Roberto Colombo, la storia dell’elettronica italiana

È uno dei padri della musica elettronica italiana, ma anche un costruttore silenzioso di mondi sonori. Tra rigore classico e sperimentazione radicale ha saputo fondere industria e arte. Pianista di formazione, arrangiatore e avanguardista dell’elettronica, Roberto Colombo non ha mai cercato i riflettori, ma ha lasciato orme indelebili ovunque, dai jingle pubblicitari alle colonne sonore della televisione. Cresciuto nella Milano degli anni ’60, quando la musica si ascoltava chiacchierando nei locali, è stato in grado di cogliere lo spirito dell’evoluzione tecnologica, con sguardo sempre rivolto al futuro. La sua forza è stata la capacità di elevare strumenti di nicchia – come il Moog e il Polymoog – allo stesso livello di un’orchestra da Scala. Il suo approccio all’arte rivela un uomo sempre curioso e mai dogmatico: dove molti vedono un vincolo, lui trova una possibilità creativa. A Musicultura 2025, ospite de La Controra insieme a un altro pilastro del panorama musicale italiano, la moglie Antonella Ruggiero, ripercorre un cammino fatto di studio, intuizione e libertà creativa. E lo fa anche in questa intervista.

Lei è cresciuto a Milano, iniziando la sua carriera come pianista professionista nel 1969, per poi specializzarsi nelle tastiere elettroniche, strumento che all’epoca era ancora di uso poco comune. Ci può raccontare come si è sviluppata la sua passione per la musica e in che modo l’ambiente culturale milanese, unito alle sue esperienze personali, ha influenzato il percorso verso la sperimentazione elettronica?

La passione per la musica è arrivata quando avevo più o meno sei anni. Ho cominciato studiando pianoforte, e poi, verso la fine delle scuole medie, ho formato il primo gruppo. In quegli anni c’era una possibilità di suonare di gran lunga superiore a quella attuale: c’erano tantissimi locali dove potersi esibire, perché non essendoci ancora le discoteche sostanzialmente c’erano solo perfomance dal vivo. Quindi la possibilità di suonare era consistente. Poi negli anni ’70 ho iniziato a lavorare. Essere a Milano è stata una notevole facilitazione nell’approccio alla professione. Ho cominciato negli studi di registrazione, dove mi sono accorto che non c’era ancora un utilizzo vero delle tastiere elettroniche, dei sintetizzatori. Ne ho acquistato uno, poi due, poi tre. E mi sono ritrovato a essere uno dei pochi che aveva strumentazione di qualità, la conosceva e la sapeva usare, per cui venivo chiamato in studio per fare sovrapposizioni, soprattutto su basi già eseguite, con i miei strumenti che erano principalmente Moog, Minimoog e Polymoog.

Nel corso della sua carriera ha firmato musiche e jingle per grandi brand come Coca Cola, Alfa Romeo e Lavazza, ma anche colonne sonore per serie televisive come Beautiful e sigle per notiziari come Studio Aperto. In che modo cambia il suo approccio creativo quando lavora su commissione per media commerciali rispetto alla libertà espressiva di un progetto discografico personale?

Questa è una domanda intelligente. Il lavoro su commissione, secondo me, è quello che mi ha dato maggior soddisfazione. Perché, dopo un approccio iniziale un po’ titubante, nel senso che non mi intendevo molto con le persone che mi commissionavano una musica piuttosto che un’altra, ho capito in breve tempo che riuscire a interpretare i desideri e la volontà di chi gestiva una campagna pubblicitaria, con marchi anche importanti, e riuscire a individuare le loro necessità e portare a compimento un lavoro era, professionalmente, l’aspetto più interessante di tutta la mia attività. Lo stesso vale per le sigle televisive: anche lì c’erano sempre delle richieste abbastanza specifiche.

Negli anni ’80 ha avuto modo di lavorare anche nello storico Stone Castle Studios di Carimate, da cui sono passati molti grandi della musica italiana, come Edoardo Bennato che lì le affidò l’arrangiamento di Specchio delle mie brame. Come è stato lavorare in quell’ambiente così singolare, in un castello frequentato da musicisti di ogni genere?

Era uno degli studi più attrezzati e all’avanguardia in Italia, se non il più all’avanguardia. E anche i tre tecnici del suono, che erano residenti, erano veramente competenti: era un piacere lavorare con loro. C’è da dire che, una volta varcata la soglia di uno studio, trovarti in un castello piuttosto che in un altro ambito non è che cambi nella sostanza. È il prima e il dopo. Durante, sei dentro a uno studio per cui fai il tuo lavoro, indipendentemente dal luogo in cui ti trovi.

Il suo lavoro è da sempre legato alla voce di Antonella Ruggiero, sua compagna anche nella vita, di cui ha prodotto l’intera discografia solista. Insieme avete realizzato il progetto sperimentale Altrevie, in cui ha trasformato la voce originale di sua moglie nel brano Libera in una “lingua altra ed estranea”, attraverso tecniche di reverse. Qual è stata la sfida più affascinante nel fondere la naturale leggerezza della sua voce con tecnologie così radicali?

È stato, diciamo, molto semplice l’approccio. La prima volta l’ho fatto quasi per gioco, prendendo la voce di Antonella e trattandola a reverso, ovvero come si faceva con i nastri negli anni ’60-’70. Ho preso delle porzioni di voce e fatto delle nuove musiche su di esse; Antonella l’ha trovato particolarmente interessante, le è piaciuto moltissimo. E allora ci siamo detti: «Facciamone un disco. Inutile? Facciamolo comunque».


 

Eugenio Finardi, l’autenticità nell’essere sempre diverso

Tra le mura di una casa dove Verdi è religione, la musica rock entra a gamba tesa con un album di Ricky Shane. Artisticamente istruito dalla madre, cantante d’opera e docente di canto, Eugenio Finardi, protagonista della finalissima di Musicultura 2025, racconta in questa intervista la sua fiducia nel rinnovamento come genuinità della propria musica, parla del naturale cambiamento della voce dovuto allo scorrere del tempo con una consapevolezza illuminante, fa riferimento all’unica linea di demarcazione valida: la verità.

La sua interazione con la musica inizia prima ancora della sua interazione col mondo: lei è nato in uno “strumento musicale”, come dice spesso parlando di sua madre. Ma oltre alle inclinazioni uditive, che ruolo ha giocato la figura materna nella sua formazione musicale?

Mia madre era una grande docente, una grande insegnante di canto, quindi vedendola interagire fin da piccolissimo con i suoi allievi ho imparato, anche tecnicamente, tantissimo: sulla voce, sul come modularla, come usarla, come aggirare gli ostacoli. È una cosa che mi è servita poi tantissimo. La fase di studio della voce non finisce mai, perché poi quella voce continua a cambiare, ma quotidianamente si deve riuscire a seguire i propri cambiamenti, adattare le proprie interpretazioni.

Ecco, i cambiamenti, appunto. Come quelli di direzione o quelli dovuti alla sperimentazione di nuovi generi e sound, che spesso vengono etichettati come “tradimenti” da parte di un pubblico ampio, come se il cambio di rotta e il reinventare se stessi fossero quasi atti di ipocrisia. Dove sta, secondo lei, la linea sottile tra il rinnovamento e la forzatura?

Quello è un problema. Secondo me, la linea di demarcazione è la verità. Se uno canta, suona e interpreta la propria visione artistica ha sempre la ragione. Poi, è vero, spesso il pubblico non ama i cambiamenti, vorrebbe che uno rimanesse sempre uguale. Ci sono alcuni personaggi che ci sono riusciti, in maniera addirittura inquietante, a volte:  sono identici a come erano quaranta, cinquant’anni fa. Io penso invece che si debba assecondare la propria crescita, cantare gli anni che si hanno, e quindi anche nella scrittura continuare a crescere. Credo che il cambiamento sia seguire la propria curiosità musicale; il che non semplicemente un atto volontario, ma necessario.

Forse la forzatura è voler rimanere sempre uguali.

Certo, lo dicevo prima: ci sono colleghi che non sono mai cambiati. Da una parte ho una grande ammirazione, dall’altra mi chiedo «Non si stufano?»

Lo dicevamo prima rima: ha avuto un’educazione musicale classica. Ha dichiarato  che, fino all’adolescenza, è rimasto digiuno del resto del panorama musicale. Si ricorda qual è stato il suo primissimo album rock?

Il primo disco rock che ho comprato è Uno dei mods di Ricky Shane, che tu non puoi conoscere ma che la mia generazione si ricorda assolutamente.

Ha sempre scelto di lavorare alla sua musica con “orario d’ufficio”, alla maniera dei Beatles. Quando invece si parla della composizione spesso si ha la costante del lampo di genio che la fa da padrona. Come si è trovato con questa nuovo approccio?

Questa è un’idea comune, però il lampo di genio viene facilmente alla tua età, molto meno alla mia. Alla mia ti vengono dei lampi di consapevolezza, si hanno idee in maniera diversa, di diverso tipo. Il punto è non fermarsi, continuare a cercare, ad accettare le nuove intuizioni.

Musicultura da sempre si propone come spazio dedicato alla canzone d’autore nelle sue forme più originali e spesso meno commerciali. Quanto è importante, oggi, l’esistenza di festival come questo, che danno visibilità anche a proposte musicali più “di nicchia” rispetto al mercato mainstream?

Spazi come questo sono importanti per riuscire a tirare fuori dalla nicchia quella musica.  Adesso è tutto troppo industriale, ogni bit calcolatissimo, in un certo senso prevedibilissimo, no? È prevedibilissima persino la parabola della celebrità che sparisce. Io credo più nell’ispirazione, nella creazione, nella creatività. E quindi ben vengano festival come questo, che mettono in risalto cose di questo genere e danno spazio a tanti artisti.


 

Una pezza di Musicultura

Valerio Lundini, ovvero: l’arte di non prendersi troppo sul serio. Come? Con un umorismo “storto”, le canzoni surreali de I Vazzanikki, il suo gruppo musicale, e la capacità, ormai rara, di far ridere senza spiegare tanto. È così, esattamente come fa lui, che si racconta come si può ancora fare comicità non seguendo alcuna regola; senza risate registrate, ché quelle tolgono un elemento di realismo che può essere esilarante. Ma facendo appello persino al silenzio. E a tutte le altre situazioni della quotidianità, della vita vera.

Questa l’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià prima di calcare il palco dello Sferisterio.

“Una pezza di Lundini” ha avuto un impatto particolare tra i giovani spettatori, anche per il modo in cui decostruisce la forma tradizionale del talk show. Crede che la comicità oggi debba anche essere una forma di critica ai formati e ai codici della comunicazione mainstream?

Per me non ci sono regole. Chi fa comicità, o anche chi non la fa, può trovare interessante e divertente criticare rendendo parodici determinati formati. Nella comunicazione di oggi ci sono sicuramente già molti elementi che si prestano a delle caricature, e infatti spesso lo si fa. Ma si possono esplorare anche altre direzioni: si può parodizzare anche ciò che si conosce poco, proprio per rendere la comicità più interessante.

Nei suoi sketch si avverte spesso un senso di straniamento, come se lo spettatore fosse portato a riflettere su ciò che non viene detto, su ciò che sta tra le righe. In che modo lavora sul silenzio, sull’imbarazzo o sulla pausa come strumenti narrativi?

Ci lavoro nel senso che sono elementi già presenti nella realtà. Portare quella realtà in ciò che uno fa rende tutto più divertente. Per esempio, soffro le risate registrate nei programmi o nei film, perché tolgono quell’elemento di realismo che per me è esilarante: come i silenzi imbarazzanti a cena quando non si sa cosa dire, o l’intrecciarsi mentre si parla, che nei film viene del tutto omesso. Tutte queste situazioni esistono nella vita vera, come adesso che sto dicendo mille cose e me ne mangio altrettante. Quindi non è che uso il silenzio come strategia, ma siccome fa parte della normalità lo inserisco naturalmente nei miei sketch.

Nel suo lavoro mescola comicità, surrealismo, riferimenti colti e un’estetica anni Ottanta che sfocia quasi nella parodia. Quanto c’è di pensato e quanto nasce invece da un istinto personale?

Diciamo che la parte pensata riguarda la scrittura dello sketch e la sua preparazione, poi in mezzo ci metto sempre qualcosa di improvvisato. Anche stasera il mio numero è in parte scritto, ma giocherò con il silenzio di cui parlavo prima, per evitare di dire qualche cazzata. Quanto all’estetica degli anni ‘80 non saprei; sono nato in quel periodo, quindi forse mi è intrinseca senza che me ne accorga. Uno dei film comici che più mi ha colpito da piccolo è stato Una Pallottola Spuntata, ma ormai quel tipo di umorismo viene accantonato, e quando provano a replicarlo si scivola facilmente nel demenziale.

A proposito di scrittura, Musicultura è uno spazio che dà libero sfogo alla cultura e alla canzone con un’attenzione speciale alla parola. La sua comicità e i brani de I Vazzanikki condividono un’ironia tagliente, a volte surreale. In un contesto così, come vive l’incontro tra umorismo e musica d’autore?

A differenza di ciò che scrivo per i programmi o per il teatro, quando scrivo con la mia band, I Vazzanikki, lo faccio sempre per divertimento. L’ironia e la comicità sono centrali, come in tante altre band comiche. Quindi, se scrivo qualcosa che fa sorridere ma che non è rivoluzionaria mi piace comunque. Mentre nei miei progetti più personali tendo a essere più contorto, nella musica trovo un punto di sfogo. Per quanto riguarda il rapporto tra musica d’autore e umorismo, secondo me non esiste una regola: ci possono essere cantautori “solenni” che adottano però ironia e umorismo. In un buon prodotto artistico può esserci un mescolarsi di serietà e comicità. I film drammatici se non contemplano neanche un momento di leggerezza sembrano finti; allo stesso modo, se un film comico manca del tutto di un momento commovente rischia di diventare solo faceto.

I Vazzanikki, ancora. Con le vostre canzoni create una fusione tra musica e paradosso, con brani che hanno un testo totalmente ironico che fa ballare all’impazzata il pubblico; quanto crede sia importante nel contesto musicale di oggi trovare spazio per questa vena di ironia?

Chi vuole mettercela, ce la metta. Non voglio fare il vecchio che critica la musica di oggi, però quello che noto è che c’è sempre meno ispirazione in chi scrive. Si sente che certi brani sono scritti da quaranta autori che mettono insieme frasi pensate per funzionare in questo preciso momento storico. Quindi, più che l’ironia, quello che manca è un po’ quel sentore di sincerità.


 

Antonella Ruggiero: «L’arte richiede pazienza, ascolto e introspezione»

È impossibile confinarla in un solo genere o in un’unica epoca. Passando dall’eleganza sofisticata dei Matia Bazar alle sperimentazioni audaci della sua carriera da solista, Antonella Ruggiero ha attraversato oltre quarant’anni di musica italiana mantenendo intatta la sua identità artistica: intensa, visionaria e in continua evoluzione. La sua voce, unica nel panorama nazionale, non è mai stata solo uno strumento tecnico, ma un vero e proprio specchio della sua interiorità. È diventata negli anni veicolo di ricerca continua: non solo musicale, ma anche spirituale, poetica ed esistenziale. Dall’elettronica al sacro, dal pop all’etnico, ha saputo intrecciare suoni, culture e linguaggi in una forma espressiva che sfugge alle classificazioni, conservando sempre una coerenza profonda, nutrita da silenzi e ascolti. Nel suo percorso, ogni progetto ha rappresentato una tappa di trasformazione, un’occasione per spingersi oltre i limiti imposti dall’abitudine o dal mercato. In occasione della sua partecipazione a Musicultura, prima della sua esibizione sul palco dello Sferisterio per la seconda serata finale del Festival, ha condiviso con la nostra redazione il racconto del cammino che l’ha portata fin qui: un itinerario fatto di libertà, profondità e fedeltà a se stessa. È tra le righe, nei gesti misurati e nelle parole scelte con cura, che affiora l’idea della musica non come traguardo, ma come un viaggio in continua evoluzione, che si rinnova ogni volta che si ha il coraggio di ascoltarsi davvero e di offrirsi al mondo senza maschere.

A Musicultura, tanti giovani cantautori cercano la loro voce. Cosa direbbe oggi alla “Matia” del suo primo 45 giri, se potesse parlarle? 

Probabilmente le direi di esprimersi con libertà, facendo ciò che sa fare nel modo più autentico possibile, senza lasciarsi bloccare dai troppi pensieri. È normale, all’inizio, sentirsi sopraffatti dalla tensione. Ma proprio per questo le suggerirei di ascoltarsi, di seguire ciò che sente davvero dentro: è lì che si trova sempre la direzione giusta.

Ha collaborato con musicisti, artisti visivi, cori. Esiste un’arte o una disciplina con cui sognerebbe ancora di intrecciare la sua voce?

No, direi di no. Perché, pur senza voler esagerare, credo di averle esplorate quasi tutte, anzi, forse proprio tutte. L’ultimo progetto, Altrevie, è stato un vero e proprio azzardo, spinto fino in fondo. Ed è proprio questo ad averlo reso così divertente, surreale, suggestivo. Quindi no, al momento non credo ci sia un’arte con cui sogno ancora di intrecciare la mia voce, ma le idee, si sa, arrivano all’improvviso e ci si ritrova a inseguirle.

Ecco, ha appena citato il suo ultimo progetto discografico, Altrevie. In quest’album ha sperimentato molto anche con la manipolazione digitale della voce. Nel corso del tempo quanto è cambiato il suo modo di “usarla” come strumento?

La voce è sempre stata il mio strumento e con il tempo l’ho affinata. Così come cambiano il modo di vedere la vita, di pensare e di sentire, anche la voce si trasforma: segue i pensieri, le emozioni, le dinamiche interiori. Non a caso, la mia voce di un tempo è profondamente diversa da quella di oggi. Ma non è solo una questione anagrafica: è l’intenzione che cambia. Sono le esperienze vissute, stratificate nel tempo, a dare profondità e spessore alla voce, insieme, naturalmente, all’interpretazione di ciò che si canta.

La spiritualità è una componente che ritorna spesso nella sua musica. Come si traduce oggi, nel suo quotidiano, questo legame tra suono e dimensione spirituale?

In realtà non ci penso. Vivo senza soffermarmi su certi temi. Per quanto mi riguarda, la spiritualità è qualcosa di profondamente legato alla natura. Quando mi trovo immersa in essa, il pensiero va spontaneamente oltre. Non c’è nulla di costruito, nulla di artefatto che mi conduca lì: è un processo del tutto naturale. È semplicemente nella mia indole, così come lo è per milioni di altre persone, fare scelte e maturare pensieri in una certa direzione.

Quale ruolo ritiene possa avere un festival come Musicultura nel favorire non solo lo sviluppo della carriera, ma anche la crescita artistica, introspettiva e musicale dei suoi vincitori?

Credo che, prima ancora di pensare alla carriera, sia fondamentale costruirla con il tempo e attraverso le esperienze, altrimenti rischia di restare qualcosa di indefinito, che non prende mai forma concreta. Essere qui, per i vincitori, è importante proprio perché non si trattano brani superficiali o senza radici; qui la ricerca è, prima di tutto, umana, ed è da lì che nasce quella artistica. C’è l’individuo, ci sono il ragazzo o la ragazza con un mondo interiore da esprimere, qualcosa da dire e da dare, prima di tutto a se stessi e poi agli altri. L’arte richiede pazienza, ascolto e tanta introspezione. E più si riesce a stare lontani dalle dinamiche del successo facile, più si ha la possibilità di coltivare qualcosa di autentico e duraturo.


 

Musicultura 2025: atto conclusivo, tra emozioni, grandi nomi e tanta musica

La XXXVI edizione di Musicultura è giunta alla sua fase finale e ieri sera ha preso il via la prima delle due serate conclusive all’interno dello Sferisterio di Macerata. La conduzione dell’evento è stata affidata a una coppia inedita ma ben equilibrata: Carolina Di Domenico, già presente nelle due precedenti edizioni, e Fabrizio Biggio, al suo debutto come conduttore sul palco del Festival. Insieme, hanno guidato con ironia e leggerezza una serata intensa, piena di musica, emozioni e storie da raccontare.

Ad aprire le performance è stato Ibisco con Languore, un brano dalle tinte scure e intimiste. Il giovane cantautore – che si è poi aggiudicato il Premio Grotte di Frasassi e quindi l’opportunità di esibirsi in uno dei luoghi più suggestivi d’Italia – ha raccontato anche dell’origine del suo nome: «I fiori sono affascinanti, colorati. Forse bilanciano la mia componente dark. E poi il mio cognome è Giglio». La sua voce, profonda e affilata, ha inaugurato con intensità l’atmosfera dell’arena.

Poi è stata la volta di Elena Mil, che ha portato in scena La ballata dell’inferno, un brano teatrale, drammatico, che rispecchia il suo background artistico. Milanese, con una formazione teatrale solida, ha raccontato: «Esibirmi allo Sferisterio è un onore. Le esperienze in scena mi hanno aiutata anche nella scrittura». Ecco, scrittura: è proprio Elena l’artista nelle cui mani è finita la Targa per il Miglior Testo, assegnata dagli studenti delle Università di Macerata e Camerino.

Moonari, cantautore romano, è stato il quarto a esibirsi con Funamboli, un brano sospeso tra delicatezza e malinconia. Dopo la performance ha raccontato di essere stato stupito dalla natura inclusiva di Musicultura: «Mi hanno colpito la poca competitività e l’attenzione che c’è alla musica vera e ai testi. È bello sentirsi ascoltati davvero», ha dichiarato. E sull’emozione di trovarsi in un luogo così carico di storia ha aggiunto: «Lo Sferisterio è incredibile. Sapere che qui si sono esibiti artisti straordinari, e ora tocca a noi, è un onore immenso». È andato a lui il Premio PMI – Produttori Musicali Indipendenti per il miglior progetto discografico.

A seguire Silvia Lovicario con il brano La notte, scritto, come lei stessa ha raccontato, in un momento di angoscia. Una canzone concepita quasi come un rito catartico, per esorcizzare emozioni forti e difficili da gestire. Silvia ha portato con sé una voce intensa e una presenza scenica fortemente emozionale: «Mi lascio guidare dalla musica. Quando salgo sul palco cerco di trasformare qualcosa, di trasformare me stessa», ha detto.

Poi il primo ospite, Tricarico, che con Sono Francesco e Mi manchi ha ripercorso due momenti diversi della sua carriera, regalando al pubblico non solo la sua voce ma anche una riflessione profonda sul ruolo della paura nella vita di ciascuno: «La paura ci salva la vita, a volte ce la complica, altre volte ce la distrugge», ha affermato, per poi aggiungere: «La musica mi ha salvato la vita. È stato il mio modo per sopravvivere, per dare un senso a tutto».

La serata è proseguita con Frammenti, duo trevigiano che ha presentato il brano La pace, una canzone schietta, sincera, in cui voce e arrangiamenti si fondono per costruire un messaggio potente: «Siamo convinti che nei concerti si annullino tutti i pregiudizi e le diversità. Con il nostro brano vogliamo trasformare tutto ciò in ricchezza e, quindi, in pace», hanno detto i due artisti.

È poi arrivato il turno della napoletana Alessandra Nazzaro, che ha presentato Ouverture, brano raffinato, costruito con eleganza e consapevolezza. La sua voce profonda e l’intensità interpretativa hanno illuminato la strada di ricerca personale intrapresa dall’artista, che ha dichiarato: «Nel mio percorso ho cercato sempre di conformarmi a un modello predefinito, fino a quando non ho trovato davvero me stessa, con nome e cognome».

Con ME, JULY e la sua Mundi la serata ha toccato registri sonori diversi, contaminati, ricchi di sfumature. L’artista ha svelato di aver scritto la canzone pensando ai propri cari, alle proprie origini, quindi alla propria identità. «Il tema centrale – ha spiegato – è l’amore. L’amore in molteplici forme: per la mia terra, la mia famiglia, la mia musica».

A chiudere le esibizioni degli otto vincitori sono stati gli Abat-Jour, band giovanissima formata da ragazzi tra i 18 e i 20 anni. Con Oblio, hanno portato sul palco energia e un sound diretto, senza filtri. Il progetto è nato nella cameretta del frontman, che ha sottolineato: «Senza gli altri non ci sarebbe nulla. La nostra forza è il gruppo. La musica per noi è fondamentale e il nostro obiettivo è farne tanta dal vivo».

Successivamente, a incantare il pubblico è stato Riccardo Cocciante, accompagnato dalla sua classe senza tempo e da brani che ne sono testimonianza: Se stiamo insieme, Poesia, Margherita, cantata a gran voce da tutto il pubblico e conclusasi con una standing ovation. Ai giovani ha lasciato un consiglio semplice ma potente: «Osare, osare, osare». E a coronare la sua carriera sono stati proprio due giovani studenti degli atenei di Camerino e Macerata e i Rettori delle due università, rispettivamente Graziano Leoni e John Francis McCourt, che gli hanno consegnato un’onorificenza per gli alti meriti artistici.

A conclusione della serata, il ritorno sul palco del Festival, dopo dieci anni, di Vinicio Capossela, che ha omaggiato il pubblico con Barmadù, Il povero Cristo, Staffette in bicicletta, Il tempo dei regali. Il cantautore si è poi abbandonato a una riflessione sui conflitti bellici di cui quotidianamente apprendiamo i tragici risvolti: «Le sirene oggi non sono più quelle della mitologia greca: sono quelle delle emergenze umanitarie, delle ambulanze, dei bombardamenti a cui siamo costretti ad assistere. I compagni di Ulisse si sono tappati le orecchie per non sentirle, non facciamo lo stesso solo per andare avanti».


 

Il suono dell’intuizione: intervista a Franco Godi

Dai jingle ai dischi d’oro, Franco Godi ha scritto la colonna sonora di chi ha avuto il coraggio di osare per primo. “Mr. Jingle” per caso, talent scout per vocazione, è stato il primo a credere nel raitaliano, quando ancora nessuno scommetteva su di esso. Ha portato l’ironia nell’animazione accanto a Bozzetto e la sensibilità nell’autorialità insieme a Olmi. Oggi continua a scommettere sui giovani, ma senza fare sconti: «Basta sp cuse, è il momento di prendersi la scena». Il suo è un intuito che brucia la tecnica, un fiuto che anticipa le mode. Godi non si è limitato a raccontare la musica: l’ha intercettata, trasformata, rilanciata. Sempre con mezzo passo d’anticipo.

Ha debuttato incidendo negli studi di Renato Carosone e nel 1962 ha firmato il jingle Bertolli, diventando Mr Jingle. Quanto le ha insegnato quella sfida di sintetizzare emozione e ritmo in pochi secondi?

Sono nato con il desiderio di sintetizzare la musica che, certo, si sviluppa, ma alla base deve esserci un’idea chiara, racchiusa in poche note. È da lì che parte tutto. Lo facevano anche Bach, Beethoven, Brahms: scrivevano melodie semplici, quasi “orecchiabili”, che poi si trasformavano in grandi sinfonie. Non voglio fare paragoni altisonanti ma, ecco, questa è stata la chiave che mi ha permesso di andare avanti, di costruire la mia musica.

Lei ha iniziato come compositore e produttore per se stesso, poi è diventato scopritore di talenti e promotore di nuovi artisti, soprattutto nel rap italiano. Come si è avvicinato a questo ruolo da “talent scout”?

In realtà, più che cercarli, nei talenti mi ci sono sempre un po’ imbattuto. Quando incontro qualcuno che fa fatica a emergere, ma ha qualcosa da dire, tendo subito a sposare il suo progetto. È un qualcosa che sento come spontaneo.

E come è nato tutto?

Tutto è iniziato con la nascita di Best Sound. Per molti anni, fino al 1990, l’etichetta è stata lo spazio per la mia musica: sigle televisive, cartoni animati, produzioni per la TV. Poi, nel 1990 ho conosciuto gli Articolo 3. Da lì si è aperto un nuovo percorso, con Gemelli Diversi, Neffa, Fedez, Tricarico, Zilla, e ho sempre continuato a lavorare con artisti che sentivo vicini per intuizione e visione.

In fondo anche Musicultura è una fucina di giovani talenti, un po’ come lo è stata Best Sound per il rap italiano. Cosa la affascina oggi di questi spazi che danno voce a nuove scritture e nuovi suoni?

Penso che sia una fortuna che esistano. I giovani artisti, sempre più spesso, si sentono vincolati artisticamente dalle case discografiche, che li spingono in una direzione piuttosto che in un’altra.  Spazi come Musicultura, invece, danno loro la possibilità di esprimersi liberamente e senza vincoli. Trovo poi molto bello il fatto che ci siano otto vincitori, perché nella musica sono tendenzialmente contrario alle gare. Sanremo, infatti, insegna: l’ultimo Vasco Rossi poi è diventato quello che è diventato.

L’hanno definita “artigiano del suono” e ha citato tra i tuoi maestri Quincy Jones e Trovajoli. Quanto conta, per lei, l’intuizione rispetto alla tecnica per far nascere una musica che emoziona?

Conta moltissimo. Perché altrimenti basterebbe studiare tanto, essere bravi musicisti e tutti ce la farebbero. Invece no, è come l’amore: o scatta, o non scatta. O c’è, o non c’è. Tra i miei modelli, ci sono stati Quincy Jones, Travajoli, ma soprattutto Burt Bacharach: è stato lui a riempirmi il cuore di belle note. E da quelle emozioni sono nate alcune delle cose migliori che ho scritto.


 

Nutrire il futuro, con parole che durano

In un presente iperconnesso, dove tutto scorre veloce e spesso si consuma prima ancora di essere compreso, c’è chi sceglie di rallentare per raccontare. Giorgia Pagliuca, divulgatrice, attivista e ricercatrice, si muove tra social, scuole, piazze e libri portando avanti una narrazione della sostenibilità che è tanto scientifica quanto personale, tanto concreta quanto emotiva. Arriva a Musicultura, nel cuore de La Controra, per parlare di cibo, giustizia ambientale e linguaggi accessibili. Ma soprattutto per mostrare che il cambiamento si nutre di presenza, ascolto e storie ben raccontate. Con ironia, consapevolezza e una voce capace di attraversare più pubblici, Giorgia ci invita a rimettere al centro il valore delle parole, delle relazioni e del gesto quotidiano. Anche quando non richiesto.

Con il progetto MUSICULTURAmbiente, La Controra le dedica uno spazio di riflessione e dialogo, in collaborazione con Cosmari, in un evento condotto da Marco Ciarulli, Presidente della Legambiente Marche. Poco prima, si è raccontata così alla Redazione Sciuscià.

Sui social ti definisci “dispensatrice di consigli non richiesti”, una formula ironica ma efficace. Che tipo di rapporto crea questa scelta con chi ti segue, e come riesci a mantenere credibilità trattando temi scientifici in modo così diretto?

Dipende un po’ da chi approda sul mio profilo, perché non tutti sono disposti ad accogliere i miei consigli non richiesti. Però devo dire che, nel tempo, ho incontrato tante persone realmente interessate al tema. Cerco sempre di usare anche una dose di autoironia, così da evitare una comunicazione unidirezionale e renderla più interattiva, sicuramente anche intersezionale. Porto avanti questo approccio sia nei miei progetti di ricerca offline, sia nella mia comunicazione online. Parlando di sostenibilità, poi, i punti di ingresso sono moltissimi e molto diversi: questo mi permette di spaziare e di parlare a soggettività differenti, con linguaggi e toni diversi.

Nel tuo libro Aggiustiamo il mondo racconti il cambiamento ecologico anche da un punto di vista emotivo e personale. Quando sei su un palco o in uno spazio pubblico, come cambia il tuo modo di comunicare rispetto alla narrazione che costruisci online?

Per me la narrazione è situata: cambia a seconda del contesto e del pubblico che ho di fronte. Non uso lo stesso linguaggio con chiunque. Mi è capitato di fare una lezione in una scuola primaria, e lì il linguaggio era completamente diverso. È stata una bella sfida, perché a volte, quando parlo in pubblico, dimentico che non tutti hanno la mia stessa formazione. Spiegare con parole semplici a una bambina di sei anni cos’è il cambiamento climatico è un’esperienza che auguro a chiunque: ti obbliga a ripensare il tuo modo di comunicare e ad adattarlo alla persona che hai davanti.

Hai partecipato come facilitatrice a progetti come Green_EuRoPe per formare giovani influencer green. Quanto è importante, per te, accompagnare la comunicazione digitale con una presenza attiva e costante nei territori?

È fondamentale. Se la divulgazione rimane confinata all’online, si perde il contatto umano. Le persone, se ti percepiscono solo attraverso uno schermo, difficilmente mantengono l’attenzione necessaria per affrontare certi argomenti. Ecco perché cerco sempre di realizzare eventi il più possibile slegati dal digitale — che resta comunque importante — ma in cui si possa creare un confronto diretto, faccia a faccia. In questi spazi si può approfondire, non rimanere in superficie. Quando si lavora solo online, spesso si è vincolati a una soglia d’attenzione sempre più bassa: i primi secondi sono tutto. E questo, insieme alla difficoltà nel contestualizzare le informazioni, apre la strada anche a dinamiche tossiche come l’odio digitale.

Il tuo intervento a La Controra ruota attorno all’idea di dare istruzioni per nutrire il futuro. Quanto a questo argomento, qual è la prima consapevolezza che speri di attivare in chi ti ascolta?

Spero che si cominci a dare il giusto valore al cibo, che è anche un modo per dare valore alle persone. Viviamo in un paese che, purtroppo, è ancora esportatore di caporalato e di forme di schiavismo non pienamente riconosciute dal punto di vista giuridico. Molte filiere alimentari si basano sullo sfruttamento di persone e minoranze. Per questo, il messaggio che vorrei far passare è semplice ma cruciale: non sprecare il cibo, ma soprattutto acquistarlo attraverso esercizi locali, controllati, con un rapporto diretto con i produttori. Riconoscere il valore del cibo significa riconoscere il valore di chi lo produce.

Musicultura crea un ponte tra cultura musicale e impegno civile. Tu che unisci divulgazione, scrittura e attivismo, in che modo credi che l’arte – in ogni sua forma – possa amplificare il messaggio della sostenibilità?

L’arte ha un ruolo fondamentale. È uno degli strumenti più potenti per avvicinare le persone. Non arriva a tutti allo stesso modo, ma è un linguaggio che ti permette di allargare il pubblico. Parlare di musica significa parlare anche di cultura, di cibo, di spreco. E questo è un potere che, spesso, la ricerca scientifica non ha, perché utilizza un linguaggio troppo distante dalla quotidianità. L’arte, invece, riesce a veicolare narrazioni fondamentali in modo diretto, impattante, emotivamente coinvolgente.


 

Con Treccani, “Le parole nelle canzoni”: Pop X e Camurri a La Controra

Musicultura è da sempre il Festival della Canzone Popolare e d’Autore, un luogo in cui parole e musica si intrecciano in un dialogo continuo. Anche gli appuntamenti de La Controra raccolgono e amplificano questo legame, dando voce a suoni, storie e significati. A testimoniarlo è stato l’incontro Le parole delle canzoni, realizzato in collaborazione con Treccani, che ha visto a Palazzo Buonaccorsi due protagonisti apparentemente lontani, ma sorprendentemente affini: Edoardo Camurri, giornalista e divulgatore culturale, e Davide Panizza, anima del progetto musicale Pop X.

L’incontro, carico di energia e riflessione, ha dato il via alla quarta giornata de La Controra con un dialogo profondo e ironico sul valore delle parole nella musica. Camurri, con la sua capacità affilata di osservare e raccontare, ha guidato il pubblico all’interno dell’universo linguistico e creativo di Pop X, sottolineandone l’originalità espressiva e la capacità di sorprendere. «Pop X è un’esperienza che non rassicura, che ti costringe a uscire dalle attese. È una lingua che apre il vaso di Pandora dell’Italia di oggi» ha dichiarato commentando il brano Carablia, scritto poco prima dei tragici fatti di Macerata nel 2018, e divenuto a posteriori un pezzo quasi profetico nel descrivere un clima sociale e culturale teso. Davide Panizza, dal canto suo, ha raccontato il suo processo creativo come istintivo e libero da qualsiasi costrizione formale: «Non scrivo – ha dichiarato – per piacere o per soddisfare un’estetica precisa: inseguo ciò che mi piace, senza pensare a cosa si aspetta chi ascolta. Voglio deludere le aspettative». Dichiarazione, questa, che trova conferma nei suoi testi, veloci, frammentati, provocatori, spesso costruiti come giochi di parole che nascondono significati più profondi. Durante l’incontro si è riflettuto anche sul ruolo della leggerezza nella scrittura musicale. A partire dal brano Ape Maia, tratto dall’ultimo disco Balla coi Lupi nella Stalla, Panizza ha spiegato di aver sentito il bisogno di allontanarsi da concetti troppo pesanti, per abbracciare una scrittura più spontanea, quasi ludica, ma comunque capace di trasmettere un messaggio: «Non volevo più rifarmi a quella perfezione patinata delle sigle dei cartoni animati: l’ho fatto a modo mio, con ironia». La conversazione ha toccato anche brani come Paiazo e Il mio cuore è occupato – in cui si mescolano esperienze personali, memorie collettive e riflessioni esistenziali – secondo Camurri esplicativi dell’unicità del linguaggio di Pop X: «Non ha paura di niente. Con parole semplici riesce a dire l’essenziale. È poesia».

A fare da filo conduttore all’incontro, il concetto di “archivio creativo”: per il giornalista, la sua musica si configura come un flusso ininterrotto di idee e di vita, un luogo senza finalità prestabilite in cui convivono generi, stili, intuizioni. «L’espressione artistica, come l’erba, cresce spontaneamente. Appare, si allontana, ma alla fine la ritrovi sempre», ha concluso. Le parole delle canzoni ha così restituito un’immagine viva e stratificata del legame tra parole e musica: un legame che non sempre va spiegato, ma sentito, intuito, attraversato. Come nel caso di Pop X, che con le sue melodie irriverenti e la sua scrittura sincera, riesce a trasformare anche l’assurdo in verità emotiva.


 

«Cosa posso portare, se non me stesso?»: Cocciante ospite allo Sferisterio

Cosa resta di vero nella musica, quando tutto sembra costruito per colpire?

In un’epoca in cui la spontaneità rischia di essere sopraffatta dall’ossessione per l’apparenza e dalla caccia alla visibilità, l’autenticità artistica diventa un atto rivoluzionario. È in questo contesto che Riccardo Cocciante si racconta: con la forza silenziosa e intensa di chi ha sempre preferito la sostanza all’impressione. Classe 1946, emigrato da bambino dal Vietnam alla Roma degli anni ’60, Cocciante è un artista che ha attraversato generazioni, stili e rivoluzioni culturali senza mai perdere la sua voce interiore; con una sensibilità segnata dalle radici miste e da un’infanzia sospesa tra mondi diversi, ha scelto fin da subito di camminare controcorrente. Canta ciò che sente, non ciò che conviene. Respinge mode passeggere, rifiuta imitazioni, si tiene lontano dai riflettori della banalità. Da oltre mezzo secolo porta avanti la sua idea di musica come linguaggio dell’anima, non come prodotto da confezionare.

E forse, in fondo, è proprio questa la sua lezione più grande: che la musica, quando nasce dall’anima, non ha bisogno di filtri per toccare il cuore.

Se fosse oggi un artista emergente, cosa crede che le piacerebbe portare su un palco come quello di Musicultura?

Cosa posso portare, se non me stesso? Non mi sono mai rinnegato da quando ho cominciato. Non ho mai cercato di seguire le mode, e forse è proprio per questo che, in un certo senso, sono ancora attuale. Cerco semplicemente di restare fedele a ciò in cui ho sempre creduto: essere sinceri con se stessi ed esprimersi liberamente, senza imitare gli altri né cercare scorciatoie per entrare nel sistema o adattarsi a ciò che va di moda.

Infatti in unintervista a TV Sorrisi e Canzoni lei ha dichiarato: «Oggi c’è troppa attenzione al look, sei sul palco perché hai unanima […] una canzone deve valere per ciò che è». Secondo lei, cosa si è perso nella musica di oggi rispetto a quella di quando ha iniziato? E, al contrario, cosa si è guadagnato?

Ai miei tempi la musica era un vero e proprio artigianato. Oggi, invece, mi sembra sia diventata troppo industriale. Si pensa troppo al successo immediato. Per me, il successo è qualcosa che si conquista con il valore, non un obiettivo da inseguire a tutti i costi. Quando si cerca di ottenere un successo a tavolino, si rischia di essere opportunisti — e purtroppo succede spesso. Io, al contrario, amo quando i giovani artisti mi propongono qualcosa di completamente nuovo, capace persino di sconvolgermi. È questo che considero una vera novità: una proposta originale, che non ripeta ciò che abbiamo già sentito in passato. Oggi vedo una corsa continua al successo, e in parte lo capisco, perché agli artisti non è più concessa la possibilità di sbagliare. Ma all’inizio un artista ha bisogno di tempo per capire chi è, dove si trova, cosa vuole esprimere. Noi, un tempo, avevamo questa libertà; oggi invece le etichette discografiche la concedono sempre meno: se non fai subito un successo, vieni scartato. Io credo, invece, che l’artista debba avere il tempo di maturare. Serve intuito per riconoscere il talento, e una volta individuato, bisogna investirci, lavorarci insieme, andare avanti. Ma purtroppo questo accade sempre più raramente.

Lei ha sempre dato grande spazio alla melodia e alla voce umana. In un’epoca dominata da beat elettronici e intelligenza artificiale, che ruolo vede ancora per la voce imperfetta, viva, umana?

Credo sia fondamentale creare una fusione tra uomo e tecnologia. Ho sempre amato la tecnica, fin da quando, anni fa, uscirono i primi sintetizzatori: fui tra i primi a sperimentarli. Questa fusione tra uomo e macchina è necessaria. Non possiamo fare a meno della tecnologia, ma nemmeno la tecnologia può fare a meno di noi, degli esseri umani, con tutte le nostre imperfezioni. E proprio l’imperfezione, a volte, è ciò che rende un’opera vera e autentica. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola di esagerare con la tecnica, come accade quando si abusa dell’autotune. Va bene usarlo come effetto creativo, ma non per nascondere i difetti. Ai giovani dico: andate avanti, sperimentate, ma ricordate sempre che l’elemento umano è ciò che rende la musica — e l’arte — davvero unica e bella.

Nel corso della sua carriera ha scritto per e con grandissimi artisti. C’è una collaborazione mancata, un artista che avrebbe voluto incontrare artisticamente, ma che non ha mai avuto occasione?

Ho avuto il piacere di conoscere Mina e di collaborare con lei, ma non ho mai incontrato Battisti, eppure l’ho sempre amato moltissimo. Nel corso della mia carriera ho incontrato tanti grandi artisti, che considero colleghi, non rivali. Ho lavorato con Venditti, ho fatto concerti con lui, con De Gregori e molti altri. La cosa più bella, secondo me, è che ognuno di noi è diverso. Non c’è competizione, perché ognuno ha la propria identità, il proprio spazio. L’Italia ha artisti straordinari, ma anche all’estero ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti francesi eccezionali. Quello che ho sempre apprezzato è proprio questo: non c’è nessuno che mi somigli, così come io non somiglio a nessun altro. Alla fine, siamo come isole. E restiamo isole.

Notre-Dame de Paris sta per tornare in scena in Italia a oltre venticinque anni dal suo debutto. Quali emozioni prova nel vedere quest’opera ancora così viva e attuale?

Sono emozionato, perché davvero non avrei mai immaginato tutto questo, quando abbiamo iniziato. Come dicevo prima, non si cerca il successo: si cerca l’autenticità. Abbiamo scritto quest’opera — io e l’autore francese — con amore, con sincerità, senza l’intento di stupire o di portare in scena qualcosa di straordinario. L’abbiamo fatto con verità. E credo che il pubblico lo percepisca. Sente che nella scrittura c’è qualcosa di profondamente artistico e autentico. Il nostro intento era offrire una lettura di Notre Dame de Paris attuale, ma che contenesse anche il passato e persino un’idea di futuro. Notre Dame de Paris non ha tempo: lo si capisce anche dagli arrangiamenti, dove convivono elementi moderni, come la chitarra elettrica, con strumenti antichi, come le percussioni di due secoli fa o il liuto. È un intreccio di epoche, un dialogo tra passato e presente. Forse è proprio questo uno dei segreti del suo successo. Ma c’è anche la forza della rappresentazione: ballerini straordinari, coreografie splendide. E poi c’è una fusione particolare tra persone molto diverse. Io e l’autore veniamo da mondi opposti, il regista da un altro ancora, legato all’underground. Il coreografo viene dalla danza classico-moderna. Insomma, sensibilità e stili diversissimi che si sono uniti e alla fine è successo qualcosa di inaspettato. Io lo chiamo il ‘miracolo Notre Dame de Paris’, perché sarebbe potuto non succedere nulla, e invece è successo tutto. Il pubblico se n’è accorto, si è affezionato, non l’ha più lasciato. Tanto che oggi, possiamo dirlo, Notre Dame de Paris è diventato un classico.


 

Ma chi c’è allo Sferisterio? Buonasera, io sono Tricarico 

Buonasera, io sono Tricarico non è solo il titolo di uno dei suoi recenti spettacoli, l’ouverture di un’esibizione o un semplice saluto al pubblico, ma una dichiarazione d’identità, umana prima ancora che artistica. Nella sua arte, Tricarico non si limita a esibirsi in maniera chirurgica e asettica, ma costruisce un racconto di sé, intimo e frammentato, come un diario aperto scritto però non solo a parole ma con un inchiostro magico che diventa musica, pianoforte, flauto, letture, pittura. Anche silenzi. La sua lirica ha una grande radice autobiografica e poetica che attraversa la sua esperienza di vita, da bambino a padre, da giovane artista a uomo consapevole, trasformando la vulnerabilità in forza e la memoria in narrazione. È un percorso che parte dal dolore e si compie nella sua elaborazione, nella capacità di guardare indietro, nei “boschi” interiori dove si celano ferite che hanno il germe della rinascita. Tricarico non racconta per esibizione, ma per necessità: la musica diventa così linguaggio per esprimere l’indicibile, la pittura un salvagente e un trampolino, l’arte un mondo parallelo nato dalla complessità del reale. Questa l’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià.

Il suo spettacolo Buonasera, io sono Tricarico non è un semplice concerto, ma un vero e proprio concept show: musica, letture, riflessioni personali, flauto, pianoforte e appunti condivisi e simbolici della sua vita. È uno spettacolo sull’uomo, forse più che sull’artista. Com’è nato questo progetto così essenziale ma anche intimo e diretto?

Nasce da tanti anni di scrittura, di canzoni. Era da molto tempo che pensavo e ripensavo; è la fine di un lungo percorso che parte da un bambino, Francesco, che diventa ragazzo, poi uomo e padre. Insomma, nasce tutto da un’esperienza biografica e, grazie alla musica e alle parole, ho potuto raccontare questa avventura, questo percorso di formazione.

Nei suoi lavori, da Io sono Francesco a Il Bosco delle Fragole, si delinea appunto un percorso di crescita interiore che parte dal dolore e dalla perdita di punti di riferimento nell’infanzia, fino alla riscoperta di emozioni autentiche. Il Bosco delle Fragole si ispira al Posto delle Fragole di Bergman, un luogo simbolico dove l’atto di cogliere fragole rappresenta il ritrovare sentimenti profondi. Crede che quel bambino abbia trovato nel “bosco” un rifugio poetico oppure che questo cambiamento rappresenti la naturale evoluzione di chi è cresciuto?

Riguardo a ciò che dicevi sul dolore, trovo che il fatto che faccia crescere sia una retorica. Forse, una retorica vera. Il Bosco delle fragole non si ispira direttamente a Bergman; tuttavia, è attraversando – senza rimanerci imprigionati – luoghi bui e oscuri, i boschi e i misteri che, alla fine, si evolve, si capisce qualcosa di sé che altrimenti non si capirebbe, se non passando proprio attraverso il dolore, attraverso le “selve oscure”.

La sua espressione artistica non si limita al cantautorato, ma si estende anche alla pittura, come nel progetto Don’t Stop the Paint. A tal proposito ha affermato: ‹‹Dove finisce l’Arte, finisce la Vita. La parola ferma, il colore e le linee ondulatorie no››. In che modo per lei il flusso libero della pittura, che non si blocca né si ferma, rappresenta anche il modo di vivere la vita senza limitarla, raccontandola attraverso il movimento e l’energia dell’arte?

L’arte è stata una grande possibilità per permettere, laddove la vita era molto difficile, di trovare una realtà immaginata, parallela, che consentisse inizialmente di sopravvivere, per poi diventare una grande chance di poter fare della vita ciò che si voleva. Inizialmente, però, era soprattutto una via di fuga per creare un mondo alternativo laddove il reale era troppo complesso. Poi la via di fuga è diventata un modo per riagganciarsi alla vita.

Il cantautorato, per la sua natura intimista, richiede che l’artista esprima il proprio io in modo autentico, creando un legame sincero tra testo e musica. Può raccontarci come si sviluppa il suo processo creativo e in che modo sceglie le parole capaci di tradurre in musica le sue emozioni più profonde?

Le parole sono complesse. Credo che nel cantautorato, come in tutte le forme d’arte più alte, servano onestà, ricerca e verità, affinché l’opera rimanga e non sia solo intrattenimento. Per questo servono le parole giuste per quello che si vuole raccontare. Sono importanti, vanno scelte attentamente. La semplicità è difficile da trovare: occorrono cura e attenzione, come un piccolo alchimista, come un artigiano che trova la parola giusta per dire quello che vuol dire.

Durante la sua partecipazione al Premio Tenco 2024 ha presentato un “requiem della canzone d’autore”, denunciando la progressiva perdita di contenuti nella musica contemporanea, che, pur mantenendo a volte un carattere provocatorio, risulta comunque “innocua” e spesso influenzata da algoritmi che premiano l’omogeneità digitale più che l’autenticità. Potrebbe approfondire la sua opinione sulla situazione attuale della canzone d’autore in Italia e sul ruolo che manifestazioni come Musicultura rivestono nel preservare e valorizzare questa tradizione?

Sicuramente la musica attuale rispecchia il periodo che viviamo. Oramai da molti anni si è molto ridotta la sfera di proposte della discografia e forse questo dipende appunto da questo momento un po’ desolante, un po’ triste, molto violento, molto preoccupato che la musica finisce per rappresentare. Eppure, penso che in tutto questo ci siano comunque una grande poesia e una notevole capacità di scrittura che magari adesso non sono in primo piano, ma continuano a esserci. Ci sono sicuramente tanti giovani che stanno scrivendo cose meravigliose proprio ora, laddove non c’è un grande riscontro di mercato. E quelle cose sono belle perché non le si sta scrivendo con un fine, perché il fine in questo momento è altro. Ma siccome le cose cambiano, e produzioni che ora non si immaginano come meritevoli di attenzione possono tornare a essere interesse di tutti, credo che presto verranno alla luce canzoni e artisti molto ispirati e poetici.