“In debito” col rap che lo fa sentire vivo: intervista a FALCE

FALCE, all’anagrafe Alberto Falcetta, classe ’95, cresce nella provincia torinese. A 20 anni inizia a cimentarsi con il suo genere preferito, il rap. Per sperimentare anche al di fuori del suo progetto da solista, nel 2022 fonda insieme a un suo amico il collettivo North Flow, che attualmente raccoglie venti artisti. Con il brano In debito si è aggiudicato un posto tra i finalisti della XXXV di Musicultura e proprio alla redazione del Festival racconta ora del suo percorso nel mondo della musica, delle sue esperienze e di un domanda – preziosa nella sua semplicità – dalla quale tutto è scaturito: “Perché non provo anche io?”.

Guardiamo un attimo indietro: quand’è che Alberto Falcetta ha deciso di diventare FALCE e perché?

Domanda non banale. Quasi dieci anni dopo sento che sto appena iniziando a sfiorare il “perché” lo faccio. Quindi partiamo dal come. Ho iniziato a rappare a 20 anni, dopo praticamente tutta una vita passata come fan del genere. Ho iniziato chiedendomi: “perché non provo anch’io?”. Negli anni mi sono sempre chiesto perché avessi iniziato, trovando risposte sempre meno complesse. A oggi posso dire perché lo amo. Perché è la cosa che più mi fa sentire vivo, necessario, che dà quotidianamente un senso e una narrazione alla mia vita. Ogni giorno scopro cose nuove. Vi terrò aggiornati.

Scrivi canzoni e suoni fin da bambino, hai calcato numerosi palchi, sei molto attivo nella scena underground torinese, hai pubblicato quattro dischi. Insomma, la tua carriera artistica è ben nutrita. C’è una cosa, però, che leggendo la tua biografia pare renderti particolarmente orgoglioso: la fondazione del collettivo North Flow. Ci racconti di questa esperienza e di quello che rappresenta per te?

North Flow nasce a settembre 2022 come un progetto di coppia, iniziato col mio caro amico Francesco Gargantini Mezzena, rapper pinerolese classe ’96, conosciuto col nome di Mezzi Termini. Voleva essere un modo per noi di esprimerci al di fuori del nostro percorso artistico solista, permettendoci di sperimentare stili, parole e soprattutto di divertirci. Come una piccola palla di neve che rotolando diventa valanga, nel tempo è diventato un collettivo di 20 artisti, tutti della mia zona, che ad agosto 2023 ho riunito a casa mia per una session di produzione musicale lunga 3 giorni. Da quell’esperienza è nata una grossa cartella di provini, che puntiamo a trasformare in un mixtape da fare uscire entro il 2024. North Flow significa per me prendermi cura e sentirmi parte di qualcosa. Significa identità e orgoglio. Il mio sogno è che la NF diventi la più importante etichetta discografica in Italia, che sia fucina libera di talenti di ogni provenienza e gusto musicale. Sogno che la sua fiamma riattizzi il fuoco sacro della creatività più libera e spregiudicata, ché al momento sembra essercene molto bisogno.

In debito è la canzone in concorso a Musicultura 2024; il suo testo, nella parte inziale, recita: “Coscienza di Zeno al servizio degli altri”; poi, un riferimento a Oliver Twist. Insomma, Italo Svevo e Charles Dickens nello stesso brano. È inevitabile chiedertelo: che rapporto hai con la letteratura e come entra nelle tue canzoni?

Ho sempre letto, fin da quando ero bambino, e la letteratura, come ogni cosa su cui si posi la mia attenzione, entra nelle mie canzoni per essere masticata e sputata nei testi, con l’intento di renderla più digeribile per chi ascolta. Come fanno gli uccelli coi loro piccoli. È il bello della musica.

Porti il rap sul palco di Musicultura, con due esibizioni in teatro: una al Lauro Rossi di Macerata, in occasione delle Audizioni Live, l’altra al Persiani di Recanati, per il concerto di presentazione dei finalisti. Com’è esibirsi in un contesto così diverso da quelli che nell’immaginario collettivo sono solitamente destinati a questo genere?

È sempre una bella sfida. Negli anni ho fatto molte date e i live con davanti più di cento persone li conto sulle dita di una mano, forse due. Ma per me è sempre un’enorme soddisfazione quando, fuori da teatri come il Lauro Rossi, mi si avvicinano persone totalmente estranee al rap per dirmi che le ho in qualche modo toccate con la mia musica.

A proposito di rap, concludiamo quest’intervista con una richiesta un po’ sui generis: so che è quasi un paradosso chiederti di farlo per iscritto, ma ci regaleresti qui un pezzetto di freestyle, con le prime parole che ti vengono in mente, dedicato a Musicultura e alla tua esperienza al festival?

Niente paura, lo dico sereno

Musicultura 100 volte San Remo


 

Tra viaggi, musica e energia dell’universo, Nyco Ferrari si svela: “Sono fatto così”

Nyco Ferrari: oggi cantautore, ieri poeta, domani raver; da sempre, insaziabile viaggiatore. Sulla sua bio di Spotify scrive: «Le canzoni le trovo in giro […] suono le storie che ho raccolto come se rilegassi le pagine di un diario di viaggio». Per adattarsi alle diverse città in cui ha vissuto – Londra, Dublino, Parigi, Shangai, Milano, New York – all’occorrenza è stato anche cameriere. Il suo nome d’arte, infatti, è nato nella cantina di un ristorante a Central Park, alla vista di uno scatolone di Pepsi con su scritto “NY-Cola”. Da lì è partito tutto. Un progetto artistico dove raccoglie tutti i souvenir musicali presi in giro per il mondo e li unisce in una formula che contempla l’indie, il pop, il jazz, il cantautorato e l’elettronica; le scale armoniche minori arabeggianti e le ballate celtiche; la profondità dei testi intimi e la leggerezza del sound dance che fa alzare tutti in piedi e ballare. Il risultato è una musica che muove da un’energia vitale e, come un rituale, connette le persone con il senso profondo dell’esistenza e le rigenera. Il brano che canterà al Concerto dei Finalisti 2024, Sono fatto così, è un vero e proprio biglietto da visita: una dichiarazione programmatica grazie alla quale Nyco Ferrari si racconta con grande sincerità. Un po’ come fa in questa intervista.

Nyco Ferrari: oggi cantautore indie-pop, ieri studente e poeta, domani raver. Scrivono di te che le parole “rito”, “connessione” e “rigenerazione” racchiudono la formula della tua musica. Ci dici di più di questo?

Ha a che fare con la mia visione del mondo. Credo molto nell’energia che ci pervade in quanto esseri umani, e che questa sia la stessa energia di cui è fatto l’universo. La musica, l’arte, come mille altre discipline, ci permettono di riconnetterci a questa energia, ritrovando il senso di quello che facciamo. Diciamo che vedo la musica come un rituale che connettendoci all’universo ci rigenera.

Sulla tua bio di Spotify scrivi che il tuo nome d’arte è nato nella cantina di un ristorante di New York, alla vista di uno scatolone di Pepsi Cola con su scritto “NY-Cola”. È partito tutto da lì. Ti va di raccontarci la genesi del tuo progetto musicale nella Grande Mela?

Sono arrivato a New York due mesi dopo aver pubblicato un album intitolato Sipario, sotto il nome d’arte di Nicola Savi Ferrari. Ma nella Grande Mela tutto è veloce, tutto è pratico, funzionale. E quella musica, quell’identità dal doppio cognome, era troppo pesante per trovare il suo posto fra gli ingranaggi impazziti di quella grande macchina. Lì, dondolando come un pendolo tra il ristorante a Central Park dove lavoravo e le jam session del Greenwich Village, ho dovuto semplificarmi. Quello scatolone marcio di Pepsi Cola mi ha ribattezzato, e due giorni dopo sono andato in un famoso pub irlandese a Times Square a propormi per un concerto. Al proprietario, un vecchio irlandese dall’accento forte, ho stretto la mano dicendo «Hi, I’m Nyco Ferrari», e quello mi guarda e fa: «nice name». Lì ho capito che era appena nato un nuovo me musicale.

Sei un insaziabile viaggiatore, sempre in giro per il mondo: a 19 anni hai lasciato tutto e sei partito per Londra, poi Dublino, Parigi, Shangai e la già citata New York. Quali sono i souvenir più significativi – sia nel senso di influenze musicali, che di oggetti materiali – che hai portato con te dalle città dove hai vissuto fin ora?

A Londra ho ballato la drum and bass di Camden Town. A Dublino ho ascoltato le ballate celtiche nei pub di Temple Bar. A Parigi ho riempito il cuore di Aznavour, fisarmoniche sotto i ponti e canzoni di cantautori di tutto il mondo che ogni martedì sera si riunivano dietro al Pantheon per cantare all’open mic del Petit Bonheur la Chance. Ma già in Francia pendolavo tra il ristorante dove lavoravo e il jazz del Duc de Lombards. A Shanghai ho provato ad ascoltare il jazz a Xin Tian Di, ma mi annoiava; preferivo ascoltare i vecchi cantare canzoni con un sacco di “OO” e di “AAA” nei parchi o i suonatori cechi di Er Hu nelle stradine turistiche. E poi, a New York, tanto, tanto, tanto, tanto, jazz. Ma anche vivere a Milano è stato un viaggio continuo. Per me è una città di musicisti e di cantanti, ed è grazie a lei che ho capito chi volessi essere davvero come artista.

Gli arrangiamenti, le strumentazioni e il ritmo tribale di alcuni tuoi brani, invece, rivelano delle influenze arabe e africane. Come ti sei avvicinato al mondo mediorientale?

Credo che centrino alcuni viaggi fatti da bambino con i miei genitori, uniti alla mia visione di musica come rituale. Le scale musicali non occidentali, in particolare quelle legate al mondo arabo e mediorientale, mi riportano a un immaginario di sole cocente e terre lontane dove poter abbandonare la propria struttura metropolitana, riconnettersi ai sensi e, per rarefazione del mondo, al senso più vero dell’esistenza. Quando canto improvvisando su una di queste scale, chessò, un’armonica minore, viaggio. Con l’acustica giusta potrei andare avanti ore senza accorgermene.

Vivere è quello che sono / poi trasformare la vita in un suono”, canti nel brano con cui sei stato selezionato per il Concerto dei Finalisti di Musicultura. Si intitola Sono fatto così ed è un po’ il tuo bigliettino da visita. Come nasce l’esigenza di raccontarti in maniera così sincera e libera in questa canzone e nell’omonimo album?

Dopo New York, tornato in Italia, ho iniziato a pubblicare qualche singolo decisamente più pop rispetto alle mie canzoni pre-New York. Ma avevo l’impressione di non riuscire comunque, nonostante la musica più semplice rispetto a quella del primo album, a comunicare davvero con il mio pubblico. Un giorno, seduto su un molo, mi sono chiesto che cosa unisse i grandi cantautori ai loro ascoltatori e mi è parso subito chiaro: la sincerità. «Devo raccontarmi», mi sono detto, «o nessuno saprà mai il senso vero della mia musica». Nella testa mi si è formulato spontaneamente il primo verso, già in musica, di Sono fatto così: «Non ti ho mai detto chi sono». E da lì ho solo seguito il mio discorso, parlando a un ipotetico ascoltatore, per poi proseguirlo negli altri nove brani dell’album.


 

Helle a Musicultura: «Scrivo per non sentirmi sola, pubblico per essere amica di qualcuno»

“Ho percorso tutte le strade del mondo, poi ti ho trovato all’ultima curva”: canta così Helle nel suo brano Lisou, pezzo che presenterà al concerto dei 18 finalisti di Musicultura 2024. Effettivamente, di strade ne ha percorse parecchie, riuscendo a trovare una sua dimensione artistica: la scrittura che diventa condivisione, la libertà che prescinde dalle aspettative, il connubio tra poesia e musica. Ecco come si racconta alla redazione “Sciuscià”.

Per te non è la prima volta Musicultura: hai già preso parte alle Audizioni Live della scorsa edizione. Cosa è cambiato da allora e cosa ti ha spinto nuovamente a partecipare?

L’esperienza di per sé è meravigliosa, non ci ho messo molto a desiderare di parteciparvi ancora. Quest’anno ho portato un genere diverso, più consono, forse, alla mia esperienza artistica. Sono infinitamente grata che abbia incontrato un maggiore riscontro.

Lisou è il brano che ti ha portata a essere tra i finalisti di questa edizione del Festival. E sempre a proposito di Audizioni, proprio in quell’occasione hai dichiarato quanto sia a volte difficile proporlo al pubblico per via della dimensione privata, e anche di sofferenza, a cui fa riferimento. Come riesci a scrivere del tuo dolore? E come vivi, poi, la sua condivisione in musica?

La condivisione è un momento di gioia, di giustizia, per così dire. Scrivo per non sentirmi sola, pubblico per essere amica di qualcuno. Quando accade, ne sono estremamente felice.

Lo scorso maggio è uscito il tuo ultimo album, La liberazione, col quale – in chiave folk e con un linguaggio semplice ma deciso – ti fai portavoce della necessità di un ritorno allistinto e alla libertà primordiali. Ti fidi sempre del tuo istinto? E in cosa ti senti, e non ti senti, libera?

Non mi fido per niente! È per quello che poi, quando lo ascolto, diventa liberatorio, ci si lascia un po’ andare. Abbiamo tante redini – talvolta necessarie – che ci costringono in luoghi a volte anche angusti. Mi sento libera quando non provo colpe, o aspettative.

Di recente hai pubblicato anche una raccolta poetica, Carovane. Ci racconti di questa esperienza e del fil rouge che, nella tua vita, collega queste due forme d’arte, la musica e la poesia?

Non c’è un confine esatto, da un punto di vista poetico: le due forme d’arte si uniscono e confondono. L’immagine è ciò che lega ciò che faccio, è il motore pulsante della mia scrittura, per così dire.

Siamo nel contesto giusto, salutiamoci facendo appello proprio alla musica: ti va di chiudere quest’intervista citando il frammento di un brano (italiano) al quale sei particolarmente legata e spiegandoci il perché della tua scelta? 

“Ho percorso tutte le strade del mondo, poi ti ho trovato all’ultima curva”.

Cercate sempre la felicità, credeteci, camminate finché non avete visto ogni angolo del vostro animo. E datevi del tempo.


 

«Alec Temple se ne frega, guarda il cielo» e canta la sua “Cenere”

“Solo le briciole e un sole che non scalda più”: ecco un estratto di Cenere, brano con cui Alec Temple è alle finali di Musicultura 2024. Nelle risposte che dà a questa intervista, però, sembra che il sole ancora scaldi molto e che le briciole diventino sempre più numerose, fino a poter sfamare. L’incontro con Michela Murgia, Cremona e il resto del mondo, sogni e desideri, la sinergia dei suoi processi creativi: ecco come si racconta l’artista alla redazione “Sciuscià”.

Sul palco delle Audizioni Live hai spiegato che il tuo nome d’arte nasce dall’ascolto di un podcast di Michela Murgia, che hai avuto l’occasione di incontrare. In che circostanza vi siete conosciuti e in cosa ti ha ispirato?

Era in visita a Bologna in occasione di un festival quando ancora studiavo lì. Sono sempre stato un suo grande ammiratore, così le scrissi su Instagram se avesse voglia di prendersi un caffè con me. Mi ha invitato a fare colazione e ci siamo ritrovati a costruire mondi. A lei devo molto, al di là dell’ispirazione per il mio nome d’arte. Sento che mi guida ancora in mezzo alle domande di tutti i giorni e mi ricorda la bellezza della complessità. È in tutta la mia musica, come tutte le persone speciali della mia vita.

Vieni da Cremona, la città più inquinata d’Europa, come leggiamo nella tua biografia: quanto ha influito questo scenario nella tua produzione artistica?

Cremona per me rappresenta un grande paradosso. Mi manca quando ci sto lontano e inizio a odiarla quando ci rimango per più di tre giorni. Il luogo dove nasci ti contamina, e non puoi levartelo di dosso. E a volte, al di là del primato reale per la scarsa qualità dell’aria, questo luogo ti inquina l’anima, ti rallenta, ti priva di una visione d’insieme. Solo andando via da lì ho capito che, in fondo, ha anche un carattere buono e protettivo. La mia musica nasce lì, nello studio del mio producer VAGO XVII, e se l’ispirazione è anche una questione di geografia, lì ce n’è tanta.

Nel brano Cenere, selezionato per il concerto dei finalisti di Musicultura 2024, racconti del dolore vissuto da una tua cara amica. Pensi che la musica sia un canale efficace per empatizzare con le emozioni altrui? Come sei riuscito a trovare le parole giuste per raccontare qualcosa che non ti ha toccato in prima persona?

Penso che la musica sia semplicemente uno dei tanti linguaggi per entrare in contatto con la propria profondità e con quella degli altri. Quando vedo la gioia, la tristezza, la noia dentro di me o negli occhi di qualcuno, il mio cervello inizia subito a sintetizzare le informazioni emotive in una melodia, in una strofa. In questo caso ho visto un’impotenza e una disperazione che mi hanno letteralmente trafitto. Così è arrivata Cenere; volevo un brano osseo, una produzione essenziale, che lasciasse spazio al grido della voce.

Passiamo, invece, ai brani autobiografici e al loro processo di scrittura. Come traduci in musica le tue esperienze personali, le tue emozioni, la tua storia?

Quando il ragazzo di turno mi lascia, il mio produttore VAGO XVII si strofina le mani e mi aspetta in studio. Scherzi a parte, da tre anni a questa parte le canzoni sono diventate il mio diario di bordo, una linea del tempo con tutti i momenti salienti di quello che vivo. Il processo creativo solitamente è sinergico: le parole arrivano insieme ai primi accordi, ai primi suoni; vedo le mie canzoni come esseri viventi che crescono piano, ricordi che diventano via via più vividi.

Hai definito la tua anima come priva di doveri e custode di tutti i tuoi sogni; quali sono questi sogni? 

Alec Temple non è solo il mio nome d’arte; è anche tutto ciò che voglio essere. Alessandro è una persona che si sente in colpa se a fine giornata non ha fatto abbastanza, è la parte di me che ascolta la mamma quando dice che una sedia calda in ufficio bisogna tenersela stretta. Alec Temple se ne frega, guarda il cielo, fa quello che vuole, sogna di poter passare più tempo possibile sul palco. È l’alter ego che mi ha salvato dalla monotonia; per questo, ora, sento di volermi prendere cura di lui e farlo cantare più forte che mai.


 

«Musica, testo e nient’altro»: Nico Arezzo si racconta così

Nato a Modica ma adottato dai portici di Bologna, con un passato da tutto-fare per palchi e concerti di altri, si fa conoscere al Festival Show all’arena di Verona e nell’edizione 2017 di X-Factor. Ora, Nico Arezzo è tra i finalisti di Musicutura 2024, che affronta – svela – come una nuova possibilità di presentarsi al pubblico, ma con una diversa consapevolezza. Il pezzo selezionato dalla giuria del Festival, Nicareddu, racconta in maniera fiabesca della sua Sicilia, anche perché – spiega in quest’intervista rilasciata alla redazione “Sciuscià” – le sue storie sono pensieri che ha scelto di non lasciar scivolare. E una casa è difficile da lasciar andare.

Nel 2017 hai vinto il Festival Show all’Arena di Verona; nello stesso anno hai anche partecipato a X-Factor. Come sei cambiato nel lasso di tempo che porta a oggi e come stai vivendo l’esperienza di Musicultura? Cosa rappresenta questo festival nel tuo percorso?

Sono passati sette anni, sono state esperienze incredibili ma che ho vissuto da diciottenne. In tutti questi anni sono inevitabilmente cresciuto, musicalmente e testualmente ho cercato di modellare un qualcosa che non aveva una forma. Non saprei dirti che forma abbia ma è qualcosa che riconosco come mia. Musicultura, al di fuori del pregio, è importante per me. Riesce a darmi di nuovo la possibilità di presentarmi ma con una consapevolezza diversa; oltre a essere un’esperienza divertente, è un palco che dà peso alla musica e al testo, senza andare a sporcarli con tante cose che distraggono. Musica e testo e nient’altro sono esattamente le cose su cui cerco di lavorare da anni e sono contento di fare parte di un evento che capisca questa esigenza e dia la possibilità di spiegare, o quantomeno provare a farlo, ciò che piano piano cerchiamo di modellare.

Alle Audizioni Live hai accompagnato la tua voce solo con una chitarra. Ti esibisci sempre così o ci sono contesti in cui scegli una dimensione un po’ meno intima?

Ho un brano nel mio album, che uscirà a breve, che inizia con una chitarra classica e delle voci leggere e finisce con una band emo-punk. Amo i contesti intimi, mi permettono di trasformare anche posti grandi nel salotto di casa. Fino a oggi li ho sempre cercati e continuo a portarli avanti, ma adesso, parallelamente, presento al pubblico un progetto nuovo e diverso, con la mia band, per permettermi di far ascoltare l’album in modo completo.

Rimaniamo ancora un attimo sul palco delle Audizioni. È lì che hai spiegato che Nicareddu, il brano con cui Musicultura ti ha selezionato tra i suoi finalisti, parla delle tue origini e del tuo percorso. Ecco, le tue origini, appunto: cos’è per te la Sicilia?

È casa.

L’altro pezzo che hai presentato al Festival è Spazzolino, col quale racconti come un oggetto d’uso quotidiano possa trasformarsi in input per un cambiamento significativo. Ti fermi molto a pensare ai cambiamenti che avvengono intorno a te? Quanto sono importanti nel tuo processo di scrittura?

Ne parlavo recentemente con un’amica. Credo che se si facesse caso alle cose che succedono attorno, ai pensieri strani che si fanno durante le giornate, ognuno avrebbe delle storie incredibili da raccontare. Il problema è che spesso scivolano. Non mi fermo molto a pensare ai cambiamenti, ma quando in modo assolutamente naturale arrivano me ne accorgo e li fermo in musica e testo. I miei testi, le mie storie sono pensieri che ho scelto di non lasciar scivolare.

Sei molto attivo sui social, che utilizzi in modo divertente, per esempio coinvolgendo chi ti segue nella creazione di qualche base musicale. Riesci quindi a rendere il tuo pubblico partecipativo anche in un contesto lontano dal palco, perché il pubblico per te è…

Non mi piacciono i social, ma ho la fortuna di avere un pubblico mediatico incredibile, divertente e presente. Mi fa venire voglia di progettare e pubblicare sempre idee nuove perché so che avrò una sua risposta sia sui social, sia sotto il palco. È il motivo per cui continuo a fare ciò che faccio.


 

“Va tutto bene” per Bianca Frau: «Con le mie canzoni mi metto a nudo»

Giovane cantautrice, classe ’94, con la sua terra d’origine – la Sardegna – sempre nel cuore, Bianca Frau non ha paura di affrontare nuove esperienze, nuove città e progetti musicali che la facciano crescere e migliorare. Del resto, “Scrivere canzoni mi dà la possibilità di esprimere quello che di più intimo c’è in me, senza nascondermi dietro false parole”, svela in questa intervista rilasciata alla nostra redazione.

Bianca Frau, artista sarda trapiantata a Bruxelles: quanto della tua terra d’origine c’è nelle tue canzoni e cosa ha significato allontanarsene e volgere lo sguardo verso una realtà completamente diversa?

Attualmente, in questo progetto che sto sviluppando in collaborazione con il produttore francese Jean Prat, l’unica cosa che potrete avvertire sulle le mie origini sarde è la mia voce. Ho deciso di partire per pura curiosità e con la voglia di crescere e apprendere tutto quello che l’opportunità di vivere all’estero può offrire. La Sardegna è sempre nel mio cuore, ma per ora ho messo da parte i progetti musicali che riguardavano la mia terra per concentrarmi a pieno su questa nuova esperienza.

Cosa resta è uno dei due pezzi in cui ti sei esibita durante le Audizioni Live di Musicultura. Il suo testo recita: “Forse è più semplice cantare il mio stato mentale che doverti dire parole, frasi disconnesse, senza senso, perdo il perché”. In un mondo in cui è sempre più difficile dare voce ai propri pensieri, soprattutto a quelli più intimi, quanto è importante per te riuscire a esprimerti? E quanto lo è evitando di perdere il perché?

Penso che poter esprimere i miei pensieri e le mie emozioni sia un bisogno vitale che a volte è censurato a seconda dell’interlocutore che ho davanti. Scrivere canzoni mi dà la possibilità di esprimere quello che di più intimo c’è in me, senza nascondermi dietro false parole perdendo, appunto, il “perché”. In quel momento il solo interlocutore sono io. Quando faccio ascoltare i miei pezzi, mi metto a nudo con la speranza che tutto ciò possa scatenare conforto, empatia e solidarietà collettiva.

Il brano che Musicultura ha scelto selezionandoti tra i finalisti della sua XXXV edizione, invece, è Va tutto bene, titolo che, a guardarlo ora, suona un po’ come un buon auspicio, visto che ti ha consentito di proseguire il tuo percorso al Festival.  Ecco, cos’è che ti porta, nella quotidianità, a dire che va tutto bene?  Cosa, per te, ha il sapore rasserenante di un buon auspicio?

Dico sempre che va tutto bene semplicemente per il timore di far pesare i miei problemi sugli altri. È più facile dire che va tutto bene piuttosto che dover spiegare cosa sta succedendo nella nostra vita. Tante volte ce ne convinciamo, trasformando il convenevole in un buon auspicio per noi stessi. 

Nel 2019 hai conseguito il diploma di primo livello in Canto jazz al Conservatorio di Sassari. Quanto questo genere musicale influenza la tua produzione artistica? Cosa pensi ci sia di jazz, inteso anche come emblema di improvvisazione, nei tuoi brani?

Il jazz influenza le mie composizioni più sul piano armonico e in termini di arrangiamento. Sicuramente c’è sempre qualche cellula melodica o ritmica che può far pensare al jazz, ma non è fatto consapevolmente. A livello melodico e strutturale rimango legata alla forma pop, che ho sempre amato anche durante la mia formazione jazz.

Torniamo a oggi; torniamo a Musicultura e salutiamoci così: dicci perché hai scelto di fare questa esperienza e cosa si prova a leggere il proprio nome tra quello dei 18 finalisti.

Ho scelto di fare questa esperienza per mettermi sicuramente alla prova e rimpiango di non averlo fatto prima, in quanto le audizioni hanno fatto riaccendere in me un fuoco che forse si era spento da tempo. Quando mi è stato detto che ero tra i 18 finalisti è stato molto emozionante.


 

Con Sandro Barosi in viaggio verso “Venezia di sera”

Un luogo è un insieme di persone e ricordi, azioni e sentimenti; condiziona la vita quotidiana, lascia tracce indelebili in chi lo vive. Lo sa bene Sandro Barosi: con i due brani presentati alle Audizioni Live di Musicultura ha voluto raccontarci proprio della sua città natale, Cremona, e di quella d’adozione, Venezia. La sua è una carriera intrapresa da appena qualche anno: è del 2021 la collaborazione con i fratelli Giacomo e Tommaso Ruggeri, musicisti e produttori cremonesi, dalla quale prende piede un progetto solista ora arricchito dall’uscita del singolo Un re, interamente autoprodotto, anticipazione del prossimo EP. Come da lui stesso ammesso, Musicultura è la sua “data zero”, un’occasione unica per farsi conoscere e far conoscere la sua musica attraverso il brano che è stato selezionato dalla giuria del Festival, Venezia di sera. Questa la sua intervista rilasciata alla redazione “Sciuscià”.

Partiamo così, a bruciapelo: cosa rappresenta per te un’esperienza come quella di Musicultura?

Musicultura per me è un inizio, una gigantesca data zero in cui presento per la prima volta il progetto più recente, rappresentato in questo caso da Venezia di Sera.

Ascoltando le tue canzoni e leggendone i testi sembrerebbe che il tuo percorso di scrittura parta dalle immagini. Qual è il tuo processo creativo? Cerchi di racchiudere in queste immagini esperienze ed emozioni passate o ti lasci ispirare da ciò che vedi?

Penso che ogni canzone nasca in modo un po’ unico. In una potrei lasciarmi suggestionare da una serie di immagini, mentre in un’altra magari cerco di raccontare un’esperienza in modo più ordinato, partendo da situazioni che mi sono accadute. Calvatown, il secondo brano che ho presentato alle Audizioni Live, può essere un buon esempio del primo caso, mentre Venezia di sera, il pezzo poi scelto dalla giuria del Festival, del secondo.

Ecco, appunto: il brano selezionato dalla giuria di Musicultura è Venezia di sera. È un pezzo intimo che con malinconia racconta di una persona ormai lontana. Quanto è importante per te la nostalgia? È qualcosa di negativo o positivo?

Diciamo che il valore del ricordo è potente sia in negativo che in positivo e, in questa canzone, ho cercato di sfruttare questo suo potere evocativo. Di certo il tono nostalgico lascia più che altro intendere una situazione di sofferenza per una storia finita. In ogni caso, per rispondere alla domanda, sono un tipo decisamente nostalgico. Di solito penso al passato con gli occhi tristi di chi vorrebbe tornare indietro a cambiare qualcosa o a riviverlo esattamente allo stesso modo, sempre con una punta di rimpianto.

Calvatown, l’altra canzone che hai presentato al Festival, è il divertente racconto di una provincia fatta di personaggi caratteristici che riesci a dipingere con ironia: è il racconto della tua Cremona. Cosa ti porti dentro della tua città?

Il mio paese è diventato nel tempo un mostro a due facce. Una che ti respinge e ti dice che se cerchi qualcosa sicuramente non la troverai lì tra le solite quattro strade, tra i soliti volti. L’altra che ti fa sentire la sua mancanza quando sei lontano perché, volente o nolente, sarà sempre casa. È stato il mio tentativo di descrivere questa sua attrazione dolce e minacciosa allo stesso tempo, che ti respinge e poi improvvisamente ti ritrovi intrappolato al suo interno e quasi ti piace.

A Macerata, in occasione delle Audizioni Live, ti abbiamo visto esibirti con la tua band in una performance caratterizzata da un affiatamento musicale notevole. Quanto incidono le persone che suonano con te nella tua proposta artistica?  

Due dei musicisti che suonano con me, Giaco e Tommy, sono anche i miei produttori. Le mie canzoni sono le loro canzoni e io ora non starei facendo quello che faccio se non avessero creduto in me. Quindi è presto detto quanto per me sia fondamentale la loro presenza sul palco. Anto, il bassista, è un loro amico d’infanzia che suona con loro da una vita e non potrei essere più felice che sia salito a bordo del vascello. Penso che siamo davvero una squadra fortissima.


 

E adesso sono “Guai”: i The Snookers tra i finalisti del Festival

Anita e Federico sono giovanissimi, eppure – con il loro disco di esordio, L’universo si arrende a chi è calmo, un concerto di apertura ai Marlene Kuntz e un tour in alcuni importanti locali del nord Italia – hanno già dimostrato di avere qualcosa da dire e soprattutto da suonare, aggiudicandosi un posto tra i finalisti di Musicultura con il brano Guai. Lui è riflessivo e meticoloso; lei precipitosa e impulsiva. Si conoscono nei corridoi di scuola e capiscono subito di avere un desiderio comune: fare musica. Nasce così un sodalizio artistico che porta il nome di The Snookers e che li spinge a chiudersi in studio per sperimentare, ascoltare, registrare, trovare un’identità che ora è tutta racchiusa nel primo disco.  «Mi annoia la gente tranquilla, io la voglio vedere urlare», scrivono in Rabbia, brano manifesto di questo lavoro, inno (o meglio, grido) che invita a combattere la passività, a non nascondere le proprie emozioni e reazioni, sia quelle più intime che quelle più esplosive: lo hanno spiegato, partendo dalla genesi del loro progetto, in questa intervista alla redazione di “Sciuscià”.

Fare musica insieme significa anche condividere idee, emozioni, progetti, valori. Come vi siete conosciuti e come avete capito che il vostro rapporto poteva funzionare anche artisticamente? C’è qualcosa in cui vi somigliate e qualcosa in cui, invece, siete complementari?

Ci siamo conosciuti nel 2018, quando suonavamo a degli eventi organizzati dal nostro liceo. Confrontandoci abbiamo capito di avere molto in comune, sia per quanto riguarda la musica che la vita in generale: grazie a questa sintonia è nato il progetto The Snookers. Avere dei gusti musicali simili, almeno secondo noi, non è una prerogativa strettamente necessaria per fare musica insieme; quello che è fondamentale – e che nel nostro caso ci accomuna particolarmente – è la visione globale della musica: come ci piace trattarla, dove prendere ispirazione, l’intento comunicativo.

Passando agli aspetti caratteriali, crediamo che a dare completezza al duo siano le nostre differenze: Federico ha una forte disciplina, è un ascoltatore accanito e solitamente lascia poche cose al caso nel processo creativo; Anita, invece, è molto istintiva, prende le cose di pancia e si lascia andare, trasportata da ciò che sente in ogni momento. Crediamo che questa combinazione di razionalità e irrazionalità sia la nostra forza.

Sul palco delle Audizioni Live di Musicultura avete dichiarato di essere delle persone abbastanza riservate e nella vostra biografia si legge che inizialmente scrivevate pezzi in inglese. Era un modo per “camuffare” le vostre emozioni, cercando di trattenerle in una dimensione più privata?

Abbiamo cominciato scrivendo in inglese perché gli artisti che ascoltavamo in quegli anni erano per la maggior parte americani o inglesi; in quel momento non credevamo che la lingua fosse uno schermo tra noi e gli ascoltatori.  Nel passaggio alla scrittura in italiano ci siamo accorti, però, di quanto sia difficile mettersi a nudo ed essere compresi fino in fondo: scrivere nella propria lingua permette di arrivare al nocciolo delle questioni e a volte, soprattutto se non si tratta di argomenti semplici, è complicato accettare che chiunque le possa capire ed esserne partecipe ascoltando una nostra canzone; pensandoci, crediamo di esserci accorti che l’inglese fosse una sorta di “maschera” solo a posteriori.

L’universo si arrende a chi è calmo è il vostro primo album e i nove brani che lo compongono spaziano tra sonorità diverse: dal rock al pop, dall’indie all’elettronica, fino ad arrivare a qualche accenno di rap. Quali sono i riferimenti musicali di un progetto così ricco e composito?

L’universo si arrende a chi è calmo è un insieme di canzoni scritte in anni diversi, segnati dalla sperimentazione sonora e da un ascolto abbastanza vario, nel tentativo di trovare la nostra identità. Attualmente stiamo ancora lavorando per affinare il nostro genere e il nostro suono. Il primo disco non è niente di più che la sintesi del nostro modo di vivere la musica di quel momento: appena abbiamo avuto l’occasione di frequentare uno studio di registrazione, ci siamo messi alla prova con tanti generi musicali e canali d’espressione per trovare ciò che più ci apparteneva e rappresentava. Abbiamo fatto di questo processo un disco.

Dai vostri testi traspare un rapporto altalenante con la calma: per voi, è sinonimo di equilibrio o di indolenza?

La calma è un tratto che reputiamo sicuramente forte, solitamente è una qualità di persone sicure e lucide. Nonostante questo, quando la situazione lo richiede, crediamo sia giusto anche seguire i propri istinti. A tal proposito, il ritornello del brano Rabbia si apre con la frase «L’universo si arrende a chi è calmo, ma poi muoiono tutti»; ciò che vogliamo comunicare è che la calma è senza dubbio una virtù, ma bisogna stare attenti a non trasformarla in passività, rischiando di essere calpestati: il messaggio che vogliamo trasmettere è semplicemente quello di farsi sentire e rispettare sempre.

‹‹Ma sei convinto che in qualche modo arriverai dove neanche sai ma dove ti spetta››, leggiamo dal testo di Guai, brano selezionato per il concerto finalisti.  A che punto del vostro percorso sentite di essere arrivati e cosa vi aspettate dall’esperienza di Musicultura?

Avere a che fare con la musica è una soddisfazione e una gioia a tutti i livelli: dalle prime demo in cameretta fino a Musicultura. Ovviamente, nel tempo abbiamo acquisito più esperienza, ma ogni giorno ripartiamo da zero con la stessa voglia di imparare e crescere.  A questo punto del nostro percorso ci sentiamo gli stessi che eravamo all’inizio, da una parte arricchiti dalle esperienze che si sono aggiunte negli anni, dall’altra proiettati verso nuove cose da fare.


 

Sotto “Il cielo” di Eugenio Sournia, «La sofferenza può portare alla bellezza»

“Quello che mi addolora è quando non mi sento in armonia”: recita così un pezzo de Il Cielo, canzone con cui Eugenio Sournia si è aggiudicato un posto tra i 18 finalisti di Musicultura 2024. Ma di armonia nelle risposte che ha dato a questa intervista sembra essercene molta. E pure di bellezza, che è principio da cui (ri)partire. Tra esperienze passate e stranezze adolescenziali, il passaggio da una band a un progetto da solista, le sfide presenti e la musica che porta all’accettazione di sé, questo il racconto che l’artista fa di sé alla redazione di Sciuscià.

Proviamo a cominciare collegando passato e presente: hai poco più di trent’anni, ma hai iniziato a scrivere canzoni sin da giovanissimo, quand’eri ancora un adolescente. C’è ancora qualcosa – nei testi, nelle scelte lessicali, nell’approccio alla scrittura, nelle sonorità – dell’Eugenio Sournia di allora?

C’è paradossalmente più dell’Eugenio di allora adesso che qualche anno fa. Negli anni tra i miei venti e i miei trenta ho cercato progressivamente di limare tutte quelle parti della mia scrittura che potessero risultare fuori luogo in una proposta pop; il risultato è stato che con il passare del tempo ho finito per perdere qualcosa anche della mia essenza, nel tentativo di arrivare a tutti. La pandemia è stata per me l’occasione per accorgermi di questo e cercare di ripartire; una sorta di nuovo inizio nel quale ho dovuto riallacciare il filo con il me adolescente e incontaminato, ma con le inevitabili differenze dovute all’essere un uomo di trent’anni. Mi sono accorto che da ragazzo scrivevo in maniera molto aulica e ampollosa; certo era un modo per mettersi una maschera, ma credo ci fosse da apprezzare la notevole noncuranza con cui cercavo di fare una cosa bella a prescindere da ogni risvolto commerciale che la mia musica potesse avere: direi che riparto da questo principio.

Veniamo a oggi: proponi la tua musica da solista dopo esser stato frontman di una band indie-rock. Com’è approcciare “in solitaria” al palco, più nello specifico al palco di Musicultura?

Quando si è alle prime armi il rumore e la compagnia sono i migliori alleati. Nei primi anni ’10 suonare in un gruppo era molto più comune, e penso che sia senz’altro più semplice trovare il coraggio di salire su un palco se accompagnati da altre persone che, tendenzialmente, fanno “casino” e coprono con il caos eventuali errori. Salire sul palco in un set più intimo — nel mio caso, con un violinista — è senza dubbio una sfida, ma con l’abitudine ci si rende conto di quanto lo spazio e il silenzio che si creano sulla scena in questo modo possano essere un’opportunità e non un limite. È come se ogni gesto, ogni parola, ogni nota, acquisissero ancora più gravità e significato, e questo mi spaventa ma mi elettrizza. Il palco di Musicultura, dotato di una sua solennità, non ha fatto altro che amplificare questa sensazione.

Il brano Il cielo è quello scelto appunto da Musicultura per questa tua esperienza tra i finalisti del Festival. È una storia di dolore, di emarginazione; è anche una richiesta d’aiuto: “Accetta un po’ di me”, recita a un certo punto. Che ruolo può avere la musica, sia per chi la fa che per chi la ascolta, nell’ambito di un percorso di accettazione di sé?

Quando ero adolescente avevo molte stranezze, ma non stranezze “cool”. Arrivai al liceo che andavo alla Messa in latino, mi vestiva mia madre e la mia idea di sabato pomeriggio era leggere libri sulle grandi battaglie dell’impero bizantino. Quando a sedici anni scoprii la musica rock, mi dette una scusa per prendere le mie bizzarrie e farne un punto di forza: credo sia una storia comune a molti, anche se le mie, di stranezze, erano particolarmente fuori moda. Con gli anni quella storia, la mia, l’ho imparata a memoria e l’ho narrata un po’ in tutte le salse; credo sia arrivato il momento per me di staccarmi da me stesso e provare a scrivere di altro e di altri, per non cadere nella ripetizione ma anche perché mi sono anche un po’ stancato del personaggio che ho creato per me medesimo.

Durante le Audizioni Live, intervistato dalla giuria del Festival, hai posto l’accento sul tema della salute mentale, sull’importanza di non trascurarla, sulla necessità di affrontarla, di raccontarla. E di nuovo la musica sembra giocare un ruolo fondamentale, quasi come fosse un megafono per amplificare argomenti di cui spesso si parla ancora a bassa voce…

Credo che l’anima vada nutrita allo stesso modo in cui si nutre il corpo. La musica può essere una fonte di bellezza senza pari, perché ha dalla sua l’unione di un contenuto descrittivo, narrativo — le parole — e di una parte per sua natura ineffabile come la melodia. Il mondo moderno sembra invece progettato per renderci difficile accedere alla bellezza, non tanto perché essa non sia raggiungibile, ma perché siamo bombardati costantemente del suo opposto. La bellezza per sua natura ha bisogno di silenzio, ciò che è sempre più difficile ottenere, specialmente a livello interiore. Trovo che la musica possa fare molto proprio, paradossalmente, per permetterci di ottenere questo silenzio, e di conservarlo.

Il tuo nuovo EP si intitola Eugenio Sournia. Perché la scelta di dargli il tuo nome? È uno specchio, una confessione, un racconto così privato da rendere impossibile l’impresa di scinderlo da chi lo ha scritto?

A dire la verità avrei voluto chiamare questa raccolta di canzoni Il dolore è una porta, come uno dei pezzi che la compongono; tuttavia, credo che il tema della sofferenza e di come essa possa essere usata per raggiungere la bellezza sia già di per sé evidente. Intitolare il disco Eugenio Sournia, metterci del tutto la faccia, penso possa essere un modo per far vedere che si tratta di qualcosa di estremamente sincero. Spesso la sincerità è la qualità minima che si riconosce a lavori che non hanno altri pregi, ma per me era davvero il fondamento da cui ripartire; ognuno di questi brani segna un punto centrale nel mio pensiero, e Il cielo ne rappresenta forse la parte più arresa, in cui tutte le difese cadono e ci si presenta all’altro in tutta la propria nudità.


 

Eda Marì si racconta: «Voglio far sapere a tutti che ho troppa voglia di amare»

Classe 1994, originaria di San Lucido (Cosenza), Eda Marì – all’anagrafe Edda Maria Sessa – nasce circondata dalla musica; prima ballata, poi pensata, scritta, cantata, condivisa. Muove i primi passi artistici nella scuola di danza della madre, luogo che diventa ispirazione e scintilla per il suo progetto musicale, fino ad arrivare sul palco di X-Factor e alla pubblicazione del suo primo EP, Freevolo. Parla della musica come di un’occasione per scoprirsi e conoscersi; infatti, non smette di sperimentare e spingere la sua voce verso nuovi scenari e canali di espressione, approdando a Musicultura con un progetto inedito. Miscelando i due dialetti legati alle sue origini, quello calabrese e quello campano, e con il cuore e gli occhi sempre pieni della bellezza della sua terra e del suo mare, il brano Tossic – con cui ottiene un posto tra i finalisti del Festival – parla della purezza delle emozioni, sincere, vive, a volte contraddittorie e dolorose ma finalmente spogliate da ogni orgoglio; parla del coraggio, della speranza, dell’intraprendenza di una giovane donna che non ha paura di farsi male ancora, di amare e di “murmuriare”. Con la stessa sincerità, ha parlato del suo progetto in quest’intervista alla redazione di “Sciuscià”.

Ripartiamo dalle Audizioni Live: sul palco di Musicultura ti sei presentata commossa ed emozionata, quasi in punta di piedi; non appena hai iniziato a cantare, però, sono venute fuori tutta la tua forza e tutta la tua determinazione. La musica è una dimensione che ti aiuta ad acquisire sicurezza?

È una dimensione che mi aiuta a lavorare, in generale, su me stessa: è grazie alla musica che imparo a conoscermi, perdermi, ritrovarmi. Quindi, sì, mi aiuta anche ad acquisire sicurezza.

Sempre in occasione delle Audizioni Live, ad accompagnare le tue canzoni è stata la performance di una ballerina, tua sorella Gaia. Che ruolo e che rapporto hanno, nella tua vita, la musica e la danza? Quanta energia riesce a trasmetterti chi balla vicino a te durante le esibizioni, nel caso specifico una persona così cara?

Nella mia vita, la musica e la danza hanno un ruolo centrale e fondamentale: le considero una cosa unica, vivono in simbiosi dentro di me. Ho avuto la fortuna di nascere e crescere in una sala, quella della scuola di danza di mia madre, tra il suono delle punte, l’odore della pece, corpi che danzano e anime che creano. Osservando e nutrendomi di danza, ho iniziato a scrivere la mia musica anche ispirandomi ai movimenti del corpo o ad alcuni passi di danza codificati, proprio per fondere questi due mondi e dare il massimo che posso. Per questo motivo, avere delle ballerine accanto durante i live mi fa sentire forte e completa; è un po’ come se la mano di mia madre fosse sempre con me su ogni palco. Nello specifico, quando a ballare vicino a me è mia sorella, ho la sensazione di danzare anch’io con lei. Lei il mio corpo, io la sua voce: è sempre stato così tra di noi e spero lo sarà per sempre.

Nel brano selezionato da Musicultura, Tossic, la scrittura è arricchita da inserti dialettali, campani e calabresi. Da dove nasce la necessità di cercare un linguaggio differente per veicolare la tua arte?

Questa necessità nasce dalla voglia di voler comunicare emozioni e sensazioni che, spesso, solo attraverso il dialetto riesci a esprimere. Facendo questo mix dei dialetti legati alle mie origini, mi sento libera: sono davvero io.

Rimaniamo su Tossic. Il testo parla di una relazione complicata, tossica appunto; a raccontarsi è una giovane donna che, dopo aver esaurito tutte le sue energie, se ne distacca, ferita ma ancora capace di amare. È una giusta interpretazione? Come nasce questa canzone?

Sì, è una giusta interpretazione: ho provato a descrivere tutto questo. Tossic nasce dall’esigenza di voler far sapere a tutti che io ho troppa voglia d’amare. Ho scritto questo brano in un periodo strano ma bello della mia vita, in un momento di ricerca e voglia di risposte, pensando all’importanza che hanno per me la mia bellissima terra, l’amore per le mie origini e l’amore in generale. Ho provato a esprimere tutto questo paragonandomi proprio a San Lucido, il mio piccolo paese di provincia che d’estate vive, è in festa ed è amato da tante persone, ma d’inverno rimane solo, al freddo e in silenzio, quasi ad aspettare quell’amore estivo per ritrovare calore. Dopo una notte d’estate e un amore fugace nasce Tossic, che per me non è semplicemente una canzone: è davvero la mia voglia d’amore, d’amare e di dare tutto, anche se poi fa male; Tossic è la mia paura ma la mia voglia, la mia condanna ma la mia speranza, la mia follia ma la mia forza; è un lamento, una richiesta d’aiuto, una protesta! Se nella vita ti capita una cosa bella come l’amore- o come il mare- bisogna averne cura e non trascurarla, rischiando di rovinare tutto, come ho fatto io con me stessa e come ha fatto qualcuno con le navi piene di rifiuti tossici. Le persone devono amare e le navi devono navigare; l’amore esiste e io non smetterò mai di “murmuriare”.

Sappiamo che stai lavorando a nuovi progetti musicali. Ti va di darcene una piccola anticipazione?

Posso solo dire che nel mio nuovo progetto musicale sto dando tutta me stessa: mi sto liberando, appunto, con questo “nuovo” linguaggio e sto amando tutto, sto amando da morire.