvero con il mio pubblico. Un giorno, seduto su un molo, mi sono chiesto che cosa unisse i grandi cantautori ai loro ascoltatori e mi è parso subito chiaro: la sincerità. «Devo raccontarmi», mi sono detto, «o nessuno saprà mai il senso vero della mia musica». Nella testa mi si è formulato spontaneamente il primo verso, già in musica, di Sono fatto così: «Non ti ho mai detto chi sono». E da lì ho solo seguito il mio discorso, parlando a un ipotetico ascoltatore, per poi proseguirlo negli altri nove brani dell’album.