INTERVISTA. Lucilla Giagnoni a La Controra: “Ciò che caratterizza un artista è la capacità di essere versatile e poliedrico”

Attrice, sceneggiatrice ed autrice televisiva, Lucilla Giagnoni considera l’arte come panacea di tutti i mali. E proprio all’arte ha dedicato una vita intera: ha frequentato la Bottega di Gassman a Firenze; ha partecipato alla creazione di quasi tutti gli spettacoli prodotti dal Teatro Settimo; ha collaborato con illustri personalità del mondo del cinema, della musica, della letteratura; ha progettato spettacoli, è stata autrice di trasmissioni radiofoniche per la  Rai. Durante l’incontro nel cortile di Palazzo Conventati, per La Controra di Musiculturaci,  ci ha trasportato nella sua variopinta dimensione artistica. 

 Negli anni ottanta hai frequentato la Nuova Bottega Teatrale di Vittorio Gassman a Firenze e hai lavorato con personaggi importanti. Che insegnamenti hai appreso dalle loro esperienze?

La scuola di teatro è stata una vera e propria scuola di formazione per me. L’insegnante Paolo Giuranna è stato colui che mi ha aperto una grande prospettiva sulla ricerca della lingua italiana. La mia fortuna è stata quella di far parte di un gruppo teatrale molto giovane in cui tutti dovevano essere in grado di fare tutto: dall’imparare a scaricare un furgone allo scrivere testi e parlare con i giornalisti. Questo è stato veramente importante per la formazione della mia persona come artista.

‘’Paesaggi’’ è un progetto teatrale dedicato alla tua terra. Ci puoi raccontare di questo stretto legame con la natura?

Io non sono della terra in cui vivo. Sono fiorentina ma per questioni familiari mi sono trasferita a Novara, in Piemonte, una città in mezzo alle risaie. Ho vissuto per molti anni senza osservare intorno ma quando sono rimasta incinta mi sono resa conto che in quella terra stavo seminando qualcosa. Così cambiò la mia visuale di quel luogo e iniziai a trovarvi un terreno molto fertile su cui posare i piedi per scrivere. 

Hai intrapreso un percorso di scrittura e ricerca chiamato ‘’Meditazioni’’, costituito da riflessioni antropologiche, storiche e poetiche. Potresti parlarcene?

All’epoca mi sono resa conto che la mia migliore capacità non era tanto quella di raccontare una storia, cosa che comunque amo fare, ma il saper riflettere sulle domande di oggi e fare un’esegesi della contemporaneità, trovando un punto di connessione tra l’antichità e l’attualità. Le ‘’Meditazioni’’ hanno una loro potenza perché mi hanno avvicinata ad un pubblico eterogeneo; si può dire che io sia andata laddove il teatro di solito non va, ad esempio nei centri spirituali. Inoltre mi hanno aiutata a togliere il velo della rappresentazione, c’è una ragione per cui si sale su un palco e le  “Meditazioni’’ rappresentano proprio tutto ciò che è nascosto dietro il percorso di un attore.

Dalla lettura della “Divina Commedia” di Dante Alighieri è scaturita la scrittura di ‘’Vergine Madre’’ (2004).  Nel 2007 il monologo ha vinto il Premio Persefone come miglior spettacolo teatrale in televisione. Cosa ti ha spinta a reinterpretare un’opera di tale importanza?

In seguito ai fatti dell’11 settembre 2001, in quanto artista, mi sono quasi sentita in dovere di donare delle parole di conforto alle persone. Come potevo indicare la cosiddetta ‘’retta via’’ quando fuori crollava il mondo? C’era bisogno di donare delle parole di bellezza per uscire dall’inferno. Ho iniziato a fare questo viaggio all’interno della “Divina Commedia” e, proprio come nell’opera, ho intrapreso una catabasi e dopo un’ascesa. Tutto è culminato con un’appropriazione della mia persona. Quest’opera è rimasta attuale perché, quando quest’anno si è riproposta l’idea del tutelarsi da una situazione catastrofica, isolandoci per tre mesi nelle nostre abitazioni durante il lockdown, ho pensato di reinterpretare l’opera per intero. 

Dal 1997 insegni narrazione e comunicazione alla scuola Holden di Torino e dal gennaio 2016 sei direttrice artistica del Nuovo Teatro Faraggiana di Novara. Cosa accomuna queste due attività lavorative?

A mio parere tutte le attività svolte da un artista sono simili tra di loro in quanto ciò che caratterizza questa figura è la capacità di essere versatili e poliedrici.

INTERVISTA. “C’è ancora bisogno di musica”: Walter Veltroni a Musicultura 2020

Tra le atmosfere barocche del cortile di Palazzo Buonaccorsi, in occasione della XXXI edizione del Festival, Walter Veltroni racconta del suo ritorno alla saggistica presentando il suo ultimo scritto, Odiare L’odio, “un sentimento livido, una lunga bava di lumaca nella vita di ciascuno di noi. (…) Si infila nelle ferite del nostro tempo e progressivamente ci domina 

L’occasione è stata il pretesto per parlare non solo di letteratura, ma anche di cinema, poesia e tanta buona musica. In compagnia di Michela Pallonari, l’ex sindaco romano si è raccontato genuinamente prima al pubblico de La Controra,  dopo alla redazione di “Sciuscià” con questa :

Prima ancora che regista e appassionato di musica, lei è giornalista e politico. La musica è stata da sempre permeata dalla politica e le canzoni sono state utilizzate come strumento di protesta: ritiene che sia possibile individuare una sorta di interconnessione tra politica e musica, considerarle l’una alla stregua dell’altra?

Non credo. Qualsiasi forma di espressione culturale, che sia cinema, teatro o musica può avere una sua ricaduta politica, ma questa non è la forma. È solamente una delle forme attraverso le quali l’espressione artistica si manifesta. Naturalmente, più immediata e meno propagandistica questa forma si rivela e meglio è.  Il cinema di Chaplin era un cinema politico, a suo modo: Tempi moderni, Il Grande Dittatore. Abbiamo tante esperienze, ma persino la grande musica d’opera italiana è stata importante durante il risorgimento. Ma non le identificherei. La musica, il cinema e l’arte sono un mondo dentro il quale ci sono vari colori e intenzioni, che poi possono essere di svariati tipi, perfino civili o politico/sociali.

In uscita quest’anno Il concerto ritrovato, docufilm prodotto dalla società statunitense Sony Music e interamente diretto da lei, che riporta in vita quel mondo ormai sparito del pop d’autore di fine anni ‘70 dominato dal prog pioneristico della PFM e dal cantautorato interpretativo di Fabrizio De André. Nel panorama italiano odierno chi identificherebbe come degno erede spirituale degli artisti sopracitati?

La cosa bella di quel concerto era il fatto che era la prima volta che si incontravano due realtà assolutamente separate, quasi contrastanti, cioè la grande musica d’autore di Fabrizio De André e il rock progressivo della Premiata Forneria Marconi, e incontrandosi generavano una musica totalmente nuova. È sempre quello che avviene quando due persone, due idee, due parole si incontrano: ne generano sempre una terza. È una forma di attività procreatrice. Faccio un po’ fatica, oggi, a trovare qualcuno di simile, in grado di fare un’operazione del genere, perché quello è stato veramente di un unicum. Ci sono in America grandi esperienze di questo tipo, ma in Italia non ne trovo alcuna.

“VELTRONI” è il singolo d’esordio, nonché il brano più conosciuto, della GARAGE GANG, gruppo di post-trapper originari di Ostia. La canzone ha riscosso un successo spropositato svettando sin da subito in cima alla classifica dei brani più ascoltati su Spotify. Ha avuto modo di ascoltarla?

L’ho sentita e l’ho trovata molto divertente. Concettualmente diciamo che per arrivare a decodificare il messaggio c’è voluto tempo, però ammetto che la seconda parte della canzone mi identifica bene con la creatura del Partito Democratico che feci nascere tanti anni fa. Sono dunque contento che abbiano avuto successo.

Il 2020 si porta via il gigante dell’arte italiana e pluripremiato compositore Ennio Morricone, suo concittadino, nonché caro amico e seguace politico. Nell’ottobre del 2007 partecipò infatti alle primarie del Partito Democratico come candidato in una lista a suo sostegno. Crede che il legame pluriennale con il maestro abbia influito in una qualche maniera sulla sua passione per la musica e la cinematografia?

Morricone appartiene a quel tipo di concezione della cultura di cui parlavo prima a proposito di De André perché era capace di fare sia la musica dodecafonica che il riff di In ginocchio da te di Gianni Morandi. In mezzo, la meravigliosa musica da film che ha fatto: era questa la cosa che mi affascinava. Non posso dire che sia stato lui a farmi amare il cinema, ma certamente molte delle sue colonne sonore hanno un’incredibile forza evocativa. Penso a Novecento, ai film di Sergio Leone e a quelli di Giuseppe Tornatore, penso a Mission e penso a tutte quelle pellicole nelle quali l’elemento della musica era talmente forte, talmente intrecciato coerentemente con il film, da riuscire a funzionare anche se slegato da quest’ultimo. 

Il 2020 è stato anche l’anno del Covid-19. Di fronte all’emergenza sanitaria che ha messo in ginocchio l’intero settore artistico, Musicultura non si arrende e si riconferma come ogni anno. Quale consiglio di sentirebbe di regalare non solo ai vincitori, ma a tutti quegli artisti che non hanno mai smesso di crederci e di proporsi nonostante le inevitabili incertezze di questo periodo?

L’emergenza finirà. Non so se torneremo come prima, meglio di prima o peggio di prima, ma sicuramente ci sarà e c’è ancora bisogno di musica, cinema, e immagini. Anzi probabilmente durante questa tragica esperienza inaspettata che ci è capitata abbiamo avuto tempo e modo di consumare molti più prodotti culturali di quanto facessimo quando la vita era troppo veloce, troppo organizzata. Per cui, continuare. Continuare a scrivere, a fotografare, a cantare, suonare, a dipingere. Questo rende il mondo un po’ migliore quindi l’invito è non smettere e basta. 

INTERVISTA. “Musicultura è la prova che esiste ancora una canzone libera”: il ritorno di Roberto Vecchioni a Macerata

“Ma non è vero, ragazzo / che la ragione sta sempre col più forte: / io conosco poeti / che spostano i fiumi con il pensiero / e naviganti infiniti / che sanno parlare con il cielo”: ricordate quando nel 2017 Roberto Vecchioni brillava sul palco dello Sferisterio con la magica Sogna ragazzo sogna, lasciando il pubblico di Macerata incantato e, appunto, sognante? Sono passati pochi anni e il nostro Maestro è sempre una conferma quanto a nobiltà d’animo e grandezza artistica. Per la XXXI edizione di Musicultura ha presentato infatti il suo omaggio commovente al caro amico Piero Cesanelli, ideatore del Festival e suo direttore artistico prematuramente scomparso lo scorso anno, ed ha dato qualche prezioso consiglio ai vincitori del concorso. Poco prima del suo ritorno a sorpresa sul palco dell’Arena, abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo in camerino e di confrontarci con lui per questa intervista. 

Nel 2018 è uscito il suo ultimo album in studio, L’infinito, pubblicato per suo volere solo in copia fisica e quindi non disponibile nei digital store. Qual è stata la genesi di questo concept album e come mai questa scelta controcorrente, in un mondo di streaming veloce e fruizioni distratte?

È stata una scelta romantica, di contropotere, una scelta dei vecchi tempi, con il pensiero che chi desidera realmente un disco lo va a comprare, senza ascoltarlo per forza a pezzettini, a brandelli qua e là. Del resto, questa mia opera è il frutto di un anno e mezzo di pensieri e sentimenti, di soddisfazioni e paure: credo di avere il diritto di essere ascoltato per intero. L’Infinito è un disco di grande vita. Siamo nel luogo migliore per parlarne, vicino a Recanati: non dobbiamo ricercare l’infinito chissà dove, ma nella nostra coscienza, nelle nostre attitudini o nella nostra forza di vivere.

Nel 1998 ha curato la voce Canzone d’autore dell’Enciclopedia Treccani. La domanda sorge spontanea: ha notato delle innovazioni notevoli nel mondo della canzone d’autore negli ultimi 20 anni?

Tantissimo! Ci sono state tante diramazioni, ma questi anni hanno visto anche l’ingresso prepotente di un altro modo di fare musica d’autore, più rappata e parlata, o forse anche più stressante e violenta in un certo senso. Si è perso forse un po’ l’andazzo della leggerezza poetica degli anni ‘70. Sono però sorti altri generi altrettanto interessanti, con configurazioni della vita e del pensiero differenti, ma si può trovare il bello anche lì. Non sono di certo un passatista, uno che dice “i miei tempi erano altri tempi”: c’erano quelle precise forme di canzone e stavamo dietro a quelle. 

Dopo la laurea in lettere antiche e una prima parentesi accademica, ha proseguito per trent’anni la sua attività d’insegnante di greco, latino, italiano e storia nei vari licei. Come ha influito la sua spiccata capacità didattica e intellettuale nella sua carriera cantautoriale?

Nemmeno tanto in fin dei conti: tutto nasce dall’idea di esprimere la storia immane che abbiamo dentro, quella ereditata dal mondo antico, dalla memoria e dalla poesia del passato. Così come raccontavo quei sentimenti a scuola, per dare un senso di continuità alla storia, così faccio anche da sempre nella canzone.

Si è anche distinto nel panorama editoriale italiano dall’esordio del 1983 con Il grande sogno ai più recenti romanzi: Il Mercante di luce (Einaudi, 2014) e La vita che si ama (Einaudi, 2016). Ha nuovi progetti editoriali in cantiere?

Sì, a ottobre uscirà il mio nuovo libro per Einaudi, che a tal proposito è la narrazione di un mio anno di scuola, il 1987, ovvero l’ultimo in cui ho insegnato in un certo liceo. Racconto di come facevo scuola insieme ai miei ragazzi, di cosa parlavamo e del perché. Ne è uscito un libro tra il comico e il pensieroso, un romanzo inaspettato perché molte figure della storia e della filosofia vengono ribaltate e messe in discussione, accettate o meno: insomma, come se dalla cattedra gli si desse un voto.

Dopo la sua partecipazione come ospite della XXVIII edizione, Musicultura la riaccoglie in un anno particolarmente difficile per l’industria musicale e lo spettacolo dal vivo. Come membro del Comitato Artistico di Garanzia, quali consiglio sente di dare agli otto vincitori del festival?

Di sicuro non il consiglio di sfondare chissà dove e chissà come! Musicultura è la prova che esiste ancora una canzone libera, che non ha voglia di essere determinata dal gusto di una massa sconvolgente, ma preferisce chi sente le cose veramente con l’anima giusta, col cuore giusto. Auguro a tutti i vincitori di avere successo e un riscontro, ma non certamente di diventare star: quel tipo di successo effimero nasconde probabilmente qualcosa di sbagliato.

INTERVISTA. Da Reckoning song ad Anagnorisis: Asaf Avidan incanta l’Arena Sferisterio

A Musicultura 2020 approda Asaf Avidan, il cantautore israeliano che nel 2012 ha scalato le classifiche internazionali con il brano Reckoning song, confermando così di fatto il suo posto tra i più interessanti esponenti della canzone d’autore dell’ultimo decennio. 
Si definisce un cittadino del mondo: dagli esordi a Gerusalemme ha scelto di vivere la  tranquillità di Colle San Bartolo, vicino Pesaro, dove ha deciso di stabilirsi per lavorare. “Solo i marchigiani si stupiscono di questa scelta – scherza – e a loro rispondo di darmi delle ragioni per non farla: le Marche sono una regione meravigliosa”.
Avidan è un artista eclettico che nel corso della sua esperienza musicale è giunto alla maturità necessaria per esprimersi come solista, proponendo al suo pubblico progetti sempre nuovi e ragionati. Il suo ultimo album, Anagnorisis, in uscita a settembre, ne è una chiara esemplificazione.

È stato la mente creativa di Asaf Avidan & the Mojos, una band folk rock israeliana che ha fondato nel 2006 a Gerusalemme e con la quale ha pubblicato tre album: The Reckoning, Poor Boy/Lucky Man, Through the Gale. Qual era l’idea alla base del gruppo? 

È difficile da dire: guardando indietro non è cambiato molto tra quei giorni e quello che è avvenuto dopo, soprattutto a livello artistico e cantautoriale. Ad essere onesti forse non eravamo propriamente un gruppo. Ho studiato cinema e volevo concentrarmi su quella strada, la musica è arrivata dopo.

Ero davvero spaventato e l’idea di avere una sorta di famiglia con cui approcciarmi a questo mondo mi ha aiutato molto. Vivere ogni giorno per quattro anni con queste persone è stato importantissimo dal punto di vista della produzione musicale, sono tutti dei musicisti di talento ed ognuno ha portato qualcosa alla musica che stavamo creando. La mia vena solista rimaneva comunque palese.
Siamo cresciuti negli anni ’90 con i Nirvana e siamo stati influenzati dai Led Zeppelin e Jimi Hendrix, volevamo riportare in auge il folk, il blues e il rock poiché in quegli anni tutto ruotava intorno al pop e all’hip-hop. Questi erano i Mojos.
Nell’ultimo album che abbiamo prodotto si può ascoltare la mia inversione di tendenza: ero pronto a lanciarmi dal trampolino da solo. 

Nel 2012 il brano Reckoning Song diventa popolare in Germania grazie a un remix di DJ Wankelmut e viene pubblicato in versione digitale con il titolo One Day/Reckoning Song (Wankelmut Rmx) raggiungendo le prime posizioni nelle classifiche internazionali in paesi come Italia, Belgio, Francia e Paesi Bassi. Com’è stato vivere sulla propria pelle il successo immediato del singolo a livello internazionale?

In realtà è stato piuttosto difficile, il successo mainstream non era affatto pianificato. Naturalmente desideravo sfondare e sono grato per quello che è avvenuto con  Reckoning song ma il remix non era propriamente mio, la canzone era stata ridotta. Ero spaventato del fatto che le persone mi avrebbero per sempre associato al ritornello One Day remixato. Quando però ho cominciato a pubblicare album differenti mi sono subito reso conto che il pubblico non era stupido,  Reckoning song era stato solamente il lasciapassare per conoscere la mia musica, da lì la gente andava alla ricerca di altri miei brani. 
Non posso parlare di amore e odio per Reckoning song, avrei preferito che la storia fosse stata scritta in maniera differente ma alla fine dei giochi mi ha introdotto al pubblico internazionale e sono felicissimo di questo.

Proprio dopo il successo di One Day decide di optare per un percorso da solista continuando ad esibirsi dal vivo in versione acustica. A cosa è stata dovuta questa inversione di tendenza?

Avevo deciso di intraprendere la mia carriera da solista già prima dell’uscita di One Day, tanta era la voglia di dar sfogo al mio mix d’impulsi, ma l’improvviso successo della canzone ha fatto tardare la definitiva separazione dal gruppo. Era come se mi sentissi un po’ confinato con i Mojos, privo di nuovi orizzonti. Il blues e il rock non mi bastavano più. Mi sentivo cresciuto come essere umano e volevo sperimentare cose nuove. 

Anagnorisis è il nuovo album che uscirà l’11 settembre. È una parola greca che significa agnizione, che indica non solo l’identità di un personaggio ma anche l’improvvisa consapevolezza di una situazione reale. Qual è stata la genesi di questo ultimo progetto?

Anagnorisis è proprio questo: l’improvvisa presa di coscienza della vera identità da parte di un personaggio, il momento che ci fa uscire dall’ignoranza e ci mette faccia a faccia con la verità. Già prima del lockdown mi sono isolato per scelta, volevo stare da solo dopo dieci anni di concerti e mi sono stabilito nelle Marche, nella tranquillità di Colle San Bartolo. Ho da poco compiuto quarant’anni e mi sento nel pieno di una crisi di mezza età (ride). Quest’album è la ricerca della mia vera identità. L’agnizione funziona nella finzione, nel dramma, non nella vita vera. Ogni canzone dell’album fa rivivere un piccolo personaggio che è dentro di me e se avrete la pazienza di ascoltare con attenzione verrà fuori il quadro completo di chi sono.

A Musicultura 2020, il suo ritorno sul palco dopo mesi di incertezza dovuti all’attuale emergenza sanitaria: sensazioni? 

Sembra una frase fatta ma il palco è veramente la mia vita, quindi ringrazio Musicultura per avermi reso possibile calcarlo in un momento così delicato. Spero di aver saputo esprimere il massimo! 

INTERVISTA. “Musica delle mie fauci”: il primo progetto musicale di Antonio Rezza a Musicultura

“Quel che presento è musica delle mie fauci, non un tentativo di fare ciò che già so fare, di invadere un campo seminato altrove, ma la prova che la vibrazione può estendersi al di qua dell’intelletto e garantire al giudizio un’estensione musicale”. In questi mesi di reclusione il performer Antonio Rezza non si è fermato, ma è riuscito a modulare suono e pensiero dentro una bocca che ha parlato meno. E che è tornata ad essere prodiga di parole in quest’intervista.  

In un mondo in cui lo spettro dell’arte performativa va da Marina Abramovic ad Antonio Rezza, chi è il performer e qual è il discrimine effettivo tra performer e attore, se ce n’è uno? 

Il limite che c’è tra il performer e l’attore è la durata del tipo di sperimentazione: l’attore non conduce una vera e propria sperimentazione, perché necessita sempre di un personaggio o di uno stato d’animo. Non può sperimentare ma, con molta dedizione, può diventare un bravo esecutore. La performance è qualcosa di differente. Credo che la ricerca di Marina Abramovic si sia conclusa un po’ di tempo fa; spero che la ricerca mia e di Flavia Mastrella non si concluda così presto. Non è un giudizio di merito ma è evidente che la dirompenza iniziale di Marina Abramovic, la sua cattiveria e la sua sfrontatezza siano andate perse, perché perdere fa parte di un processo fisiologico. Anche un corpo mozzo o fatto a pezzi possiede una sua energia, ma in un percorso artistico si potrebbe arrivare a non trovare più qualcosa da dire. Nel momento in cui dovesse avvenire, anche nel mio caso, è meglio farsi fuori.

Quanto l’idea di performance è connessa con la manipolazione, giocosa o disturbante che sia, del proprio corpo davanti al pubblico? 

Non mi pongo il problema: ci si nasce così, non ci si diventa. Non esiste una scuola per non servire il personaggio o per non essere attore; non può essere solamente lo stato d’animo di qualcun altro a guidare le gesta di un attore. I più grandi attori che io riconosco, per esempio parlando di italiani Gian Maria Volonté o Mastroianni, servivano sì lo stato d’animo, ma già in maniera performativa. Non nascere attore, quindi non dovermi immedesimare, è stata per me una grande fortuna: attraverso gli habitat che realizza Flavia Mastrella sono doppiamente avvantaggiato perché mi trovo in uno spazio che non è neppure mio e posso fare davvero ciò che non mi aspetto.

Nel luglio 2018, forse fin troppo in ritardo, il Festival Internazionale di teatro della Biennale di Venezia vi ha attribuito il Leone d’Oro alla carriera. Qual è il segreto della longevità trentennale del duo Rezzamastrella?

Ci sono da sempre alcuni momenti di attrito, però il vero disaccordo potrebbe subentrare solo quando non ci si riconosce più in quel che si fa. Si potrebbe creare una frattura facendo cose brutte: finché uno fa cose belle si va avanti, con sacrificio e abnegazione, che non significa mai negare se stessi, ma significa fare della vita artistica l’unica vera vita esistente. Comunque, lavoriamo spesso anche autonomamente: difatti ora io sto preparando un film su Cristo e Flavia invece un film sulla Costituzione recitata dagli animali. 

Parliamo ora di Pitecus, opera a più quadri presentata al pubblico de La Controra di Macerata, lo spettacolo teatrale sull’uomo e sulle sue perversioni “(mai) scritto da Antonio Rezza”, come tu stesso dichiari. Immaginando sia un’opera per sua natura volontariamente non codificata, sempre in divenire, anche linguisticamente, come è maturata in tutti questi anni? Sei rimasto fedele all’idea sorgiva del 1995?

Pitecus sfrutta la tecnica bidimensionale di Flavia Mastrella che prevede i quadri di scena da cui sbuco con la testa, con le braccia e con le gambe; è l’unione di tre opere, Barba e cravatta, Seppellitemi ai fornetti e Pitecus; ci sono quindi frammenti di più di trenta anni fa, dal 1988 in poi. L’opera non si è evoluta perché è come uno spartito musicale invariabile: noi facciamo musica e ritmo, siamo nati in primis come musicisti o cineasti. Il teatro è l’unica cosa che non facciamo ma anche l’unico settore che ci ha accolto: per questo la nostra idea di teatro è così difforme da ogni altra forma teatrale. Il cinema non era un terreno libero, lo stiamo riprendendo solo adesso; la musica invece ce l’abbiamo da sempre dentro: per comodità ci esprimiamo in teatro. In Pitecus e in Io, gli spettacoli più antichi, c’è anche dell’improvvisazione, ma in realtà è andata persa. Tutto ciò che sembra improvvisazione fa parte del testo, ovvero il meta-testo si accanisce sul testo. Sono sempre gli stessi spettacoli, pur dando di volta in volta suggestioni diverse, come ogni forma di arte superiore, da Bacon nella pittura a Lynch nel cinema; tutto ciò che non si capisce è per me superiore.

Per quanto riguarda invece Groppo e Galoppo. Il Pianto del Centauro, Armonie gutturali a quattro ganasce, il primo progetto musicale di Antonio Rezza, dichiari: “sapevo di avere un pulpito che dimorava nella gola, ma la vita di ogni giorno, infettata dai discorsi di rappresentanza, non dava al demone la libertà di cui dispone”. Da cosa dovevi liberarti? 

Per cervelli che funzionano in autonomia essere chiusi in casa per tre mesi potrebbe essere una ricetta esplosiva. Mi auguro al più presto una pandemia a secco, senza morti e sofferenza. Dovrebbe essere obbligatorio stare chiusi da soli per almeno quattro mesi all’anno, dovrebbe essere legge di stato! Le menti libere se costrette a fare qualcosa danno i risultati più dirompenti: io, nei mesi trascorsi da solo, ho esercitato la mia voce attraverso la musicalità che ho sempre avuto dentro. Ne è uscito un progetto inaspettato, che non volevo divulgare così presto. Ezio Nannipieri però l’ha ascoltato e mi ha convinto subito a presentarlo qui a Musicultura nella Sala Cesanelli.

Questa prima metà del 2020 ha probabilmente acutizzato alcune delle sofferenze costanti nell’industria dell’intrattenimento, del teatro, della musica e della cultura in genere. Quali sono le prospettive del teatro contemporaneo? 

Il teatro era già sofferente prima, con schede tecniche sempre più povere e poco personale malpagato. In questo periodo il governo ha ulteriormente dimostrato che la cultura non serve a nulla, non ne ha neppure mai parlato perché a conti fatti la cultura si è lasciata comprare da uno stato in caduta libera. Invito tutti ad andar via per qualche anno, a lasciare la classe politica da sola, senza nessuno da amministrare, per vedere chi governeranno senza pascolo.

INTERVISTA. Un suono lungo 150 anni: il Gruppo Ocarinistico Budriese a Musicultura 2020

È una tradizione antica, con un secolo e mezzo di storia alle spalle, quella che il Gruppo Ocarinistico Budriese ha deciso di far rivivere;  è una tradizione “vecchia” di 150 anni, eppure ancora incredibilmente attuale. A dimostrarlo è questo ensemble che ha l’obiettivo di riscoprire il repertorio classico/operistico e di sperimentare nuove sonorità legate alla musica contemporanea, con una protagonista indiscussa: l’ocarina. O meglio, con tante protagoniste indiscusse:  ocarine di ogni dimensione, che in occasione della settimana finale di Musicultura hanno animato con le loro note il centro storico e lo Sferisterio di Macerata. 

Nel 1853, a Budrio, Giuseppe Donati inventa l’ocarina, un piccolo strumento a fiato in terracotta. Attualmente il vostro gruppo rappresenta la continuazione di quella storica tradizione. Volete raccontarci di questa grande responsabilità?

Siamo molto orgogliosi di questo retaggio storico. Seguiamo l’antica tradizione del Settimino di Ocarine: siamo un gruppo di sette persone con sette ocarine di diverse dimensioni, dalla più piccola alla più grande. Ci sono molte persone che portano avanti questa tradizione oltre noi, in particolare in Corea del Sud.

Ecco, a distanza di oltre due secoli Il Gruppo Ocarinistico Budriese raccoglie l’eredità musicale e culturale dei complessi ocarinistici formatisi a Budrio. Quali sono gli insegnamenti dei grandi maestri che avete preservato nel tempo?

Ci fu un grande passaparola negli anni settanta e ottanta da parte delle generazioni precedenti ma soprattutto gli insegnamenti più prezioni provengono da un corpus di letteratura per sette ocarine che risale agli anni venti. 

Dagli anni ’90 il G.O.B  è stato testimonial della cultura musicale emiliana con concerti in Australia, Argentina, Cile, USA, e dal 2010 in poi avete realizzato tournée anche in Corea del Sud, Giappone e Cina. Avete notato delle differenze di recezione tra il pubblico italiano e quello mondiale?

Sia in Corea del Sud che in Giappone ci sono persone veramente appassionate dell’ocarina. Probabilmente c’è da parte del pubblico orientale una maggiore consapevolezza perché hanno un’esperienza diretta dello strumento, cosa che il pubblico italiano difficilmente ha.

Qual è stata la vostra reazione all’invito di Musicultura come ospiti?

Siamo molto contenti di essere stati invitati come ospiti da Musicultura. Ci ha sorpreso la scelta coraggiosa ed interessante della direzione artistica di invitare un gruppo come il nostro che è così eterogeneo rispetto all’offerta musicale di questo festival, incentrato soprattutto sul cantautorato. 

INTERVISTA. I Pinguini Tattici Nucleari infiammano lo Sferisterio per la XXXI edizione di Musicultura

Reduce dalla settantesima edizione del Festival di Sanremo, la band bergamasca approda sul palco di Musicultura con tutto il suo carico di energia, un sound fresco e vivace, una scrittura tanto ironica quanto malinconica e la grinta di chi ha la giovinezza dalla propria. Prima di presentare il loro nuovissimo singolo, La Storia Infinita, al pubblico dello Sferisterio di Macerata, i Pinguini Tattici Nucleari si sono raccontati così alla redazione di “Sciuscià”. 

La vostra carriera musicale decennale è decisamente esplosa dopo l’approdo di questo inverno sul palco del Teatro Ariston di Sanremo, favorendo il successo radiofonico del vostro brano Ringo Starr, ormai disco di platino. Come stato salire sul palco di uno dei più prestigiosi festival musicali italiani? 

Sarà forse una banalità ma è stato semplicemente emozionante: calcare quel palco pieno di storia, per noi venticinquenni, è stato come entrare nel mondo dei grandi. In più, sapere che a casa così tante famiglie sono incollate al piccolo schermo contribuisce ancora più alla magia e alla bellezza di quel momento. E poi è stato bellissimo poter vedere come si lavora ad un livello così alto e scoprire tutte le dinamiche che si vanno a creare. Inaspettatamente, anche l’ambiente che si è creato è stato molto positivo: si potrebbe pensare che nell’ambito di una kermesse musicale come Sanremo ci sia tanta rivalità tra artisti, ma in realtà tutti fanno il tifo per tutti e c’è molta solidarietà tra i vari concorrenti. 

Proprio ieri, il 28 agosto è uscito il vostro ultimo singolo, La Storia Infinita, che preannuncia forse un vostro nuovo attesissimo progetto. Cosa avete in cantiere?

 In questo momento stiamo scrivendo, ma un passo alla volta! È appena uscito per Sanremo il repack del disco Fuori dell’Hype con tre pezzi inediti. Abbiamo però sicuramente in progetto di buttare fuori tantissimo altro materiale.

A proposito di scrittura: i vostri testi sono ricchissimi di ironia pungente e dei giochi linguistici più disparati. Qual è la genesi compositiva dei vostri brani, sia dal punto di vista dei testi che degli arrangiamenti? 

Il compositore principale sia dei testi che della musica, anche se poi ci lavoriamo insieme, è sempre Riccardo, la nostra voce.  C’è comunque molto confronto sulle bozze durante il processo compositivo in sala prove; il grosso del lavoro di gruppo per un organico come il nostro è poi arrangiare i pezzi in chiave live, perché a conti fatti è quella la nostra dimensione vera e propria.

In quanto bergamaschi, vi siete trovati proprio nell’epicentro della pandemia, in momenti particolarmente dolorosi, e spesso le parole hanno lasciato posto al silenzio. Nonostante tutto, siete riusciti sempre a mantenere un contatto onesto con i vostri fan tramite i social. Quali prospettive immaginate per la musica live dopo questo periodo?

È davvero difficile dirlo.  Chiaramente speriamo per il meglio perché, al di là del fatto che ne va del nostro lavoro, la situazione riguarda l’arte in genere, la musica e quello che rappresenta per ciascuno di noi. Ovviamente bisognerà seguire le evoluzioni della pandemia, ma è davvero dura fare dei pronostici. 

Da Cartoni animati, il primo LP autoprodotto nel 2012, all’ultimo disco Fuori dall’Hype del 2019 uscito per Sony Music, avete fatto molta strada. Cosa consigliereste a chi decide oggi di intraprendere la carriera musicale, in particolare ai vincitori di Musicultura?

Di continuare a crederci, di migliorarsi ogni giorno e soprattutto di avere molta pazienza, perché le cose belle arrivano solo con la calma.

Fabio Curto è il vincitore assoluto di Musicultura XXXI. Il resoconto della finalissima

Ci siamo. Il pubblico dello Sferisterio di Macerata attende impaziente di decretare il vincitore della XXXI edizione del Festival. Ed è di nuovo la voce di Enrico Ruggeri, che intona Vecchio Frack omaggiando così Domenico Modugno, ad inaugurare la serata finale di un’edizione che definisce “temerariamente felice”. Perché? Perché nel pieno del lockdown Musicultura pensava a come rendere possibile l’impossibile!

E l’impossibile comincia col botto! Primi ospiti della finalissima sono i Pinguini Tattici Nucleari, che infiammano l’arena con Ringo Star e Ridere. “Da bergamaschi – spiega Riccardo Zanotti, frontman della band – in questo periodo difficile suonare dal vivo ci è mancato tantissimo, perché il palco è davvero il nostro habitat naturale.”

Pinguini Tattici Nucleari Musicultura

Arriva poi il primo momento dedicato all’esibizione degli artisti in concorso: dapprima è la volta di Blindur e della sua Invisibile agli occhi; subito dopo è il turno di Fabio Curto, che si abbandona alle note del suo brano, Domenica.

Sorpresa! Tra gli ospiti della serata c’è anche un grande affezionato di Musicultura, nonché membro del comitato artistico di garanzia: Roberto Vecchioni. Il Professore della musica italiana omaggia Piero Cesanelli, ideatore e direttore artistico del Festival prematuramente scomparso l’anno scorso esibendosi in un suo pezzo, Sopramilano.
“Piero – spiega Vecchioni – aveva tanta immaginazione e troppa umiltà; tutto questo bagaglio di sentimenti meritava respiro nazionale“.
“I tempi del cantautorato di qualità – conclude – non sono mai morti, Musicultura ne è testimone”.

Roberto Vecchioni Musicultura 2020

E allora largo alle nuove leve della musica di qualità nostrana con l’esibizione di altri due artisti in concorso: I Miei Migliori Complimenti, con Inter-Cagliari, e Miele, con Il senso di colpa.

È tempo di poesia. Parola, allora, a Bruno Tognolini, poeta ramingo e autore di centinaia di filastrocche per programmi come La Melevisione e L’Albero Azzurro, che intrattiene l’arena con alcune delle sue più belle filastrocche.

Bruno Tognolini

La serata continua con un talk musicale: i 4 vincitori del concorso, insieme ad Enrico Ruggeri, omaggiano Pino Daniele, Lucio Dalla, Cesare Cremonini e gli Stadio. Infine intonano tutti insieme Una storia da cantare.

Enrico Ruggeri e i 4 vincitori del concorso

Spazio al Premio della Critica: ad aggiudicarsi il riconoscimento assegnato dai giornalisti presenti in sala stampa è Blindur con la sua Invisibile agli occhi.

A seguire un’acclamata guest star internazionale: Asaf Avidan è il quarto ospite della finalissima di Musicultura e manda in visibilio il pubblico maceratese con Lost Horse e Reckoning song.

Asaf Avidan a Musicultura 2020

C’è spazio anche per il teatro sul palco dello Sferisterio, con l’esibizione dell’attrice Lucilla Giagnoni – che regala alla platea un monologo ispirato al quarto libro dell’Apocalisse –  e per le sonorità delicate e giocose del Gruppo Ocarinistico Budriese.

Lucilla Giagnoni

È la volta della voce di Francesco Bianconi, frontman storico dei Baustelle, che presenta in anteprima due brani del suo primo disco da solista: L’abisso e Quello che conta; insieme a Ruggeri, intona A me mi piace vivere alla grande, brano di Franco Fanigliulo, e svela una bella novità: dalla prossima edizione entrerà a far parte del Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura.

Francesco Bianconi a Musicultura 2020

Il pubblico ora freme: vuole sapere chi è il vincitore assoluto del Festival.
Ruggeri accontenta la platea e dal palco ne scandisce il nome: Fabio Curto!
Grazie alla sua Domenica è lui ad aggiudicarsi i 20.000 euro del premio finale.

Les jeux sont faits.

Fabio Curto è il vincitore assoluto Musicultura 2020

INTERVISTA – L’abisso e altri racconti: Francesco Bianconi presenta i suoi nuovi progetti

Una storia d’amore più che ventennale quella della band indie rock toscana Baustelle; una storia appassionata di dedizione totale alla cura del dettaglio, dal suono alla parola, di luminosissime uscite discografiche e di rispetto profondissimo per il proprio pubblico.

Una storia solo momentaneamente in pausa, che vede ora l’uscita in anteprima di alcuni brani del prossimo album Forever, il primo da solista del frontman Francesco Bianconi. Alla redazione Sciuscià, il cantautore racconta anche del suo ultimo Abisso, così.

Da quando il primo luglio del 2000 l’etichetta indipendente Baracca&Burattini pubblicò l’album cult Sussidiario illustrato della giovinezza, il tuo nome è inestricabilmente legato a quello dei Baustelle. Qual è il riconoscimento di cui vai più fiero?

Non c’è un riconoscimento ufficiale o un premio in particolare: il riconoscimento più grande è quello di aver resistito tutto questo tempo, di non aver annoiato i fan con la carriera dei Baustelle. Mi sorprende sempre il riuscire a durare nel tempo, non va mai dato per scontato.

Dopo un lavoro più che ventennale, a dir poco proficuo e fortunato come frontman della band, recentemente, a maggio 2020, sono usciti due brani, Il bene e L’abisso, che anticipano il disco Forever, il tuo primo progetto solista. Da dove nasce l’esigenza di questo nuovo esperimento autonomo?

Con i Baustelle uscivamo da un periodo molto intenso, che ha visto l’uscita di due dischi nel giro di pochissimo tempo, L’amore e la violenza e L’amore e la violenza vol. 2. Sono stati degli anni molto divertenti e le tournée sono andate bene; eravamo al massimo della forma, al culmine: secondo me, per far sì che il matrimonio continui in maniera eccitante, bisogna avere il coraggio di prendersi un periodo di pausa, un periodo in cui ciascuno di noi potesse liberare i propri istinti più bestiali. È nata così l’idea di occupare quel tempo con un disco a mio nome, un po’ differente dalle cose ideate con il gruppo, anche a livello compositivo: si tratta di pianoforte, voce e quartetto d’archi, senza ritmica, forse anche per reazione agli ultimi prodotti con i Baustelle, molto ricchi e arrangiati. Ho cercato una strada differente, più intima e personale, con un focus sulla nudità. Insomma, è un disco scarno e spoglio, non immediatamente pop.

Francesco Bianconi a Musicultura 2020

Più in particolare, in L’abisso racconti: “Guardo il mondo senza gli occhi che vorrei / Perché conosco bene gli uomini / Racconto i loro demoni / Ma non riesco a scrivere dei miei / Perché io puntualmente evito l’abisso”. Eppure questo sembra già in nuce un lavoro tanto autobiografico, intimissimo, l’incubo di colui che abita disperatamente orizzonti di paura, che teme l’alba ma che in fin dei conti gode del sogno o della consolazione della notte. È così?

Dopo due ritornelli in cui mi lamento di non riuscire a venire a contatto con i miei demoni e di scrivere da anni bene di quelli degli altri, già dentro L’abisso c’è una svolta: nella dichiarazione conclusiva mi dico “basta” e finalmente discendo nel mio abisso, per la prima volta dentro me stesso. Mi rendo conto solo adesso di quanto tempo ho passato ad essere il “precisetti”, il primo della classe, il bravo in italiano, a far bene lo psicologo degli altri, raccontando fatti – magari anche miei privati – ma sempre con degli schermi o messe in scena. Mi rendo conto di essere cambiato, anche felicemente. Mi dicono che è una buona cosa: non sempre accade di essere piloti consapevoli del proprio cambiamento. Come non mai, le canzoni di questo disco riflettono il mio pensiero senza troppe metafore, giri di parole o giochi linguistici. Chi ha ascoltato questo disco in anteprima, questa sorta di autoanalisi, mi domanda quanto la scrittura delle canzoni sia stata influenzata dal corona virus. In realtà sono state scritte prima: ho incominciato a guardare l’abisso con un po’ più coraggio del solito, ma non perché sono stato costretto a casa a riflettere. La vita è bizzarra! Ho fatto un primo passo e solo poi c’è stata una catastrofe mondiale che si è rivelata in sintonia con questo mio percorso. Passare il lockdown a Milano è stata un’ulteriore occasione per discendere ancora più nell’abisso, in qualche maniera ha accompagnato un cammino che avevo già percorso.

Parliamo invece dei tuoi lavori letterari, visto che hai pubblicato due romanzi per Mondadori, Il regno animale e La resurrezione della carne. Quali sono le potenzialità – o anche i limiti – che hai trovato in questo mezzo espressivo rispetto alla musica? Stai scrivendo qualcosa di nuovo?

Mi piacerebbe scrivere un romanzo prossimamente: è già in fase embrionale, ho un’idea in testa e un file di word con degli appunti. Nella pratica della scrittura aiutano tutte le forme possibili, anche se molto differenti tra loro; per esempio, per un autore di aforismi o di haiku anche saper scrivere in forme più lunghe è un buon esercizio. Passare liberamente da una forma all’altra di creazione in scrittura aiuta nelle rispettive pratiche: a me personalmente scrivere in prosa ha giovato molto al perfezionamento della mia capacità di sintesi quando torno alle canzonette.

Il libro di Francesco Bianconi

In un mondo di ascolti veloci e distratti, quale prospettiva immagini per la più giovane scena cantautoriale italiana?

In un certo senso sono ottimista: è un periodo di transizione, di svecchiamento forse. Ci sono molte cose che non mi piacciono, spesso molto uguali tra loro, poco interessanti. Insomma, sono pochi della nuova scena cantautoriale quelli di cui comprerei il disco. Noto però anche un tentativo di tabula rasa che ogni tanto fa bene: c’è stato un cambiamento, una sorta di restaurazione di un linguaggio nuovo, come se fosse stata tirata via la tovaglia con ancora gli avanzi, con tutte le cose inutili da tenere. Ci sono quindi delle opere che dichiaratamente mi piacciono: per esempio, ho prodotto il disco di Lucio Corsi, Cosa faremo da grandi?¸ frutto di un talento straordinario. Solo grazie a quella tabula rasa si è stabilito un nuovo spazio per la creazione di talenti totalmente eccezionali e di difficile catalogazione come Lucio.

Quale consiglio daresti alle nuove leve di artisti della XXXI edizione di Musicultura?

Mi rendo conto che di questi tempi può essere difficile, ma la chiave è non pensare al successo. Può sembrare una frase retorica, ma bisognerebbe concentrarsi unicamente sul controllo totale del proprio mezzo, del suono e della parola. Mi rendo conto che i nostri erano altri tempi, quando abbiamo iniziato si riusciva a campare con la musica senza scendere a compromessi. Sono convinto che ci si può riuscire anche oggi. Ai Baustelle non fregava assolutamente nulla di essere famosi, di andare in radio o in televisione. Volevamo solo fare quello che ci piaceva, curare minuziosamente il suono della chitarra, dell’amplificatore. Oggi pur di sfondare si fanno bastare la canzone, magari fregandosene di come è vestita; tutto ciò può aiutare nel successo, ma di certo non aiuta per la resistenza al tempo.

Francesco Bianconi a Musicultura 2020

INTERVISTA – Tosca: “Musicultura è un polmone incontaminato, una bandiera del cantautorato”

Tosca non ha di certo bisogno di presentazioni: cantante, attrice, eclettica artista con un’innata propensione alla ricerca e alla sperimentazione.

Nell’elegante cornice del cortile di Palazzo Buonaccorsi ha ripercorso, insieme a John Vignola, i viaggi in giro per il mondo che hanno ispirato il suo ultimo album, Morabeza. Del resto, “nonostante il difficile periodo che stiamo vivendo, la musica – ci spiega – è un lasciapassare per qualsiasi luogo, ad Algeri come a Musicultura”.

Con lei abbiamo parlato di cosa significhi fare musica oggi, di ciò che andrebbe cambiato, di Sanremo e dei nuovi cantautori di domani.

Il suo ultimo lavoro in studio, Morabeza, conclude un lungo viaggio attraverso vari paesi del mondo; ha avuto modo di collaborare e confrontarsi con diversi artisti, passando dall’Algeria e la Tunisia al Portogallo e al Brasile, a testimonianza del fatto che la musica non ha frontiere ed è ancora una volta incontro e confronto allo stesso tempo. A livello artistico, cosa ha significato per lei questo “giro” del mondo?

È stato un grande accrescimento sia dal punto di vista artistico che personale. Sono riuscita ad incontrare tantissimi grandi artisti ma anche personalità del mondo sociale e politico. Ogni volta che andavo via avevo sempre questa sensazione di arricchimento, di quanto la persona straniera fosse un bene, un qualcuno che aveva da regalarmi delle sensazioni uniche. Così infatti è stato: sono tornata migliore, senza quelle paure con cui ero partita. Questo viaggio mi ha insegnato che i muri fanno tornare indietro, sono involutivi: il muro che mettiamo tra noi e gli altri non è che l’inizio della guerra, la barriera significa che c’è un nemico.

A tredici anni dalla sua ultima volta all’Ariston, il 2020 è l’anno della partecipazione alla 70° edizione del Festival di Sanremo con il brano Ho amato tutto, con il quale si aggiudica il premio Giancarlo Bigazzi per la migliore composizione e il sesto posto in classifica. Duetta con Sílvia Pérez Cruz con il brano Piazza grande, aggiudicandosi il primo posto nella classifica nella serata delle cover, votata dall’orchestra del Festival. A distanza di mesi, come giudica il ritorno sul palco sanremese?

Ottimo, anche da Sanremo sono uscita arricchita. Molti mi accusano di snobberia, mi dicono che in certi contesti non voglio tornare, cosa non vera. Amo il pop, l’unico problema è che non lo so fare, ci ho provato ma non ne ero capace. Cantare so cantare, ma il pop ha delle regole ed io tentavo di piegare le regole della world music o della musica d’autore ad un mondo che era invece più immediato. Prendere la decisione di fare altro non significa che non mi piaccia stare in contesti più immediati o popolari. Comunque mi sono divertita moltissimo al festival, ma ho anche rischiato tanto: sono andata con 24 anni di carriera sulle spalle e la possibilità di azzerare tutto in un minuto. Ero però così contenta di salire sul palco con Ho amato tutto, sicura come un calciatore con un pallone giusto nonostante la canzone fosse senza inciso e senza arrangiamento pop. Sì, ero sicura e lo rifarei.

Il 2020 è stato anche l’anno del Premio Tenco: due Targhe, per la miglior canzone singola con Ho amato tutto e come miglior interprete di canzoni per l’album Morabeza. È così che lei è entrata nella schiera dei pochissimi artisti italiani riusciti a guadagnarsi un doppio riconoscimento nella stessa edizione del Premio. Un riconoscimento che arriva subito dopo la fine del lockdown: come commenta questo traguardo?

Un regalo meraviglioso, inaspettato. Dire che non ci sperassi sarebbe sicuramente una bugia. Il Premio Tenco è una laurea, per me avviene in un momento in cui sono riuscita a coniugare il mondo più pop con il mondo d’autore. Per tutta la vita ho pensato che andare dritti per la propria strada ripagasse. Il mio primo maestro, Renzo Arbore, parlava di ricompensa della coerenza. Avevo un po’ perso le speranze, c’è però un momento in cui tutto si allinea e quello che hai seminato raccogli. Mi piacerebbe tanto trasmetterlo ai ragazzi che spesso si perdono in strade comode o sbagliate. “Chi comincia bene è a metà dell’opera”: così diceva mia nonna, ed aveva ragione; in questo mestiere il detto vale ancora di più.

Tosca a La Controra di Musicultura

In piena emergenza sanitaria ha deciso di incidere Il canto degli italiani, una rilettura acustica dell’inno d’Italia. Il singolo e il video che lo accompagna sono stati scelti per aprire i festeggiamenti del 75° anniversario della Liberazione del 25 aprile, la loro fruizione digitale è destinata a raccogliere fondi per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale per i volontari della Croce Rossa Italiana. In un momento così difficile e particolare qual è stata la genesi del progetto?

È avvenuto tutto in maniera naturale. Il presidente della Croce Rossa mi ha chiesto di fare un video per ringraziare tutti i volontari perché un nostro amico comune era venuto a mancare all’inizio della pandemia, quando i mezzi di protezione ancora scarseggiavano, ma nonostante tutto gente coraggiosa come lui non si tirava indietro dall’aiutare gli altri. Ho deciso di fare un GoFundMe per la Croce Rossa ed insieme a Giovanna e Massimo, i miei musicisti, abbiamo optato per Il canto degli italiani. La prima settimana del lockdown abbiamo fatto una diretta intonando tra le altre canzoni anche Fratelli d’Italia e abbiamo chiesto a tutti di cantarla a casa riprendendosi. Questo è stato il nostro messaggio: cantare quello che è il nostro sangue in maniera diversa, non solenne, ma come qualcosa di tenero, che ci protegga.

Musicultura è un Festival che resiste e conferma il suo impegno accanto alla musica e al mondo della canzone d’autore. Quale incoraggiamento sente di dare ai nuovi cantautori che si stanno facendo strada in un periodo così complesso?

Di essere coerenti, di non seguire nessuna moda: la moda la devono fare. Devono avere il coraggio di essere numeri uno e di sentire le proprie inclinazioni e peculiarità. Bisogna inseguire la propria strada senza copiare, emulare o cercando strade di facile successo. È necessario studiare, essere curiosi e costruire la propria casa mattone su mattone. Le cose arrivano quando sei strutturato, un tetto senza fondamenta viene facilmente spazzato via.