Fabrizio Biggio alla conduzione di Musicultura: “Voglio che sia una festa”

Volto noto della comicità italiana, ma anche conduttore, autore e ora pure scrittore per ragazzi: Fabrizio Biggio è uno di quei personaggi che sfuggono alle etichette e ai confini tradizionali dello spettacolo. La sua carriera poliedrica ha attraversato con disinvoltura televisione, radio, cinema e teatro, portando sempre con sé una cifra stilistica riconoscibile e originale. Dal grande successo come icona generazionale con I soliti idioti, Biggio ha saputo reinventarsi, diventando una presenza familiare e apprezzata nel panorama radiotelevisivo italiano, in particolare nel mattino di Viva Rai2! accanto a Fiorello, con cui ha instaurato un rapporto di complicità e spontaneità.

La sua comicità, sempre in equilibrio tra umorismo irriverente e viva curiosità, gli ha permesso di affrontare temi delicati con leggerezza ma sempre con grande acume, conquistando così un pubblico trasversale e fedele. Oggi, dopo anni di intensa attività e numerosi successi, Fabrizio Biggio si prepara a tornare sul palco con una nuova sfida: condurre le serate finali di Musicultura 2025 allo Sferisterio di Macerata, insieme a Carolina Di Domenico. Un appuntamento importante che segna non solo il suo ritorno alla conduzione di grandi eventi culturali, ma anche un’occasione per mostrare ancora una volta la sua versatilità e il suo talento poliedrico.

Prima di ingaggiarsi in questa nuova avventura, Biggio si è raccontato in questa intervista alla redazione di Sciuscià.

Ha iniziato la sua carriera televisiva negli anni ’90 con programmi come La Zanzara in Classe e MTV Mad, per poi diventare un volto noto ai molti grazie a I soliti idioti, condurre trasmissioni radiofoniche e televisive come Stracult, Viva Rai2! accanto a Fiorello, fino ad arrivare al teatro e ad eventi come il Concerto del Primo Maggio e i David di Donatello. Guardando indietro a questo percorso così variegato, come riesce a mantenere la sua identità artistica muovendosi tra televisione, radio, cinema e teatro?

L’artista è una persona che sente un bisogno impellente di raccontare qualcosa al mondo, spesso una propria visione della realtà. Io ho una mia visione del mondo e, in tutti i lavori che ho fatto, questa è sempre emersa. Quando sei onesto e non fai le cose solo perché “funzionano”, allora viene fuori una tua poetica. Bisogna sapersi ascoltare e capire davvero cosa si vuole raccontare.

Il progetto I soliti idioti ha avuto un impatto significativo sul pubblico e sulla scena comica italiana. Quello stile di comicità le appartiene ancora o nel tempo sente di essere cambiato?

Quella comicità lì ce l’ho ancora dentro, ma è vero che cerco un’evoluzione: sento l’esigenza di non fare sempre la stessa cosa. Lavorando con Fiorello ho scoperto altre strade comiche, un tipo di comicità un po’ meno dissacrante e più diretta. Quindi sì, sento il desiderio di esplorare, migliorarmi sempre e cambiare. Come un pittore che attraversa il periodo blu, il periodo rosa e così via, è vero che ci si annoia se si resta sempre uguali a se stessi. Io sono legato a quel tipo di comicità espressa ne I Soliti Idioti, che ci è venuta naturale, ma un’evoluzione è sempre ben gradita.

Negli ultimi anni la abbiamo vista sempre più spesso nei panni di conduttore: che tipo di libertà – o magari di responsabilità – le dà stare al timone di un programma rispetto al ruolo da comico o attore?

Io preferisco fare l’attore, perché recitare per me è un gioco. La conduzione, invece, mi diverte, ma è molto più faticosa: richiede una grande concentrazione e la capacità di improvvisare, dato che non sai mai cosa può succedere, soprattutto durante le dirette. Ricordo di aver chiesto un consiglio a Pippo Baudo su come essere un buon conduttore, e lui mi rispose che devi saper ascoltare. Ascoltando, infatti, puoi cogliere spunti che poi riutilizzi, magari in chiave comica. Questo ascolto continuo è fondamentale, ma anche molto impegnativo.

È con Carolina Di Domenico che condurrà le serate finali di Musicultura: come vi state preparando per salire sul palco dello Sferisterio e che tipo di intesa pensa si creerà?

Per quanto riguarda la preparazione, stiamo incontrando tutti i vincitori, chiacchierando con loro per creare più fluidità e sentirci più a nostro agio anche durante la conduzione. Cerchiamo sempre di non farci sopraffare dall’emozione di essere sul palco di Musicultura, che è sicuramente molto intenso. Per il resto, io e Carolina siamo amici, ma non abbiamo mai lavorato insieme, quindi scopriremo lì che tipo di intesa si creerà. Sono curioso, ma sono sicuro che ci sarà una buona sintonia; nella vita già c’è un ottimo rapporto, e questo aiuta molto: se nella vita si scherza e si ride, poi sul palco sicuramente arriva la magia.

Musicultura rappresenta oggi una realtà ben radicata nel panorama musicale italiano. Qual è il contributo che intende portare a questa storica manifestazione, giunta alla sua 36ª edizione?

Ho dei predecessori illustri e cerco di non pensarci troppo. Io porterò la mia leggerezza e il buon umore: voglio che Musicultura sia una vera festa, in cui il pubblico si senta coinvolto in prima persona, perché è lui il protagonista indiscusso, dato che sceglie il vincitore assoluto del Festival. Sì, insieme a Carolina cercherò di rendere questa manifestazione un momento di festa.


 

Cantautrici: s’il vous plaît, halte aux clichés!

Nella settimana de La Controra 2025, il Cortile del Palazzo Comunale ha ospitato l’incontro Cantautrici: s’il vous plaît, halte aux clichés!, un momento di confronto sul rapporto tra musica e stereotipi di genere, tra parole, note e sguardi femminili. Protagoniste dell’incontro Anna Castiglia e Roberta Giallo, in dialogo con John Vignola. Anche Danila Satragno, impossibilitata a essere presente, ha voluto comunque portare il suo contributo, intervenendo in collegamento telefonico per salutare il pubblico e ribadire l’importanza di abbattere i luoghi comuni ancora radicati nel mondo della musica.

L’atmosfera era quella di una conversazione aperta e partecipata, in cui il dialogo si è intrecciato con riflessioni profonde. John Vignola ha sollevato una questione ancora oggi centrale: è difficile mettere sullo stesso piano l’opera artistica di una donna e quella di un uomo, perché i meccanismi di selezione sono spesso filtrati da sguardi maschili, quando non apertamente maschilisti.

A questo proposito, Roberta Giallo ha espresso il suo punto di vista, parlando del controverso rapporto tra arte e fisicità femminile: «Non potrei dire a un’artista che usare il suo corpo come modello per affermarsi sia qualcosa di sbagliato». L’ospite ha poi raccontato un aneddoto su Édith Piaf: quando il compositore che avrebbe dovuto lavorare a La Vie en Rose si rifiutò, lei decise di andare altrove. Una scelta che incarna il desiderio delle donne di emanciparsi dall’ombra maschilista e conquistare la propria indipendenza: «Mi colpì l’idea – ha detto Giallo – che la donna, da allieva, diventasse maestra, assumendosi tutti i rischi che ciò comporta».

Perché la donna in musica rischia spesso di essere semplificata o sminuita. A Roberta Giallo è stato domandato se, nel suo percorso, si fosse mai trovata a fare i conti con la necessità di aderire a queste aspettative riduttive: «Mi sono posta questa domanda, ma ho capito che anche la semplicità può essere una forma espressiva autentica. Nel mio repertorio c’è spazio per brani che non sono necessariamente complessi o virtuosistici, ma che riescono comunque a comunicare e arrivare a tutti. Certo, non amo molto questa parola, “semplice”, perché tende a essere usata come etichetta, ma credo che possa avere un valore profondo.»

È intervenuta poi Anna Castiglia, parlando della competizione femminile nel mondo musicale. «Perché c’è questa rivalità? Non perché sia una delle caratteristiche genetiche della donna, ma perché gli spazi che ci vengono concessi sono ancora troppo pochi. Di conseguenza, tutte tendono ad accanirsi su quegli stessi, e chi riesce a emergere finisce spesso per essere odiata. Se le opportunità fossero più ampie, ci sarebbe meno competizione. Per questo credo che cooperare sia un esercizio importante: ci allena a superare quella tensione che, volenti o nolenti, ci portiamo dentro».

Questa riflessione si concretizza nel collettivo Canta Fino a Dieci, nato a Torino da cinque cantautrici transfemministe. «Per me far parte di questo collettivo è un vero esercizio: mi aiuta a ridimensionare l’ego – spiega Castiglia –  e a mettere in discussione l’idea, ancora troppo diffusa, che tra donne debba esserci antagonismo. Insieme alle altre ragazze cerco ogni giorno di costruire qualcosa, puntando sulla collaborazione anziché sul confronto continuo». Roberta Giallo aggiunge: «ho incontrato donne ostili, non preparate alla collaborazione, ma anche donne che mi hanno capita, mi hanno apprezzata, mi hanno aiutata».

John Vignola ha poi osservato come spesso le case discografiche spremano gli artisti, indipendentemente dal genere, fino all’osso, creando nel pubblico l’aspettativa che un artista debba produrre costantemente, senza mai fermarsi. «Non dico che l’andare avanti a tutti i costi ed essere tenaci sia sbagliato – ha affermato Castiglia – ma riconosco che è qualcosa che ho interiorizzato e mi è stato trasmesso culturalmente. Però si può, e si deve, lavorare per decostruire questi meccanismi ».

Alla fine dell’incontro Roberta Giallo ha espresso un desiderio: «Voglio che oggi o domani possa esistere una tradizione di donne che abbiano lasciato un segno nella musica. Non solo per l’estetica della voce o per la presenza scenica, ma perché hanno saputo veicolare le loro parole, le loro idee, attraverso le canzoni.». Anna Castiglia ha poi aggiunto: «Cominciate a fare caso se nei festival, nei programmi televisivi o nel mondo dell’intrattenimento trovate davvero un ambiente paritario. E, se non lo è, fatelo notare anche a chi vi sta intorno. Per me, la comunicazione viene prima di tutto: parlate di questi temi, anche se vi dicono che state esagerando».

Salutando il pubblico, John Vignola ha lanciato una riflessione provocatoria ma essenziale: perché alcune frasi, come “le donne sono migliori degli uomini”, sembrano meno sessiste di altre? La vera sfida – suggerisce – è riconoscere che anche un’apparente benevolenza può celare uno squilibrio di fondo, e che ogni affermazione merita sempre uno sguardo critico e attento.


 

Alla scoperta della verità, parola per parola: intervista a Edoardo Camurri

«La verità è un coinvolgimento esistenziale profondo per noi esseri umani», afferma Edoardo Camurri. Non è, dunque, solo una questione filosofica o astratta: la verità è sentimento, momento, presenza. È il coraggio di sporcarsi le mani. E la lingua, in questo percorso, è lo strumento con cui l’essere umano la cerca: un mezzo potente che può opprimere o liberare. In attesa dell’uscita del suo nuovo libro La vita che brucia, a settembre nelle librerie, Camurri — giornalista, scrittore e speaker radiofonico — racconta cosa significhi per lui cultura e come vive il processo di scrittura. Lo fa nel suo primo ingresso a Musicultura, nel Cortile di Palazzo Buonaccorsi, nell’ambito degli eventi de La Controra.

A settembre uscirà La vita che brucia, appena un anno dopo Introduzione alla realtà, che ha colpito per il suo stile psichedelico e intimista. Il nuovo libro mantiene una continuità narrativa o rappresenta un cambio di rotta? Quali “spiriti” hanno accompagnato questa nuova scrittura, come accennava nell’intervista a Minima&Moravia?

Che bello, questa è la prima intervista su La vita che brucia: in un certo senso è un battesimo. Non voglio anticipare troppo, ma qualcosa ti dico . Gli spiriti che hanno protetto il primo gattone (riferimento a Introduzione alla realtà, ndr.) sono gli stessi che proteggeranno anche questo secondo gattone. In Introduzione alla realtà, invitavo me stesso, le lettrici e i lettori a immergersi nel cuore della realtà e, come scrivo nel libro, a incontrare l’albero del Thauma, quindi la sua origine. Ecco, adesso si fa il passo ulteriore.

Quindi è un proseguimento?

Direi piuttosto un approfondimento, nel senso che si entra davvero dentro il Thauma. Non è più soltanto un’esortazione, ma una vera e propria azione. La porta d’ingresso che ho scelto è la sofferenza universale che accomuna tutti gli esseri viventi. In questo viaggio dentro la realtà, attraversando la soglia della sofferenza, c’è un grande bisogno di spiriti che ci accompagnino e proteggano. Nel mio caso, lo spirito che ha guidato e sostenuto questo cammino è stato soprattutto quello del ragionamento, del pensiero critico. Il libro è, in fondo, un grande elogio al pensiero e alla filosofia, visti come forze capaci di sostenerci e guidarci attraverso le difficoltà e il dolore.

Restando in ambito di filosofia e cultura, lei definisce spesso quest’ultima come strumento e non fine, come una connessione. Citando il suo amato Epitteto: «Non sono le cose a turbare gli uomini, ma le loro opinioni sulle cose». Oggi, con l’accesso massivo a informazioni manipolate e fake news, quanto questa connessione culturale è minacciata?

È una domanda complessa. Il problema di distinguere il vero dal falso non è affatto una novità, e il dibattito che la tecnologia oggi ci pone non è che un capitolo di una questione che attraversa tutta la storia umana. Anzi, riconoscere la verità, interrogarsi sul suo significato e non confondere l’inganno con la realtà è uno dei temi fondamentali del nostro essere umani. Queste questioni vanno affrontate con approccio filosofico, con attenzione e senza paura di “sporcarsi le mani”. Servono anche un’intelligenza critica che sappia smascherare le falsità, ma soprattutto una profonda connessione con l’esperienza, la vita e il cuore. Questo insegnano la storia e la filosofia sapienziale: la verità non è solo un concetto astratto, ma un’esperienza che coinvolge sentimenti, speranze, paure e desideri. Non dobbiamo mai dimenticarlo, perché altrimenti rischiamo di pensare alla verità come a un oggetto da misurare o da calcolare, qualcosa di distante da noi; in realtà è un coinvolgimento esistenziale profondo, qualcosa che dobbiamo imparare ad abitare nella nostra quotidianità. E infine, non è detto che la falsità sia priva di qualche verità, così come la verità può contenere qualche elemento di falsità. Proprio in questo equilibrio sottile si gioca la complessità del riconoscere ciò che è reale.

La prof.ssa Bolzoni nel suo programma ironizzava sui censori che “forniscono liste di letture interessanti”. Quali sono state le letture fondamentali che hanno nutrito il suo pensiero e portato alla nascita di Introduzione alla realtà ed in generale al suo metodo?

Questa è stata una frase molto bella di Lina Bolzoni, e sono completamente d’accordo: le liste dei libri censurati sono sempre le più interessanti. Nella mia lista per Introduzione alla realtà ce ne sono veramente migliaia. Fare un elenco è molto complicato, posso dire, però, quelli che  per me sono degli autori imprescindibili, e che infatti compaiono nel mio libro: Joyce, Elsa Morante, soprattutto con Il mondo salvato dei ragazzini, Giorgio Colli. Poi ancora, i grandi maestri dell’antica Grecia e dell’India, la tradizione ebraica, cassidica, Nietzsche. Tutto sommato, gli autori che a me interessano e che amo hanno un elemento in comune: sono scrittori del grande sì, che hanno come istinto e come predisposizione esistenziale l’affermazione e che fanno di tutto per non dire no. Preferiscono il sì al no, preferiscono che ci sia qualcosa piuttosto che nulla.

Prima parlavamo di un battesimo e questo è il suo battesimo a Musicultura, il primo ingresso al nostro festival: cosa l’ha colpita e che emozione le ha lasciato?

Mi sembra tutto molto bello, piacevole e allegro. Sono davvero contento di aver presentato Introduzione alla realtà e, soprattutto, di avere l’occasione (nell’incontro Le Parole delle Canzoni del, 20 giugno, ndr.)  di chiacchierare con un grande amico: Davide Panizza, in arte Pop X, che per me è un genio assoluto. Lo considero il più grande cantautore italiano vivente. L’idea che Musicultura e Macerata abbiano fatto incontrare il gattone con Pop X mi riempie di gioia e mi sembra un segno bellissimo.

Nell’intervista per MOW parlava del rischio di damnatio memoriae per chi rifiuta le strutture che modellano la realtà, inclusa la lingua. Ma la lingua è anche poesia, amore, creazione. Come vive questa doppia natura della lingua chi, come lei, la usa per scrivere e raccontare?

Questo è un grande tema. Perché la lingua è sempre una struttura di potere e nello stesso tempo è anche una struttura di liberazione dal potere stesso. Ricordiamo che, per esempio, Joyce scrisse in inglese, quindi utilizzò la lingua dei conquistatori della sua Irlanda per poter liberare l’Irlanda stessa. Quindi, certo, si cammina sempre un po’ sul filo del rasoio. Quello che ho un po’ imparato dai grandi scrittori e pensatori è che una delle qualità fondamentali del lavoro intellettuale dovrebbe essere la capacità di accorgersi dei luoghi comuni, delle frasi fatte. Non necessariamente per rifiutarli, ma per prenderne consapevolezza. È questo che conta: avere coscienza di ciò che si dice, soprattutto quando si ha a che fare con la lingua, che può essere tanto uno strumento di oppressione quanto uno strumento di liberazione. Il compito, allora, è abitare la lingua con attenzione, starci dentro davvero. Allo stesso tempo, bisogna abbracciare, amare, gettarsi a capofitto nelle opere dei grandi maestri che attraverso la loro lingua e le loro opere hanno conquistato spazi che noi persone normali non saremmo in grado di calpestare. Credo che il nostro compito sia quello di abitarli con fiducia, sapendo che non corriamo alcun pericolo, perché qualcuno, più grande di noi, ci è già passato prima, rendendo possibile per tutti l’accesso a quel linguaggio, a quello stile. Abitare quegli spazi diventa allora un atto di libertà e di gioia: una forma di riconoscenza verso le grandi opere, gli artisti, i poeti, i filosofi che li hanno conquistati per noi. E quando ci muoviamo dentro quelle parole, quelle visioni, siamo salvi.


 

Afa estiva? Ci pensa Refresh

Refresh, ovvero: una rinfrescata d’estate, un ritorno agli artisti che ci hanno emozionato e un nuovo slancio per la musica dal vivo nel cuore di Macerata. Dal 17 al 19 giugno, Piazza Vittorio Veneto è stata palco una rassegna che ha ospitato tre serate di concerti live a ingresso gratuito, con protagonisti alcuni degli artisti vincitori delle passate edizioni del concorso. L’iniziativa, realizzata con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE nell’ambito del programma Per Chi Crea”, è nata con l’obiettivo di dar vita a un nuovo spazio di ascolto e incontro tra pubblico e artisti, restituendo centralità ai talenti emersi da Musicultura.

La prima serata si è aperta con un tuffo – che refresh sarebbe, altrimenti?- nel passato grazie agli Yosh Whale, vincitori assoluti dell’edizione 2022. La band, che in quell’anno ha conquistato anche il premio per il miglior testo e il premio NuovoIMAIE, è tornata sul palco con la sua musica che, come ha raccontato in un’intervista, «È come un buon vino bianco»: fresca, avvolgente e capace di sorprendere a ogni sorso.

La seconda serata ha segnato il ritorno dei The Snookers, a solo un anno dalla loro finalissima allo Sferisterio. Sul palco hanno portato l’energia del loro secondo album, che – come raccontano loro stessi – ha rappresentato un punto di svolta, «un momento in cui ci siamo sentiti di andare nella direzione giusta».  Con la loro esibizione intensa ed emotiva, ma anche allegra e frizzante, hanno confermato la maturità raggiunta e il legame ancora vivo con il pubblico di Musicultura.

La rassegna si è chiusa con una doppia performance: a concludere questi tre giorni di musica sono stati Nico Arezzo e Anna Castiglia, entrambi finalisti nella passata edizione di Musicultura. L’esibizione del primo è stata un crescendo di emozioni, arricchita da un gioco di luci calde che avvolgevano il palco e si intrecciavano perfettamente con l’espressività della voce dell’artista. In uno dei momenti più coinvolgenti della serata, poco prima di concludere la sua performance, Nico ha sorpreso il pubblico invitando sul palco Anna Castiglia per interpretare insieme Nicareddu, il brano con cui aveva conquistato la vittoria a Musicultura l’anno precedente. Due voci, due anime e una stessa terra d’origine – la Sicilia – a unirle.

Anna Castiglia, invece, dopo aver conquistato nel 2024 la vittoria assoluta di Musicultura, è tornata a Macerata con l’energia brillante e ironica che la contraddistingue. Le sue canzoni, capaci di raccontare la vita con occhi lucidi e penna affilata, hanno sottolineato ancora una volta l’urgenza espressiva che l’ha fatta amare dal pubblico e dalla critica. Durante la sua performance, il Direttore artistico del Festival, Ezio Nannipieri, è salito sul palco per condividere con il pubblico un augurio sentito: che Refresh possa tornare anche nei prossimi anni, diventando un appuntamento fisso dell’estate maceratese. Del resto, la rassegna ha saputo trasformare una piazza in luogo dove la musica diventa memoria e promessa, celebrando giovani artisti, raccontando storie di ritorni e nuove partenze, sottolineando come il legame tra Musicultura e i suoi protagonisti sia fatto di emozioni che non si esauriscono con la vittoria, ma si trasformano e si rafforzano nel tempo.


 

Il tempo è umano e l’umano è tempo: storto e frantumato

Musicultura. E quindi, non solo musica.

Ma anche versi, scrittura e – com’è giusto che sia – le parole, al centro di tutto. È in questo spirito che si inserisce la rassegna “Poesia, nuove voci”, due incontri dedicati alla poesia contemporanea, che vedono protagonisti quattro voci poetiche del panorama italiano, in dialogo con Ennio Cavalli, poeta e giornalista di lungo corso.

Un confronto sul significato e sul ruolo della poesia oggi, tra momenti di riflessione e letture ad alta voce, ospitato nel cuore di Macerata durante La Controra, la settimana di arte, cultura e spettacolo che apre la fase finale della XXXVI edizione di Musicultura.

Un’occasione per ascoltare chi alla poesia affida uno sguardo sul mondo e su di sé.

Il primo incontro vede il confronto tra Giorgiomaria Cornelio e Beatrice Zerbini, due poeti uniti da un’idea condivisa: la stortura, ovvero quelle ferite interiori che, pur segnandoci, ci restituiscono una nuova immagine di noi stessi. Questa visione richiama la filosofia del kintsugi, antica tecnica giapponese che ripara gli oggetti danneggiati rendendoli più preziosi proprio nelle loro crepe.

Giorgiomaria Cornelio, nato a Civitanova Marche e cresciuto artisticamente nella celebre fornace di Smorlesi, parla di una “specie storta” a cui tutti apparteniamo: una comunità di sconfitti e deviati che, nonostante le ferite, porta con sé una luce particolare. La sua poesia è un intreccio di mito, cinema e parola, che non pretende di insegnare, ma di accompagnare il lettore in un viaggio attraverso alfabeti dimenticati e linguaggi naturali. Cornelio descrive il viandante – figura centrale nelle sue opere – come «la commisura del piede al vento», simbolo di un cammino sempre in movimento. In un mondo dominato dalla noia e dall’omologazione, egli sottolinea l’urgenza di grandi narrazioni capaci di riscrivere le mappe dell’esistenza. «I periodi di crisi di millenarismo interiorizzato sono complessi – afferma – e allora servono narrazioni immense, titaniche o anche piccole, non importa».

La bolognese Beatrice Zerbini, invece, si presenta con una voce più intima e domestica. Cresciuta in una casa silenziosa e a tratti solitaria, la sua poesia nasce dall’infanzia, dall’amore e dalle malinconie che le appartengono, mantenendo uno sguardo adulto ma sempre puro e fanciullesco. La sua scrittura è un atto di vulnerabilità sincera: nel libro In comode rate racconta la vita e il dolore pagati all’esistenza in piccole dosi: «Più sei onesta e arrivi al nocciolo della verità, più l’altro può indossare i tuoi panni», spiega. La sua poesia diventa così una sorta di «psicoanalisi condivisa», in cui ogni dettaglio assume un valore significativo ed empatico. Per lei, la poesia non è una metafora astratta, ma una sensazione tangibile, un gesto d’amore che tocca, cura e accompagna chi ascolta, tendendo la mano a chi ha bisogno: «A chi dire “Torna prima che faccia buio”? – A un mondo intero».


Nel secondo appuntamento della rassegna, le protagoniste sono Beatrice Achille e Mariachiara Rafaiani, due voci che esplorano la poesia attraverso archetipi e percezioni profonde. Achille, triestina con una formazione filosofica, si concentra sulla parola orale, quella sussurrata, perché crede che «la parola detta sia più intima e più sacra di quella scritta».

Nel suo lavoro Le Medeatiche, rilegge il mito di Medea non solo come una tragedia antica, ma come un gesto umano estremo e difficile da comprendere. Medea diventa per lei il simbolo dell’estirpazione del sé, cioè della perdita di se stessi, e dell’impossibilità di raggiungere una vera catarsi – quella purificazione interiore tipica della tragedia greca – nel mondo moderno, dove tutto è centrato sull’«io». Come spiega Achille, «l’esperienza catartica greca nasceva in un contesto in cui non si diceva io: l’ego veniva usato pochissimo, e mai in senso autoriferito. Oggi, invece, questa parola è ovunque».

Mariachiara Rafaiani, filologa classica, concepisce la poesia come un atto di riscrittura del presente attraverso gli eterni archetipi del passato. Nel suo libro L’ultimo mondo, scritto tra Londra e l’Italia nel 2020, in piena emergenza pandemica, immagina tre scenari possibili di fine del mondo. In queste pagine, il tempo si frammenta e la realtà si cristallizza in un eterno presente; le sue poesie si fanno testimoni di questa condizione post-catastrofica, intessendo profonde riflessioni: «Il mondo lo immagino disgregato sulle spiagge, come lembi strappati da qualcuno in corsa».

Attraverso la sua scrittura, Rafaiani ci invita a riconoscere nella poesia non solo una guida capace di orientare nei momenti di crisi, ma anche un archivio emotivo collettivo, in cui verità soggettive si intrecciano e si riflettono a vicenda. Come afferma lei stessa: «Le questioni private sono lo specchio della collettività e viceversa».

Insomma, il filo rosso di questi interventi è l’idea di poesia come strumento di resistenza e rinascita. Ogni poeta, con la propria voce singolare, mette in luce la fragilità umana e la necessità di riconoscere e valorizzare le ferite interiori: Cornelio celebra la «specie storta», emblema di un’umanità imperfetta ma luminosa; Zerbini esprime la delicata forza della cura e della condivisione; Achille indaga la profondità insondabile dell’animo umano; Rafaiani intreccia il fluire del tempo con la ricerca di verità profonde. In tutti, la poesia emerge come un atto d’amore rivolto a sé e agli altri, un universo personale che diventa esperienza collettiva.


 

“Un’onda sonora che è nata sin dal primo giorno”: Niccolò Fabi ospite a La Controra 2025

C’è un modo di fare musica che non insegue il tempo, ma lo ascolta. Niccolò Fabi da quasi trent’anni attraversa la scena cantautorale italiana con la discrezione di chi preferisce scavare piuttosto che esporsi, e con la coerenza di chi ha fatto della parola – prima ancora che della voce – un gesto dell’anima. “La canzone è un piccolo orologetto, che sembra semplice, ma è tutto un gioco di ingranaggi”, racconta al pubblico di Palazzo Buonaccorsi. E in quei meccanismi nascosti si annidano i suoi racconti: oltre 90 brani, nove dischi, collaborazioni, premi e progetti che lo hanno reso uno degli autori più profondi e riconoscibili del nostro panorama musicale.

Nel suo nuovo lavoro, Libertà negli occhi, Fabi rinnova il proprio sguardo: un disco nato da un’esperienza immersiva tra le montagne, lontano da tutto, condivisa con altri artisti e amici (Roberto Angelini, Alberto Bianco, Filippo Cornaglia, Cesare Augusto Giorgini ed Emma Nolde): “Un’onda sonora che è nata sin dal primo giorno”.

Un “esercizio di libertà” in cui l’introspezione si fa collettiva, e dove “la voce umana”, unica e irripetibile, si mette al servizio di una musica che si apre, respira, accoglie. “Il punto non è di cosa parlano le canzoni, ma come raccontano le emozioni che il cantante prova”, dice. E in questo album le emozioni prendono forma in un equilibrio cercato tra scrittura profonda e arrangiamenti generosi, tra le parole che accendono un senso e la musica che lo lascia fluire.

A La Controra, tra riflessioni sulla creazione, sulla libertà artistica e sull’importanza dei luoghi e dei rituali dell’ascolto, Niccolò Fabi ci accompagna dentro la genesi del suo nuovo viaggio sonoro, di cui parla anche in questa intervista.

Dopo nove album in studio e numerosi progetti collaterali, come riesce ancora a trovare ispirazione per scrivere nuova musica? Cosa sente di voler raccontare oggi, a quasi trent’anni dall’inizio del suo percorso?

Ho collaborato con diversi progetti musicali, quali Discoverland e il disco con Gazzè e Silvestri. Questo mi ha portato, lungo la mia carriera, a guardare altrove, a ricaricarmi di energie e uscire un po’ dall’ossessione di sé che il cantautore ogni tanto ha. Banalmente, poi, la vita ti offre motivi di ispirazione non a comando. Se sei bravo a cogliere quei momenti un po’ magici riesci a trasmetterli su canzone. Indubbiamente andando avanti con gli anni è sempre più difficile perché tante cose sono state già scritte. Il rischio di ripetersi per tutti i cantautori è quasi inevitabile.

Libertà negli occhi è nato da un’esperienza immersiva, quasi isolata, in uno chalet nei boschi insieme ad altri artisti. Sentiva il bisogno di rifugiarsi nella musica per creare qualcosa di nuovo in questa dimensione collettiva?

Quando la scrittura è molto personale e intima, ho sempre pensato che fosse importante farla risuonare con le sensibilità altrui, per non diventare autoriferita. È stato anche un modo per stimolare l’aspetto un po’ più giocoso che emerge quando più musicisti sono insieme in una stessa stanza e si mettono a suonare. Questo alza il livello di energia e divertimento e, se si riesce a trovare l’equilibrio giusto insieme ad un’intensità nei testi, il risultato può essere positivo.

In questo ultimo album, più che nei precedenti, si percepisce un forte contrasto tra una scrittura intima e profonda e arrangiamenti ricchi, aperti alla sperimentazione. È stato un equilibrio cercato o nato in modo naturale?

È stato cercato. Venivo da un disco, Una somma di piccole cose, prodotto totalmente in solitudine. È un tipo di esperimento che ogni cantautore desidera fare. È sempre un disco speciale quello chitarra e voce, da Bruce Springsteen con Nebraska a Bon Iver con For Emma, Forever Ago. In questo caso invece, avendolo già fatto, mi sembrava rischioso ripetere l’esperienza. Volevo rimanesse una cosa unica. E quindi ho arricchito le canzoni con l’interazione con degli amici musicisti che hanno degli stili e delle sensibilità simili alle mie.

Una curiosità sulla modalità di uscita dell’album: prima il formato fisico, il 16 maggio, e poi lo streaming, il 13 giugno. Da cosa nasce questa scelta controcorrente rispetto alle logiche del mercato digitale?

La voglia era quella di provare a fornire ai miei appassionati l’idea di fruire un disco in una maniera speciale. Cercando di seguire una ritualità, che è quella di recarsi in un posto, in contrasto con la facilità con cui dallo stesso device con cui mandiamo le mail e i messaggi premiamo play, mettiamo una canzone e la togliamo in un secondo. È un po’ come si fa nel cinema, quando per i primi mesi il film è nelle sale per gli amanti di quell’esperienza e poi esce sulle piattaforme. E cosi andare al negozio, prendere un disco, scartarlo, metterlo sul piatto e ascoltarlo. Dopodiché, siamo nel 2025, sarebbe stato anacronistico e snobistico tenerlo solo in formato fisico.

Nel panorama odierno del cantautorato italiano, quale pensa sia il potere di un festival come Musicultura nel riscoprire, valorizzare e dare nuova linfa a questa forma d’arte che, pur radicata nella tradizione, continua a reinventarsi?

Il cantautorato fa fatica in questo momento storico a trovare un suo spazio. Anche perché il linguaggio principale, soprattutto dei ragazzi è un altro, ed è anche giusto che sia così. Però, lavorando all’ Officina Pasolini, mi rendo conto che ci sono ancora molti artisti che hanno un approccio alla canzone cantautorale. E allora per loro Musicultura rappresenta uno stimolo, non fa sentire inutile ogni loro tentativo, quando spesso il mercato li demoralizza. Gli artisti hanno bisogno di stimoli, hanno bisogno di vedere la luce in fondo al tunnel, un palcoscenico dove ancora sono accettati senza doversi camuffare. Ed ecco che forse Musicultura è l’unica oasi riconosciuta dove questi ragazzi possono provare a indirizzare i loro sforzi.  È importante, quando porti avanti un progetto, pensare che comunque puoi aspirare a un palcoscenico. Non uno spazio in senso elitario, ma una ragione per provarci.


 

Per un carcere minimo: parole, musica e giustizia oltre le sbarre

Ci sono confini che non si vedono ma si sentono, e altri che si vedono e che, se attraversati con la musica, iniziano a trasformarsi. E di una piccola, grande trasformazione è protagonista il progetto La casa in riva al mare, che dall’autunno del 2023 porta nel carcere Barcaglione di Ancona, e anche fuori dalle sue celle, un dialogo fatto di canzoni, racconti, ascolto e consapevolezze. Proprio di questo si è parlato, ieri, nella Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi-Borgetti di Macerata, dove alle 18.00, nell’ambito degli eventi in calendario per La Controra, si è tenuto l’incontro Per un carcere minimo. Protagonisti dell’appuntamento sono stati Silvia Cecchi, magistrato e scrittrice, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, Garante regionale dei Diritti della Persona, e il Direttore artistico di Musicultura, Ezio Nannipieri. È stato quest’ultimo a prendere per primo la parola: «La casa in riva al mare nasce da un’intuizione dell’avvocato Giulianelli: fare entrare la musica in carcere e uscirne con qualcosa di più grande, portando una ventata di aria fresca dall’esterno verso l’interno. E viceversa. Perché volevamo che questo ponte non fosse a senso unico».

E così è stato. I detenuti sono diventati protagonisti del Festival, entrando a far parte di una speciale giuria che assegna uno dei riconoscimenti ai vincitori di Musicultura, partecipa alle premiazioni allo Sferisterio e assiste poi, all’interno del carcere, a un concerto di quegli stessi artisti.

Durante l’incontro, il pubblico ha potuto ascoltare anche alcune testimonianze di chi ha preso parte all’iniziativa. Helle, vincitrice del premio La casa in riva al mare 2024, ha ricordato l’intensità di quel concerto speciale: «Suonare in un carcere è stata un’esperienza profonda, perché il pubblico era affamato di musica». Anna Castiglia, vincitrice assoluta di Musicultura 2024, ha aggiunto: «Portare la musica dove di solito non c’è mi ha toccata molto».

Ma Per un carcere minimo non è stato solo un racconto emotivo. È stato anche un momento di pensiero critico riguardo a questa istituzione: «Il carcere – ha affermato Silvia Cecchi – è una pena totalitaria, perché comporta l’identificazione dell’individuo col fatto. Al suo interno si perdono la connessione con la realtà, il senso del tempo e dello spazio. Per di più, non ha mai abbassato il livello di recidivismo».

«La tesi che mi sembra più corretta – ha proseguito – è quella di un carcere residuale, un’estrema ratio.  I casi in cui come magistrato ho chiesto il carcere perché ho captato la pericolosità del soggetto sono veramente pochi. Dobbiamo educare a intercettare le pericolosità. Si è detto che si esce dal carcere quando non si è più pericolosi, allora perché non utilizzare lo stesso principio al contrario, per entrare nel carcere? Il carcere non dovrebbe essere la risposta a ogni condanna”.

A far da eco Giancarlo Giulianelli, che ha ribadito l’importanza di un concetto spesso frainteso: «Parlare di carcere residuale non significa abolire il carcere. Significa restituirgli una funzione diversa, umana, coerente con i principi costituzionali. Musicultura ci aiuta a rendere quel carcere un carcere minimo, così come lo fanno gli altri corsi e le altre attività che organizziamo. Quest’anno, per esempio, tredici detenuti sono usciti in stage, e sei di loro sono stati poi inseriti in percorsi lavorativi. Trovare tredici luoghi di lavoro disposti ad accoglierli è stata la parte più difficile. Ma oggi possiamo dire che il tutto ha funzionato”.

A chiudere l’incontro sono state le voci dei detenuti coinvolti nell’edizione 2025 del progetto. In un video proiettato durante l’evento, hanno raccontato pensieri, impressioni, emozioni nate dall’ascolto delle canzoni in gara: “Quando ci venite a trovare – ha detto uno dei partecipanti al laboratorio musicale – ci date una finestra in più”. La finestra de La casa in riva al mare.


 

Vent’anni dopo: Simone Cristicchi a Musicultura

Musica, teatro. Ricordi. Ironia e poesia. Risate e commozione. Questi gli elementi che hanno caratterizzato l’incontro di ieri sera di Simone Cristicchi con il pubblico de La Controra. Intervistato dal giornalista Andrea Scanzi, il cantautore è tornato vent’anni dopo sul palco di Musicultura, dopo la sua vittoria del Festival con Studentessa universitaria. Lo ha fatto nell’ambito di un evento dedicato ripercorrere la strada che da quel lontano 2005 l’ha portato a essere uno degli artisti più apprezzati nel panorama musicale italiano. Così, Cristicchi si è raccontato con la sincerità che lo contraddistingue, ripercorrendo le tappe più significative della sua carriera: dall’elaborazione del dolore personale all’impegno civile, dall’amore per il disegno alla musica, fino alla creazione di un linguaggio creativo capace di unire poesia, denuncia sociale, ironia. Tra un aneddoto e una canzone, ha condiviso con una platea numerosa e attenta il senso più autentico del suo percorso: quello di un uomo che ha trasformato la fragilità in forza espressiva e l’arte in strumento di cura. Tenendosi legato stretto a un fil rouge: la condivisione.
Ecco cosa ha raccontato alla redazione di Sciuscià prima di salire sul palco.

La sua è una carriera fatta di parole, storie, memoria, e di un modo del tutto personale di stare in scena. Se dovesse tracciare una linea che unisce il suo primo disco al suo lavoro più recente, quale sarebbe secondo lei il filo rosso che tiene tutto insieme?

Il filo rosso è la condivisione. La condivisione di tutto quello che fa parte del mio mondo, della mia dimensione interiore, con un pubblico composto da persone che magari si rivedono – o almeno si incuriosiscono – in ciò che riesco a creare. È questo il motivo per cui faccio questo mestiere, chiamiamolo così: una forma di condivisione. Ed è proprio questo che per me conta davvero.

Ti regalerò una rosa, brano con cui ha vinto Sanremo nel 2007, ha portato all’attenzione del grande pubblico un tema delicato come il disagio psichico. In un’epoca in cui si cerca sempre di “mostrare” la parte più forte e felice di sé, pensa che la fragilità, se raccontata con sincerità, possa ancora creare connessioni autentiche con il pubblico?

Mah, questo non lo so. Oggi c’è molta diffidenza, è vero. Però c’è anche un pubblico che sa percepire quando qualcosa è autentico e quando invece è costruito, falso. Quindi direi: metà e metà. La fragilità, comunque, è la parte più autentica che c’è in ognuno di noi. E quando riusciamo davvero a toglierci la maschera, a mostrarci per quello che siamo, è proprio lì che diventiamo perfetti.

Il pubblico la segue con affetto e attenzione da anni, anche perché percepisce una forte autenticità nel suo modo di fare arte. Quanto conta, secondo lei, restare fedeli a se stessi in un percorso artistico che dura nel tempo?

Restare fedeli a se stessi è fondamentale. Bisogna costruire una propria credibilità, anche se questo comporta dei rischi. Perché spesso capita che chi finge o interpreta un personaggio abbia un grande successo, mentre chi resta autentico può ottenere meno visibilità o riconoscimenti. Però, io la vedo così: è molto meglio essere un anonimo perbene piuttosto che un mediocre di successo.

Nei suoi progetti ricorre spesso il desiderio di portare alla luce memorie sommerse, voci dimenticate. Che cosa la colpisce in queste vicende e perché sente il bisogno di riportarle alla luce attraverso la sua arte?

Il bisogno che sento è quello di restituire dignità a certe cose che sono rimaste nell’ombra, quindi portarle alla luce in modo che possano avere nuova vita. Secondo me, l’artista ha un grande privilegio: quello di poter dare voce a chi voce non ce l’ha. Per questo, chi scrive canzoni o fa musica e teatro, come me, può scegliere di mettersi al servizio di storie nascoste, di persone e realtà più fragili e dimenticate.

Musicultura è da sempre un luogo dove i giovani artisti possono far sentire la propria voce. Se un cantautore agli inizi le chiedesse da dove partire, quale sarebbe secondo lei il primo passo da fare per costruire un percorso autentico nella musica e restare fedeli a ciò che si ha davvero da dire?

Secondo me, come dicevamo prima, è davvero importante restare fedeli a se stessi, senza copiare nessuno o diventare il clone di qualcun altro. È fondamentale. Inoltre, non bisogna inseguire a tutti i costi il successo, perché può essere una specie di lama a doppio taglio, con dei lati negativi. La cosa più importante è godersi il fatto di poter fare musica, di poter creare, anche solo questo. Non è necessario rincorrere il successo, che a volte può essere solo un incidente di percorso.


 

Tricarico, Antonella Ruggiero e Vinicio Capossela sono i primi protagonisti di Musicultura 2025

Musicultura apre il sipario sulla XXXVI edizione annunciando i primi ospiti che saliranno sul palco dello Sferisterio di Macerata nelle due serate finali del Festival, in programma venerdì 20 e sabato 21 giugno 2025.

Venerdì 20 giugno, andranno in scena due tra i più originali cantautori del panorama italiano: a dieci anni dalla sua ultima partecipazione al Festival torna Vinicio Capossela, artista poliedrico e sperimentatore sonoro in grado di fondere mito e presente, sacro e profano; e Tricarico, penna fuori dagli schemi e autore di brani dal lirismo tagliente e imprevedibile.
Sabato 21 giugno sarà, invece, la volta di una voce iconica della musica italiana: Antonella Ruggiero, interprete raffinata e dallo stile inconfondibile, capace di attraversare generi e decenni con eleganza e intensità.

Cresce intanto l’attesa per conoscere i nomi degli otto vincitori del Concorso, che nelle serate finali di Musicultura saranno protagonisti sul palco insieme a prestigiosi ospiti del festival. Dopo una selezione partita da oltre mille candidature, le sedici proposte finaliste sono in questi giorni al vaglio dell’illustre Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura, che designerà gli otto vincitori e che è composto: Francesco Amato, Enzo Avitabile, Claudio Baglioni, Diego Bianchi, Francesco Bianconi, Maria Grazia Calandrone, Giulia
Caminito, Luca Carboni, Guido Catalano, Ennio Cavalli, Carmen Consoli, Simone Cristicchi, Gaetano Curreri, Dardust, Teresa De Sio, Cristina Donà, Giorgia, Mariangela Gualtieri, La Rappresentante di Lista, Ermal Meta, Mariella Nava, Susanna Nichiarelli, Piero Pelù, Vasco Rossi, Ron, Sydney Sibilia, Tosca, Paola Turci, Roberto Vecchioni, Sandro Veronesi e Margherita Vicario.

Gli artisti vincitori del concorso, si esibiranno tutti e otto sia venerdì 20 che sabato 21 giugno. La somma dei voti del pubblico delle due serate consacrerà il Vincitore Assoluto della XXXVI edizione, al quale andrà il Premio Banca Macerata di 20.000 euro.
I nomi dei vincitori saranno svelati il prossimo 12 giugno, durante il concerto in diretta su Rai Radio1 dalla storica Sala A di Via Asiago a Roma, appuntamento attesissimo che rappresenta uno dei momenti cardine del percorso artistico della manifestazione.

La direzione artistica di Musicultura, fedele alla propria vocazione di valorizzazione della canzone d’autore contemporanea, promette anche per quest’anno un cartellone ricco di sorprese: i presentatori delle due serate e gli ospiti in cartellone verranno annunciati nei prossimi giorni.

Musicultura presenta REFRESH

Con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”, Musicultura arricchisce la settimana finale del Festival con una nuova iniziativa: Refresh.

Dal 17 al 19 giugno, in Piazza Vittorio Veneto a Macerata, tre serate di musica live a ingresso gratuito offriranno al pubblico l’occasione di ritrovare alcuni artisti già premiati sul palco dello Sferisterio. Un nuovo spazio d’ascolto nel cuore della città pensato per valorizzare i talenti emersi dal Festival.

Programma

MARTEDÌ 17 GIUGNO

Yosh Whale

MERCOLEDÌ 18 GIUGNO

The Snookers

GIOVEDÌ 19 GIUGNO

Nico Arezzo

Anna Castiglia