La Finalissima su Rai 2

Martedì 15 luglio, in seconda serata, Rai 2 trasmetterà la finalissima della XXXVI edizione di Musicultura, Festival della Canzone Popolare e d’Autore che, in scena dallo Sferisterio di Macerata, vede sfidarsi otto giovani artisti vincitori: Alessandra Nazzaro (Napoli) con “Ouverture”, Elena Mil (Milano) con “La ballata dell’inferno”, Frammenti (Treviso) con “La pace”, Ibisco (Bologna) con “Languore”, ME JULY (Benevento) con “Mundi”, Moonari (Roma) con “Funamboli”, Abat-jour (Rieti) con “Oblio”, Silvia Lovicario (Nuoro) con “Notte”.

La conduzione delle due serate conclusive è affidata a Carolina Di Domenico e, per la prima volta, a Fabrizio Biggio. Gli ospiti sul palco dello Sferisterio sono Vinicio Capossela, Riccardo Cocciante, Eugenio Finardi, Valerio Lundini, Antonella Ruggiero e Tricarico. Ad impreziosire l’appuntamento televisivo di Musicultura è il reading di Simone Cristicchi di Ninna nanna della guerra, poesia di Trilussa. Il cantautore festeggia quest’anno il 20° anniversario del brano “Studentessa universitaria”, con il quale ha vinto il Festival nel 2005.

Lo speciale Musicultura 2025 è firmato da Matteo Catalano, con la collaborazione di Carolina Catalano, per la regia di Duccio Forzano. La Rai in veste di main media partner segue l’evento attraverso Rai Radio1, Rai2, Rai TGR, Rainews24, Rainews.it, Rai Italia e RaiPlay. Rai Radio1 è la radio ufficiale del Festival con Duccio Pasqua, Marcella Sullo e John Vignola. Rai Italia diffonderà il programma in ambito internazionale, con uno speciale a cura di Roberta Ammendola. Un piano editoriale integrato tramite il coordinamento di tutte le attività social. Rainews24, Rainews.it e TGR, completano il quadro dell’informazione e dell’approfondimento con dirette, servizi e rubriche della XXXVI edizione di Musicultura.

Musicultura 2025: la finalissima

L’ultima serata di un festival è sempre pregna di adrenalina: le luci si accendono, i microfoni si scaldano e l’atmosfera si riempie di aspettative. Dopo giorni di musica, parole, incontri ed emozioni, tutto culmina in un finale che promette scintille. Così prende il via la finalissima della XXXVI edizione di Musicultura, condotta da Carolina Di Domenico, ormai veterana del palco maceratese, e Fabrizio Biggio, nuova e gradita scoperta per il festival.

Aprono le esibizioni dei vincitori del concorso le Abat-jour; giovanissimi e carichi di energia, catturano subito l’attenzione del pubblico con la loro Oblio. La band, interamente under 20, sprigiona la vitalità travolgente tipica di quell’età, muovendosi grintosa sul palco e conquistando tutti fin dalle prime note. Riesce, così, ad aggiudicarsi il premio NuovoIMAIE, destinato alla realizzazione di un tour, e il premio della critica intitolato a Piero Cesanelli, ideatore di Musicultura.
Subito dopo, è la volta di Alessandra Nazzaro. La cantautrice campana incanta lo Sferisterio con Ouverture. «A cinque anni sentivo di poter essere tutto», dice sintetizzando il senso profondo del brano. La sua interpretazione, costruita con fine sensibilità e consapevolezza, crea un’atmosfera emozionante in arena; la sua voce traccia un percorso emotivo, illuminando la personale ricerca di senso e identità che attraversa la sua musica. Va a lei il premio La casa in riva al mare, riconoscimento speciale attribuito da una giuria composta dai detenuti del carcere del Barcaglione di Ancona.
Salgono poi sul palco i Frammenti con La pace, brano che racconta un cammino interiore e collettivo verso l’armonia e la pacifica convivenza. Le sonorità elettroniche e psichedeliche avvolgono l’arena, creano un’atmosfera sospesa, pensata per annullare le differenze e favorire la condivisione. Interrogato sul suo stile, il duo spiega: «La musica elettronica ti porta verso altri stadi di coscienza, è una musica che ti invita a stare insieme».
Tocca poi a La notte di Silvia Lovicario. Al centro del palco con la sua viola da gamba, porta un brano intimo che parla di angosce notturne, di sonni disturbati ma anche di come questi momenti possano essere superati accendendo una speranza grazie a un rimedio universale, l’amore.

A impreziosire ulteriormente la serata, il primo ospite: Valerio Lundini. Conosciuto per il suo stile ironico e surreale, gli è basta essere se stesso per conquistare il pubblico. La sua performance originale stupisce tutti: ha reinterpretato Oh Susanna suonandola con la tastiera di un vecchio telefono, trasformando lo ketch in un monologo ironico che coinvolge e diverte.

Moonari è il quarto vincitore a esibirsi con Funamboli, un brano delicato ma ironico allo stesso tempo, equilibrato, appunto. E se di equilibrio si parla, si deve necessariamente raccontare anche come lo si raggiunge nella propria produzione artistica: «Ho due approcci: con la band – spiega il giovane cantautore – faccio spesso jam session per vedere cosa ne esce fuori, ma quando si tratta di scrivere i testi preferisco farlo da solo».
Dopo essere stata premiata ieri per il miglior testo, Elena Mil torna oggi sul palco con La ballata dell’inferno, brano capace di condurre il pubblico in un’atmosfera intima. Crea un momento denso di emozione con una voce delicata e una composta presenza scenica. Un solo strumento ad accompagnarla: un ukulele. «Quello che ho presentato a Musicultura – spiega – è il primo brano che ho scritto. E mi ci rivedo ancora oggi», confida l’artista.
Segue ME JULY, che con Mundi ci conduce al Sud Italia, alle sue sonorità, ai suoi dialetti. Il brano riflette le origini dell’artista, che racconta: «Avvicinarmi alla musica popolare è stata un’esperienza nuova per me. Ho iniziato sperimentando con altri dialetti, prima ancora che col mio». E a proposito di esperienze: «Sono cresciuto ascoltando i grandi cantautori, essere qui è per me un’emozione enorme», dice. Ultima esibizione dei vincitori di Musicultura 2025 è quella di Ibisco. Premiato ieri con il riconoscimento delle Grotte di Frasassi, che si è aggiudicato grazie al brano Languore, dopo la performance sul palco svela le sue speranze: «Per me la scrittura nasce dalla sincerità; vorrei raggiungere il grande pubblico proprio grazie alla mia autenticità, con tutti i
miei difetti».

È Antonella Ruggiero la seconda ospite speciale della serata. Accompagnata da un quartetto d’archi, da un percussionista e dal marito Roberto Colombo al vocoder, conquista il pubblico con Una miniera, Vacanze romane, Amore lontanissimo e la storica e amatissima Ti sento. Al centro del palco, insieme ai conduttori, spiega: «Non canto mai brani a caso, o solo perché li ha scritti qualcuno in particolare; devo entrarci dentro, diventarne parte».

Poi, un altro mostro sacro del panorama musicale italiano, Eugenio Finardi, che regala allo Sferisterio La battaglia, I venti della luna ed Extra terrestre. Quando gli chiedono come sceglie suoni e parole, risponde: «Le parole che metto in musica nascono da ciò che mi circonda, mentre nei suoni cerco la verità».

E la verità è che è ormai tempo di scoprire chi è il vincitore assoluto di Musicultura 2025. Tutti e otto gli artisti in concorso tornano sul palco per ascoltare il tanto atteso annuncio. A trionfare è Elena Mil, che con La ballata dell’inferno conquista il riconoscimento più ambito: il Premio Banca Macerata, del valore di 20.000 euro.

Roberto Colombo, la storia dell’elettronica italiana

È uno dei padri della musica elettronica italiana, ma anche un costruttore silenzioso di mondi sonori. Tra rigore classico e sperimentazione radicale ha saputo fondere industria e arte. Pianista di formazione, arrangiatore e avanguardista dell’elettronica, Roberto Colombo non ha mai cercato i riflettori, ma ha lasciato orme indelebili ovunque, dai jingle pubblicitari alle colonne sonore della televisione. Cresciuto nella Milano degli anni ’60, quando la musica si ascoltava chiacchierando nei locali, è stato in grado di cogliere lo spirito dell’evoluzione tecnologica, con sguardo sempre rivolto al futuro. La sua forza è stata la capacità di elevare strumenti di nicchia – come il Moog e il Polymoog – allo stesso livello di un’orchestra da Scala. Il suo approccio all’arte rivela un uomo sempre curioso e mai dogmatico: dove molti vedono un vincolo, lui trova una possibilità creativa. A Musicultura 2025, ospite de La Controra insieme a un altro pilastro del panorama musicale italiano, la moglie Antonella Ruggiero, ripercorre un cammino fatto di studio, intuizione e libertà creativa. E lo fa anche in questa intervista.

Lei è cresciuto a Milano, iniziando la sua carriera come pianista professionista nel 1969, per poi specializzarsi nelle tastiere elettroniche, strumento che all’epoca era ancora di uso poco comune. Ci può raccontare come si è sviluppata la sua passione per la musica e in che modo l’ambiente culturale milanese, unito alle sue esperienze personali, ha influenzato il percorso verso la sperimentazione elettronica?

La passione per la musica è arrivata quando avevo più o meno sei anni. Ho cominciato studiando pianoforte, e poi, verso la fine delle scuole medie, ho formato il primo gruppo. In quegli anni c’era una possibilità di suonare di gran lunga superiore a quella attuale: c’erano tantissimi locali dove potersi esibire, perché non essendoci ancora le discoteche sostanzialmente c’erano solo perfomance dal vivo. Quindi la possibilità di suonare era consistente. Poi negli anni ’70 ho iniziato a lavorare. Essere a Milano è stata una notevole facilitazione nell’approccio alla professione. Ho cominciato negli studi di registrazione, dove mi sono accorto che non c’era ancora un utilizzo vero delle tastiere elettroniche, dei sintetizzatori. Ne ho acquistato uno, poi due, poi tre. E mi sono ritrovato a essere uno dei pochi che aveva strumentazione di qualità, la conosceva e la sapeva usare, per cui venivo chiamato in studio per fare sovrapposizioni, soprattutto su basi già eseguite, con i miei strumenti che erano principalmente Moog, Minimoog e Polymoog.

Nel corso della sua carriera ha firmato musiche e jingle per grandi brand come Coca Cola, Alfa Romeo e Lavazza, ma anche colonne sonore per serie televisive come Beautiful e sigle per notiziari come Studio Aperto. In che modo cambia il suo approccio creativo quando lavora su commissione per media commerciali rispetto alla libertà espressiva di un progetto discografico personale?

Questa è una domanda intelligente. Il lavoro su commissione, secondo me, è quello che mi ha dato maggior soddisfazione. Perché, dopo un approccio iniziale un po’ titubante, nel senso che non mi intendevo molto con le persone che mi commissionavano una musica piuttosto che un’altra, ho capito in breve tempo che riuscire a interpretare i desideri e la volontà di chi gestiva una campagna pubblicitaria, con marchi anche importanti, e riuscire a individuare le loro necessità e portare a compimento un lavoro era, professionalmente, l’aspetto più interessante di tutta la mia attività. Lo stesso vale per le sigle televisive: anche lì c’erano sempre delle richieste abbastanza specifiche.

Negli anni ’80 ha avuto modo di lavorare anche nello storico Stone Castle Studios di Carimate, da cui sono passati molti grandi della musica italiana, come Edoardo Bennato che lì le affidò l’arrangiamento di Specchio delle mie brame. Come è stato lavorare in quell’ambiente così singolare, in un castello frequentato da musicisti di ogni genere?

Era uno degli studi più attrezzati e all’avanguardia in Italia, se non il più all’avanguardia. E anche i tre tecnici del suono, che erano residenti, erano veramente competenti: era un piacere lavorare con loro. C’è da dire che, una volta varcata la soglia di uno studio, trovarti in un castello piuttosto che in un altro ambito non è che cambi nella sostanza. È il prima e il dopo. Durante, sei dentro a uno studio per cui fai il tuo lavoro, indipendentemente dal luogo in cui ti trovi.

Il suo lavoro è da sempre legato alla voce di Antonella Ruggiero, sua compagna anche nella vita, di cui ha prodotto l’intera discografia solista. Insieme avete realizzato il progetto sperimentale Altrevie, in cui ha trasformato la voce originale di sua moglie nel brano Libera in una “lingua altra ed estranea”, attraverso tecniche di reverse. Qual è stata la sfida più affascinante nel fondere la naturale leggerezza della sua voce con tecnologie così radicali?

È stato, diciamo, molto semplice l’approccio. La prima volta l’ho fatto quasi per gioco, prendendo la voce di Antonella e trattandola a reverso, ovvero come si faceva con i nastri negli anni ’60-’70. Ho preso delle porzioni di voce e fatto delle nuove musiche su di esse; Antonella l’ha trovato particolarmente interessante, le è piaciuto moltissimo. E allora ci siamo detti: «Facciamone un disco. Inutile? Facciamolo comunque».


 

Eugenio Finardi, l’autenticità nell’essere sempre diverso

Tra le mura di una casa dove Verdi è religione, la musica rock entra a gamba tesa con un album di Ricky Shane. Artisticamente istruito dalla madre, cantante d’opera e docente di canto, Eugenio Finardi, protagonista della finalissima di Musicultura 2025, racconta in questa intervista la sua fiducia nel rinnovamento come genuinità della propria musica, parla del naturale cambiamento della voce dovuto allo scorrere del tempo con una consapevolezza illuminante, fa riferimento all’unica linea di demarcazione valida: la verità.

La sua interazione con la musica inizia prima ancora della sua interazione col mondo: lei è nato in uno “strumento musicale”, come dice spesso parlando di sua madre. Ma oltre alle inclinazioni uditive, che ruolo ha giocato la figura materna nella sua formazione musicale?

Mia madre era una grande docente, una grande insegnante di canto, quindi vedendola interagire fin da piccolissimo con i suoi allievi ho imparato, anche tecnicamente, tantissimo: sulla voce, sul come modularla, come usarla, come aggirare gli ostacoli. È una cosa che mi è servita poi tantissimo. La fase di studio della voce non finisce mai, perché poi quella voce continua a cambiare, ma quotidianamente si deve riuscire a seguire i propri cambiamenti, adattare le proprie interpretazioni.

Ecco, i cambiamenti, appunto. Come quelli di direzione o quelli dovuti alla sperimentazione di nuovi generi e sound, che spesso vengono etichettati come “tradimenti” da parte di un pubblico ampio, come se il cambio di rotta e il reinventare se stessi fossero quasi atti di ipocrisia. Dove sta, secondo lei, la linea sottile tra il rinnovamento e la forzatura?

Quello è un problema. Secondo me, la linea di demarcazione è la verità. Se uno canta, suona e interpreta la propria visione artistica ha sempre la ragione. Poi, è vero, spesso il pubblico non ama i cambiamenti, vorrebbe che uno rimanesse sempre uguale. Ci sono alcuni personaggi che ci sono riusciti, in maniera addirittura inquietante, a volte:  sono identici a come erano quaranta, cinquant’anni fa. Io penso invece che si debba assecondare la propria crescita, cantare gli anni che si hanno, e quindi anche nella scrittura continuare a crescere. Credo che il cambiamento sia seguire la propria curiosità musicale; il che non semplicemente un atto volontario, ma necessario.

Forse la forzatura è voler rimanere sempre uguali.

Certo, lo dicevo prima: ci sono colleghi che non sono mai cambiati. Da una parte ho una grande ammirazione, dall’altra mi chiedo «Non si stufano?»

Lo dicevamo prima rima: ha avuto un’educazione musicale classica. Ha dichiarato  che, fino all’adolescenza, è rimasto digiuno del resto del panorama musicale. Si ricorda qual è stato il suo primissimo album rock?

Il primo disco rock che ho comprato è Uno dei mods di Ricky Shane, che tu non puoi conoscere ma che la mia generazione si ricorda assolutamente.

Ha sempre scelto di lavorare alla sua musica con “orario d’ufficio”, alla maniera dei Beatles. Quando invece si parla della composizione spesso si ha la costante del lampo di genio che la fa da padrona. Come si è trovato con questa nuovo approccio?

Questa è un’idea comune, però il lampo di genio viene facilmente alla tua età, molto meno alla mia. Alla mia ti vengono dei lampi di consapevolezza, si hanno idee in maniera diversa, di diverso tipo. Il punto è non fermarsi, continuare a cercare, ad accettare le nuove intuizioni.

Musicultura da sempre si propone come spazio dedicato alla canzone d’autore nelle sue forme più originali e spesso meno commerciali. Quanto è importante, oggi, l’esistenza di festival come questo, che danno visibilità anche a proposte musicali più “di nicchia” rispetto al mercato mainstream?

Spazi come questo sono importanti per riuscire a tirare fuori dalla nicchia quella musica.  Adesso è tutto troppo industriale, ogni bit calcolatissimo, in un certo senso prevedibilissimo, no? È prevedibilissima persino la parabola della celebrità che sparisce. Io credo più nell’ispirazione, nella creazione, nella creatività. E quindi ben vengano festival come questo, che mettono in risalto cose di questo genere e danno spazio a tanti artisti.


 

Una pezza di Musicultura

Valerio Lundini, ovvero: l’arte di non prendersi troppo sul serio. Come? Con un umorismo “storto”, le canzoni surreali de I Vazzanikki, il suo gruppo musicale, e la capacità, ormai rara, di far ridere senza spiegare tanto. È così, esattamente come fa lui, che si racconta come si può ancora fare comicità non seguendo alcuna regola; senza risate registrate, ché quelle tolgono un elemento di realismo che può essere esilarante. Ma facendo appello persino al silenzio. E a tutte le altre situazioni della quotidianità, della vita vera.

Questa l’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià prima di calcare il palco dello Sferisterio.

“Una pezza di Lundini” ha avuto un impatto particolare tra i giovani spettatori, anche per il modo in cui decostruisce la forma tradizionale del talk show. Crede che la comicità oggi debba anche essere una forma di critica ai formati e ai codici della comunicazione mainstream?

Per me non ci sono regole. Chi fa comicità, o anche chi non la fa, può trovare interessante e divertente criticare rendendo parodici determinati formati. Nella comunicazione di oggi ci sono sicuramente già molti elementi che si prestano a delle caricature, e infatti spesso lo si fa. Ma si possono esplorare anche altre direzioni: si può parodizzare anche ciò che si conosce poco, proprio per rendere la comicità più interessante.

Nei suoi sketch si avverte spesso un senso di straniamento, come se lo spettatore fosse portato a riflettere su ciò che non viene detto, su ciò che sta tra le righe. In che modo lavora sul silenzio, sull’imbarazzo o sulla pausa come strumenti narrativi?

Ci lavoro nel senso che sono elementi già presenti nella realtà. Portare quella realtà in ciò che uno fa rende tutto più divertente. Per esempio, soffro le risate registrate nei programmi o nei film, perché tolgono quell’elemento di realismo che per me è esilarante: come i silenzi imbarazzanti a cena quando non si sa cosa dire, o l’intrecciarsi mentre si parla, che nei film viene del tutto omesso. Tutte queste situazioni esistono nella vita vera, come adesso che sto dicendo mille cose e me ne mangio altrettante. Quindi non è che uso il silenzio come strategia, ma siccome fa parte della normalità lo inserisco naturalmente nei miei sketch.

Nel suo lavoro mescola comicità, surrealismo, riferimenti colti e un’estetica anni Ottanta che sfocia quasi nella parodia. Quanto c’è di pensato e quanto nasce invece da un istinto personale?

Diciamo che la parte pensata riguarda la scrittura dello sketch e la sua preparazione, poi in mezzo ci metto sempre qualcosa di improvvisato. Anche stasera il mio numero è in parte scritto, ma giocherò con il silenzio di cui parlavo prima, per evitare di dire qualche cazzata. Quanto all’estetica degli anni ‘80 non saprei; sono nato in quel periodo, quindi forse mi è intrinseca senza che me ne accorga. Uno dei film comici che più mi ha colpito da piccolo è stato Una Pallottola Spuntata, ma ormai quel tipo di umorismo viene accantonato, e quando provano a replicarlo si scivola facilmente nel demenziale.

A proposito di scrittura, Musicultura è uno spazio che dà libero sfogo alla cultura e alla canzone con un’attenzione speciale alla parola. La sua comicità e i brani de I Vazzanikki condividono un’ironia tagliente, a volte surreale. In un contesto così, come vive l’incontro tra umorismo e musica d’autore?

A differenza di ciò che scrivo per i programmi o per il teatro, quando scrivo con la mia band, I Vazzanikki, lo faccio sempre per divertimento. L’ironia e la comicità sono centrali, come in tante altre band comiche. Quindi, se scrivo qualcosa che fa sorridere ma che non è rivoluzionaria mi piace comunque. Mentre nei miei progetti più personali tendo a essere più contorto, nella musica trovo un punto di sfogo. Per quanto riguarda il rapporto tra musica d’autore e umorismo, secondo me non esiste una regola: ci possono essere cantautori “solenni” che adottano però ironia e umorismo. In un buon prodotto artistico può esserci un mescolarsi di serietà e comicità. I film drammatici se non contemplano neanche un momento di leggerezza sembrano finti; allo stesso modo, se un film comico manca del tutto di un momento commovente rischia di diventare solo faceto.

I Vazzanikki, ancora. Con le vostre canzoni create una fusione tra musica e paradosso, con brani che hanno un testo totalmente ironico che fa ballare all’impazzata il pubblico; quanto crede sia importante nel contesto musicale di oggi trovare spazio per questa vena di ironia?

Chi vuole mettercela, ce la metta. Non voglio fare il vecchio che critica la musica di oggi, però quello che noto è che c’è sempre meno ispirazione in chi scrive. Si sente che certi brani sono scritti da quaranta autori che mettono insieme frasi pensate per funzionare in questo preciso momento storico. Quindi, più che l’ironia, quello che manca è un po’ quel sentore di sincerità.


 

Elena Mil vince Musicultura 2025

Si è appena conclusa la Finalissima  del concorso sul palco dello Sferisterio di Macerata, ma l’eco delle voci protagoniste della 36ª edizione di Musicultura continua – e continuerà – a risuonare. Due serate di musica, parole e intensità hanno animato uno dei luoghi più suggestivi d’Italia, trasformandolo ancora una volta nel cuore pulsante della canzone d’autore. Quella appena conclusa è stata un’edizione che ha saputo emozionare e sorprendere, portando in scena nuovi linguaggi, storie personali e collettive, voci autentiche capaci di lasciare il segno.

E mentre il sipario cala su una delle rassegne più significative del panorama musicale italiano, è tempo di celebrare i talenti in gara e di scoprire tutti i premi assegnati durante le due serate conclusive.

Con La Ballata dell’inferno è Elena Mil la vincitrice assoluta della XXXVI edizione di Musicultura. A lei va la Targa Banca Macerata, del valore di 20.000 euro. «Ho iniziato a fare musica appena un anno fa, tutto questo non mi sembra vero. Ringrazio di cuore il pubblico qui presente: i loro sguardi mi hanno dato una forza incredibile su questo palco», ha detto visibilmente commossa, ricevendo l’applauso caloroso dell’Arena Sferisterio.

È sempre lei a ricevere il Premio per il Miglior Testo, assegnato dalla giuria universitaria composta dagli studenti degli atenei di Macerata e Camerino. A convincere la giuria è stata una «scrittura essenziale ma intensa», capace di raccontare «una realtà interiore complessa con uno sguardo lucido e originale». «È una voce che parla di fragilità senza vittimismo, che riflette sul dolore senza retorica, e che riesce, con delicatezza, a lasciare il segno» – si legge nella motivazione. Il riconoscimento, accompagnato da un premio in denaro di 2.000 euro, celebra non solo la qualità della scrittura, ma anche la capacità di toccare corde profonde con parole essenziali e vere.

Novità assoluta di quest’anno è il Premio Grotte di Frasassi, che rappresenta il connubio musica, territorio e sperimentazione artistica. Il premio, del valore di 2.000 euro, prevede di trasformare le celebri grotte marchigiane in una residenza artistica per realizzare una performance, in un dialogo creativo tra natura e suono. A vincerlo è stato Ibisco con Languore, un brano capace di evocare atmosfere sotterranee e suggestioni profonde, in perfetta sintonia con lo spirito del premio.

Il Premio PMI – Miglior Progetto Discografico, del valore di 2.000 euro e conferito da PMI (Produttori Musicali Indipendenti), è stato assegnato a Moonari per il brano Funamboli. Un riconoscimento che valorizza l’autonomia creativa, la coerenza artistica e la visione produttiva di un progetto indipendente.

È alla sua seconda edizione, invece, il Premio “La casa in riva al mare”, assegnato dai detenuti della Casa di Reclusione di Barcaglione, protagonisti di un progetto che intreccia musica, ascolto e riflessione all’interno del carcere. Un riconoscimento che nasce dal dialogo tra mondi apparentemente distanti e che quest’anno ha toccato corde profonde con Alessandra Nazzaro, premiata per Ouverture, brano capace di farsi ponte tra dentro e fuori, tra chi scrive e chi ascolta.

Agli Abat-jour, con il brano Oblio, vanno due riconoscimenti. Il Premio Nuovo IMAIE, del valore di 10.000 euro, destinato al finanziamento di un tour. Un riconoscimento che guarda al futuro e punta a sostenere concretamente il percorso dal vivo degli artisti, premiando il potenziale espressivo e performativo di una proposta che ha saputo distinguersi per intensità, identità sonora e visione artistica. E ancora, la stampa decide di conferirgli il Premio della Critica, dal valore di 2.000 euro, dedicato a Piero Cesanelli, ideatore e co-fondatore del Festival.

Spazio, poi, a un riconoscimento speciale, pensato per celebrare un percorso artistico eccezionale: le Università di Macerata e Camerino hanno voluto rendere omaggio a Riccardo Cocciante, conferendogli un’onorificenza speciale per il suo straordinario contributo alla musica. A consegnare la targa sono saliti sul palco dello Sferisterio i rettori John McCourt e Graziano Leoni, in rappresentanza dei due atenei marchigiani, che da anni collaborano con Musicultura nel valorizzare la cultura musicale e il talento.

La motivazione del premio traccia un ritratto vivido e profondo dell’artista:
«Per la straordinaria capacità di coniugare intensità emotiva, originalità compositiva e rigore interpretativo, Riccardo Cocciante ha segnato con la sua voce unica la storia della musica italiana e internazionale. La sua opera, ricca di passione e autenticità, ha attraversato generazioni, unendo canzone d’autore, teatro musicale e contaminazioni culturali. Riconosciamo in lui un Maestro capace di dare voce all’anima, testimone di un’arte che emoziona, trascina, ispira e vince il tempo».

Con questo riconoscimento, Musicultura ha voluto celebrare non solo una carriera straordinaria, ma anche il valore umano e culturale di un artista che ha saputo imprimere una traccia profonda nell’immaginario collettivo, attraverso parole, melodie e interpretazioni che restano scolpite nel tempo.


 

Antonella Ruggiero: «L’arte richiede pazienza, ascolto e introspezione»

È impossibile confinarla in un solo genere o in un’unica epoca. Passando dall’eleganza sofisticata dei Matia Bazar alle sperimentazioni audaci della sua carriera da solista, Antonella Ruggiero ha attraversato oltre quarant’anni di musica italiana mantenendo intatta la sua identità artistica: intensa, visionaria e in continua evoluzione. La sua voce, unica nel panorama nazionale, non è mai stata solo uno strumento tecnico, ma un vero e proprio specchio della sua interiorità. È diventata negli anni veicolo di ricerca continua: non solo musicale, ma anche spirituale, poetica ed esistenziale. Dall’elettronica al sacro, dal pop all’etnico, ha saputo intrecciare suoni, culture e linguaggi in una forma espressiva che sfugge alle classificazioni, conservando sempre una coerenza profonda, nutrita da silenzi e ascolti. Nel suo percorso, ogni progetto ha rappresentato una tappa di trasformazione, un’occasione per spingersi oltre i limiti imposti dall’abitudine o dal mercato. In occasione della sua partecipazione a Musicultura, prima della sua esibizione sul palco dello Sferisterio per la seconda serata finale del Festival, ha condiviso con la nostra redazione il racconto del cammino che l’ha portata fin qui: un itinerario fatto di libertà, profondità e fedeltà a se stessa. È tra le righe, nei gesti misurati e nelle parole scelte con cura, che affiora l’idea della musica non come traguardo, ma come un viaggio in continua evoluzione, che si rinnova ogni volta che si ha il coraggio di ascoltarsi davvero e di offrirsi al mondo senza maschere.

A Musicultura, tanti giovani cantautori cercano la loro voce. Cosa direbbe oggi alla “Matia” del suo primo 45 giri, se potesse parlarle? 

Probabilmente le direi di esprimersi con libertà, facendo ciò che sa fare nel modo più autentico possibile, senza lasciarsi bloccare dai troppi pensieri. È normale, all’inizio, sentirsi sopraffatti dalla tensione. Ma proprio per questo le suggerirei di ascoltarsi, di seguire ciò che sente davvero dentro: è lì che si trova sempre la direzione giusta.

Ha collaborato con musicisti, artisti visivi, cori. Esiste un’arte o una disciplina con cui sognerebbe ancora di intrecciare la sua voce?

No, direi di no. Perché, pur senza voler esagerare, credo di averle esplorate quasi tutte, anzi, forse proprio tutte. L’ultimo progetto, Altrevie, è stato un vero e proprio azzardo, spinto fino in fondo. Ed è proprio questo ad averlo reso così divertente, surreale, suggestivo. Quindi no, al momento non credo ci sia un’arte con cui sogno ancora di intrecciare la mia voce, ma le idee, si sa, arrivano all’improvviso e ci si ritrova a inseguirle.

Ecco, ha appena citato il suo ultimo progetto discografico, Altrevie. In quest’album ha sperimentato molto anche con la manipolazione digitale della voce. Nel corso del tempo quanto è cambiato il suo modo di “usarla” come strumento?

La voce è sempre stata il mio strumento e con il tempo l’ho affinata. Così come cambiano il modo di vedere la vita, di pensare e di sentire, anche la voce si trasforma: segue i pensieri, le emozioni, le dinamiche interiori. Non a caso, la mia voce di un tempo è profondamente diversa da quella di oggi. Ma non è solo una questione anagrafica: è l’intenzione che cambia. Sono le esperienze vissute, stratificate nel tempo, a dare profondità e spessore alla voce, insieme, naturalmente, all’interpretazione di ciò che si canta.

La spiritualità è una componente che ritorna spesso nella sua musica. Come si traduce oggi, nel suo quotidiano, questo legame tra suono e dimensione spirituale?

In realtà non ci penso. Vivo senza soffermarmi su certi temi. Per quanto mi riguarda, la spiritualità è qualcosa di profondamente legato alla natura. Quando mi trovo immersa in essa, il pensiero va spontaneamente oltre. Non c’è nulla di costruito, nulla di artefatto che mi conduca lì: è un processo del tutto naturale. È semplicemente nella mia indole, così come lo è per milioni di altre persone, fare scelte e maturare pensieri in una certa direzione.

Quale ruolo ritiene possa avere un festival come Musicultura nel favorire non solo lo sviluppo della carriera, ma anche la crescita artistica, introspettiva e musicale dei suoi vincitori?

Credo che, prima ancora di pensare alla carriera, sia fondamentale costruirla con il tempo e attraverso le esperienze, altrimenti rischia di restare qualcosa di indefinito, che non prende mai forma concreta. Essere qui, per i vincitori, è importante proprio perché non si trattano brani superficiali o senza radici; qui la ricerca è, prima di tutto, umana, ed è da lì che nasce quella artistica. C’è l’individuo, ci sono il ragazzo o la ragazza con un mondo interiore da esprimere, qualcosa da dire e da dare, prima di tutto a se stessi e poi agli altri. L’arte richiede pazienza, ascolto e tanta introspezione. E più si riesce a stare lontani dalle dinamiche del successo facile, più si ha la possibilità di coltivare qualcosa di autentico e duraturo.


 

Musicultura 2025: atto conclusivo, tra emozioni, grandi nomi e tanta musica

La XXXVI edizione di Musicultura è giunta alla sua fase finale e ieri sera ha preso il via la prima delle due serate conclusive all’interno dello Sferisterio di Macerata. La conduzione dell’evento è stata affidata a una coppia inedita ma ben equilibrata: Carolina Di Domenico, già presente nelle due precedenti edizioni, e Fabrizio Biggio, al suo debutto come conduttore sul palco del Festival. Insieme, hanno guidato con ironia e leggerezza una serata intensa, piena di musica, emozioni e storie da raccontare.

Ad aprire le performance è stato Ibisco con Languore, un brano dalle tinte scure e intimiste. Il giovane cantautore – che si è poi aggiudicato il Premio Grotte di Frasassi e quindi l’opportunità di esibirsi in uno dei luoghi più suggestivi d’Italia – ha raccontato anche dell’origine del suo nome: «I fiori sono affascinanti, colorati. Forse bilanciano la mia componente dark. E poi il mio cognome è Giglio». La sua voce, profonda e affilata, ha inaugurato con intensità l’atmosfera dell’arena.

Poi è stata la volta di Elena Mil, che ha portato in scena La ballata dell’inferno, un brano teatrale, drammatico, che rispecchia il suo background artistico. Milanese, con una formazione teatrale solida, ha raccontato: «Esibirmi allo Sferisterio è un onore. Le esperienze in scena mi hanno aiutata anche nella scrittura». Ecco, scrittura: è proprio Elena l’artista nelle cui mani è finita la Targa per il Miglior Testo, assegnata dagli studenti delle Università di Macerata e Camerino.

Moonari, cantautore romano, è stato il quarto a esibirsi con Funamboli, un brano sospeso tra delicatezza e malinconia. Dopo la performance ha raccontato di essere stato stupito dalla natura inclusiva di Musicultura: «Mi hanno colpito la poca competitività e l’attenzione che c’è alla musica vera e ai testi. È bello sentirsi ascoltati davvero», ha dichiarato. E sull’emozione di trovarsi in un luogo così carico di storia ha aggiunto: «Lo Sferisterio è incredibile. Sapere che qui si sono esibiti artisti straordinari, e ora tocca a noi, è un onore immenso». È andato a lui il Premio PMI – Produttori Musicali Indipendenti per il miglior progetto discografico.

A seguire Silvia Lovicario con il brano La notte, scritto, come lei stessa ha raccontato, in un momento di angoscia. Una canzone concepita quasi come un rito catartico, per esorcizzare emozioni forti e difficili da gestire. Silvia ha portato con sé una voce intensa e una presenza scenica fortemente emozionale: «Mi lascio guidare dalla musica. Quando salgo sul palco cerco di trasformare qualcosa, di trasformare me stessa», ha detto.

Poi il primo ospite, Tricarico, che con Sono Francesco e Mi manchi ha ripercorso due momenti diversi della sua carriera, regalando al pubblico non solo la sua voce ma anche una riflessione profonda sul ruolo della paura nella vita di ciascuno: «La paura ci salva la vita, a volte ce la complica, altre volte ce la distrugge», ha affermato, per poi aggiungere: «La musica mi ha salvato la vita. È stato il mio modo per sopravvivere, per dare un senso a tutto».

La serata è proseguita con Frammenti, duo trevigiano che ha presentato il brano La pace, una canzone schietta, sincera, in cui voce e arrangiamenti si fondono per costruire un messaggio potente: «Siamo convinti che nei concerti si annullino tutti i pregiudizi e le diversità. Con il nostro brano vogliamo trasformare tutto ciò in ricchezza e, quindi, in pace», hanno detto i due artisti.

È poi arrivato il turno della napoletana Alessandra Nazzaro, che ha presentato Ouverture, brano raffinato, costruito con eleganza e consapevolezza. La sua voce profonda e l’intensità interpretativa hanno illuminato la strada di ricerca personale intrapresa dall’artista, che ha dichiarato: «Nel mio percorso ho cercato sempre di conformarmi a un modello predefinito, fino a quando non ho trovato davvero me stessa, con nome e cognome».

Con Me July e la sua Mundi la serata ha toccato registri sonori diversi, contaminati, ricchi di sfumature. L’artista ha svelato di aver scritto la canzone pensando ai propri cari, alle proprie origini, quindi alla propria identità. «Il tema centrale – ha spiegato – è l’amore. L’amore in molteplici forme: per la mia terra, la mia famiglia, la mia musica».

A chiudere le esibizioni degli otto vincitori sono stati gli Abat-Jour, band giovanissima formata da ragazzi tra i 18 e i 20 anni. Con Oblio, hanno portato sul palco energia e un sound diretto, senza filtri. Il progetto è nato nella cameretta del frontman, che ha sottolineato: «Senza gli altri non ci sarebbe nulla. La nostra forza è il gruppo. La musica per noi è fondamentale e il nostro obiettivo è farne tanta dal vivo».

Successivamente, a incantare il pubblico è stato Riccardo Cocciante, accompagnato dalla sua classe senza tempo e da brani che ne sono testimonianza: Se stiamo insieme, Poesia, Margherita, cantata a gran voce da tutto il pubblico e conclusasi con una standing ovation. Ai giovani ha lasciato un consiglio semplice ma potente: «Osare, osare, osare». E a coronare la sua carriera sono stati proprio due giovani studenti degli atenei di Camerino e Macerata e i Rettori delle due università, rispettivamente Graziano Leoni e John Francis McCourt, che gli hanno consegnato un’onorificenza per gli alti meriti artistici.

A conclusione della serata, il ritorno sul palco del Festival, dopo dieci anni, di Vinicio Capossela, che ha omaggiato il pubblico con Barmadù, Il povero Cristo, Staffette in bicicletta, Il tempo dei regali. Il cantautore si è poi abbandonato a una riflessione sui conflitti bellici di cui quotidianamente apprendiamo i tragici risvolti: «Le sirene oggi non sono più quelle della mitologia greca: sono quelle delle emergenze umanitarie, delle ambulanze, dei bombardamenti a cui siamo costretti ad assistere. I compagni di Ulisse si sono tappati le orecchie per non sentirle, non facciamo lo stesso solo per andare avanti».


 

Il suono dell’intuizione: intervista a Franco Godi

Dai jingle ai dischi d’oro, Franco Godi ha scritto la colonna sonora di chi ha avuto il coraggio di osare per primo. “Mr. Jingle” per caso, talent scout per vocazione, è stato il primo a credere nel raitaliano, quando ancora nessuno scommetteva su di esso. Ha portato l’ironia nell’animazione accanto a Bozzetto e la sensibilità nell’autorialità insieme a Olmi. Oggi continua a scommettere sui giovani, ma senza fare sconti: «Basta sp cuse, è il momento di prendersi la scena». Il suo è un intuito che brucia la tecnica, un fiuto che anticipa le mode. Godi non si è limitato a raccontare la musica: l’ha intercettata, trasformata, rilanciata. Sempre con mezzo passo d’anticipo.

Ha debuttato incidendo negli studi di Renato Carosone e nel 1962 ha firmato il jingle Bertolli, diventando Mr Jingle. Quanto le ha insegnato quella sfida di sintetizzare emozione e ritmo in pochi secondi?

Sono nato con il desiderio di sintetizzare la musica che, certo, si sviluppa, ma alla base deve esserci un’idea chiara, racchiusa in poche note. È da lì che parte tutto. Lo facevano anche Bach, Beethoven, Brahms: scrivevano melodie semplici, quasi “orecchiabili”, che poi si trasformavano in grandi sinfonie. Non voglio fare paragoni altisonanti ma, ecco, questa è stata la chiave che mi ha permesso di andare avanti, di costruire la mia musica.

Lei ha iniziato come compositore e produttore per se stesso, poi è diventato scopritore di talenti e promotore di nuovi artisti, soprattutto nel rap italiano. Come si è avvicinato a questo ruolo da “talent scout”?

In realtà, più che cercarli, nei talenti mi ci sono sempre un po’ imbattuto. Quando incontro qualcuno che fa fatica a emergere, ma ha qualcosa da dire, tendo subito a sposare il suo progetto. È un qualcosa che sento come spontaneo.

E come è nato tutto?

Tutto è iniziato con la nascita di Best Sound. Per molti anni, fino al 1990, l’etichetta è stata lo spazio per la mia musica: sigle televisive, cartoni animati, produzioni per la TV. Poi, nel 1990 ho conosciuto gli Articolo 3. Da lì si è aperto un nuovo percorso, con Gemelli Diversi, Neffa, Fedez, Tricarico, Zilla, e ho sempre continuato a lavorare con artisti che sentivo vicini per intuizione e visione.

In fondo anche Musicultura è una fucina di giovani talenti, un po’ come lo è stata Best Sound per il rap italiano. Cosa la affascina oggi di questi spazi che danno voce a nuove scritture e nuovi suoni?

Penso che sia una fortuna che esistano. I giovani artisti, sempre più spesso, si sentono vincolati artisticamente dalle case discografiche, che li spingono in una direzione piuttosto che in un’altra.  Spazi come Musicultura, invece, danno loro la possibilità di esprimersi liberamente e senza vincoli. Trovo poi molto bello il fatto che ci siano otto vincitori, perché nella musica sono tendenzialmente contrario alle gare. Sanremo, infatti, insegna: l’ultimo Vasco Rossi poi è diventato quello che è diventato.

L’hanno definita “artigiano del suono” e ha citato tra i tuoi maestri Quincy Jones e Trovajoli. Quanto conta, per lei, l’intuizione rispetto alla tecnica per far nascere una musica che emoziona?

Conta moltissimo. Perché altrimenti basterebbe studiare tanto, essere bravi musicisti e tutti ce la farebbero. Invece no, è come l’amore: o scatta, o non scatta. O c’è, o non c’è. Tra i miei modelli, ci sono stati Quincy Jones, Travajoli, ma soprattutto Burt Bacharach: è stato lui a riempirmi il cuore di belle note. E da quelle emozioni sono nate alcune delle cose migliori che ho scritto.


 

Nutrire il futuro, con parole che durano

In un presente iperconnesso, dove tutto scorre veloce e spesso si consuma prima ancora di essere compreso, c’è chi sceglie di rallentare per raccontare. Giorgia Pagliuca, divulgatrice, attivista e ricercatrice, si muove tra social, scuole, piazze e libri portando avanti una narrazione della sostenibilità che è tanto scientifica quanto personale, tanto concreta quanto emotiva. Arriva a Musicultura, nel cuore de La Controra, per parlare di cibo, giustizia ambientale e linguaggi accessibili. Ma soprattutto per mostrare che il cambiamento si nutre di presenza, ascolto e storie ben raccontate. Con ironia, consapevolezza e una voce capace di attraversare più pubblici, Giorgia ci invita a rimettere al centro il valore delle parole, delle relazioni e del gesto quotidiano. Anche quando non richiesto.

Con il progetto MUSICULTURAmbiente, La Controra le dedica uno spazio di riflessione e dialogo, in collaborazione con Cosmari, in un evento condotto da Marco Ciarulli, Presidente della Legambiente Marche. Poco prima, si è raccontata così alla Redazione Sciuscià.

Sui social ti definisci “dispensatrice di consigli non richiesti”, una formula ironica ma efficace. Che tipo di rapporto crea questa scelta con chi ti segue, e come riesci a mantenere credibilità trattando temi scientifici in modo così diretto?

Dipende un po’ da chi approda sul mio profilo, perché non tutti sono disposti ad accogliere i miei consigli non richiesti. Però devo dire che, nel tempo, ho incontrato tante persone realmente interessate al tema. Cerco sempre di usare anche una dose di autoironia, così da evitare una comunicazione unidirezionale e renderla più interattiva, sicuramente anche intersezionale. Porto avanti questo approccio sia nei miei progetti di ricerca offline, sia nella mia comunicazione online. Parlando di sostenibilità, poi, i punti di ingresso sono moltissimi e molto diversi: questo mi permette di spaziare e di parlare a soggettività differenti, con linguaggi e toni diversi.

Nel tuo libro Aggiustiamo il mondo racconti il cambiamento ecologico anche da un punto di vista emotivo e personale. Quando sei su un palco o in uno spazio pubblico, come cambia il tuo modo di comunicare rispetto alla narrazione che costruisci online?

Per me la narrazione è situata: cambia a seconda del contesto e del pubblico che ho di fronte. Non uso lo stesso linguaggio con chiunque. Mi è capitato di fare una lezione in una scuola primaria, e lì il linguaggio era completamente diverso. È stata una bella sfida, perché a volte, quando parlo in pubblico, dimentico che non tutti hanno la mia stessa formazione. Spiegare con parole semplici a una bambina di sei anni cos’è il cambiamento climatico è un’esperienza che auguro a chiunque: ti obbliga a ripensare il tuo modo di comunicare e ad adattarlo alla persona che hai davanti.

Hai partecipato come facilitatrice a progetti come Green_EuRoPe per formare giovani influencer green. Quanto è importante, per te, accompagnare la comunicazione digitale con una presenza attiva e costante nei territori?

È fondamentale. Se la divulgazione rimane confinata all’online, si perde il contatto umano. Le persone, se ti percepiscono solo attraverso uno schermo, difficilmente mantengono l’attenzione necessaria per affrontare certi argomenti. Ecco perché cerco sempre di realizzare eventi il più possibile slegati dal digitale — che resta comunque importante — ma in cui si possa creare un confronto diretto, faccia a faccia. In questi spazi si può approfondire, non rimanere in superficie. Quando si lavora solo online, spesso si è vincolati a una soglia d’attenzione sempre più bassa: i primi secondi sono tutto. E questo, insieme alla difficoltà nel contestualizzare le informazioni, apre la strada anche a dinamiche tossiche come l’odio digitale.

Il tuo intervento a La Controra ruota attorno all’idea di dare istruzioni per nutrire il futuro. Quanto a questo argomento, qual è la prima consapevolezza che speri di attivare in chi ti ascolta?

Spero che si cominci a dare il giusto valore al cibo, che è anche un modo per dare valore alle persone. Viviamo in un paese che, purtroppo, è ancora esportatore di caporalato e di forme di schiavismo non pienamente riconosciute dal punto di vista giuridico. Molte filiere alimentari si basano sullo sfruttamento di persone e minoranze. Per questo, il messaggio che vorrei far passare è semplice ma cruciale: non sprecare il cibo, ma soprattutto acquistarlo attraverso esercizi locali, controllati, con un rapporto diretto con i produttori. Riconoscere il valore del cibo significa riconoscere il valore di chi lo produce.

Musicultura crea un ponte tra cultura musicale e impegno civile. Tu che unisci divulgazione, scrittura e attivismo, in che modo credi che l’arte – in ogni sua forma – possa amplificare il messaggio della sostenibilità?

L’arte ha un ruolo fondamentale. È uno degli strumenti più potenti per avvicinare le persone. Non arriva a tutti allo stesso modo, ma è un linguaggio che ti permette di allargare il pubblico. Parlare di musica significa parlare anche di cultura, di cibo, di spreco. E questo è un potere che, spesso, la ricerca scientifica non ha, perché utilizza un linguaggio troppo distante dalla quotidianità. L’arte, invece, riesce a veicolare narrazioni fondamentali in modo diretto, impattante, emotivamente coinvolgente.