INTERVISTA – La Ballata dell’Inferno di Elena Mil

Cresciuta tra folk e tango argentino, Elena Mil porta con sé una grande eredità artistica. Da sempre divisa tra il teatro e la musica, ha saputo trarre da entrambe le discipline un’energia unica, che oggi la guida nella la sua carriera musicale. Con la canzone Ballata dell’Inferno, è tra i finalisti di Musicultura XXXVI, un traguardo che segna solo l’inizio di un progetto artistico più ampio. In questa intervista, ci racconta del suo percorso, delle influenze familiari, della sua passione per le parole e del suo debutto imminente con un album che promette di essere un viaggio emozionante e personale.

Elena Mil alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Provieni dal teatro e con la compagnia teatrale del tuo liceo hai girato l’Italia. Nel 2019 hai ottenuto una menzione d’onore per l’interpretazione del Corifeo nell’Antigone di Sofocle. Cosa ti porti dietro di quell’esperienza artistica? Ti ha insegnato qualcosa che ti è stato utile per la tua carriera musicale?
Il teatro è una dimensione per me fondamentale. L’esperienza come attrice mi ha fatto scoprire l’intensità del contatto con il pubblico dal vivo in un modo a cui non riesco più a rinunciare. Ciò che amo di più quando mi esibisco è proprio questa connessione, unica ed estemporanea, che a volte s’instaura con gli ascoltatori presenti. Mi diverte molto registrare in studio, ma quando scrivo parto sempre dalla necessità di dire qualcosa a qualcuno. In questo senso, un aspetto che porto dal teatro alla musica è il desiderio di raccontare storie e personaggi – o, meglio ancora, persone – attraverso le mie canzoni. Essere abituata alla necessità che in teatro sia “buona la prima” è sicuramente una grande risorsa sul palco, che mi permette di coinvolgere l’audience in modo autentico. Forse sono ancora quel Corifeo, che sente il compito e l’onore di narrare a chi ha di fronte qualcosa di importante.

L’arte ti accompagna da sempre: sei cresciuta immersa nella musica folk e nel tango argentino, sulle orme di un padre musicista e di una madre ballerina. Com’è stato vivere un ambiente così stimolante? Quale il valore aggiunto al tuo percorso?
I miei genitori sono stati insieme per poco, ma quei cinque anni hanno lasciato un’impronta profonda. Vivere nella musica e in un continuo dinamismo per me era la normalità, fra i concerti di papà seguiti da dietro le quinte e le milonghe dove si ballava tango fino a tarda sera. Non ricordo la mia casa di allora come un luogo, ma come quelle intense emozioni che in tre condividevamo, soprattutto la gioia. Senza che volessero insegnarmi qualcosa, entrambi mi hanno mostrato il proprio modo di esprimersi attraverso la musica e nella performance dal vivo. Questa necessità di dire me stessa attraverso l’arte ha abitato anche me in modo spontaneo fin da piccolissima e ancora oggi mi sembra l’unico modo possibile di vivere.

Il brano con cui hai avuto accesso alla finale di Musicultura, La Ballata dell’Inferno, racconta della discesa agli inferi di una ragazza che afferma di essere “morta di niente”: volevi confrontarti col senso di colpa e l’innocenza che sembrano risuonare per tutto il brano?
Adoro il fatto che ogni persona che ha ascoltato La Ballata mi abbia restituito un’interpretazione diversa; per questo cercherò di non spiegare un significato. Quando l’ho scritta avevo sedici anni ed ero attraversata da un grande senso di smarrimento. Anche oggi i dubbi mi rincorrono e spesso mi lasciano senza una spiegazione di fronte al dolore. Non so se la ragazza “dalla bella voce” si senta in colpa, ma di sicuro si sente accusata. Quel “niente” con cui si confronta è un vuoto incomprensibile: origine di un dolore che in qualche modo la giustifica -“qui c’è chi ha ammazzato la gente, io non ho fatto niente” – , ma allo stesso tempo è proprio ciò da cui vuole fuggire. È innocente o ha perso quest’innocenza quando ha scelto l’inferno? Quale che sia la risposta, la sua condanna finale lascia sconcertati: c’è una stortura nel mondo da cui nemmeno morendo si riesce a scappare.

Nei tuoi pezzi appare evidente la ricerca sul significato delle parole e sul loro suono: quando componi parti dal testo per poi costruire intorno la melodia o viceversa? Componi e scrivi sempre da sola o collabori anche con altri autori?
Non ho mai collaborato con altri, ma deve essere divertente e voglio presto provare. Finora ho composto sempre da sola, lontana da tutti, in uno stato di tale concentrazione che, anche se qualcuno mi parla, non me ne accorgo. Se mi metto a dar forma a un nuovo pezzo è per dire qualcosa di intimo e questa solitudine mi permette di mantenere pieno controllo creativo sia sul testo che sull’idea musicale. Di fatti, quando scrivo parto sempre da un’emozione ed è da questa che sgorgano insieme testo e melodia: per me non esistono parole giuste a prescindere dal loro suono, e suoni giusti a prescindere dalla nota in cui respirano. La voce e lo strumento hanno la funzione di esprimere con la maggior fedeltà possibile l’emozione da cui sono partita. In questo senso, assonanze, consonanze, rime e ritmo all’interno dei testi, oltre a fare da controcanto alla melodia, costituiscono una parte essenziale del significato del brano a cui dedico molta attenzione.

Nella tua nota biografica parli di un disco quasi pronto, con 14 canzoni già scritte. Puoi anticiparci qualcosa di questo progetto?
Anche se scrivo nell’ombra da tanti anni, il mio progetto musicale è giovane: ha appena compiuto un anno. C’è molto che voglio imparare, soprattutto attraverso le collaborazioni – in parte già avviate- per arricchire gli arrangiamenti dei brani. Mentre il mio stile vocale è riconoscibile, sperimentare con altri musicisti mi sta aiutando a trovare la stessa personalità anche in ambito strumentale. Ciò su cui credo di avere una visione già abbastanza matura sono i contenuti: dietro a tutte le canzoni scritte finora c’è una direzione coerente. L’album sarà la forma più adatta per raccontare quest’unica grande storia, i cui protagonisti sono donne in conflitto più o meno aperto con la società e uomini che vogliono, ma non sanno come amare.

INTERVISTA – Belly Button e il Coro Onda a Musicultura

Belly Button, nome d’arte di Sergio Gabriele Bruni, è un progetto musicale che affonda le radici nel potere catartico della musica. Il suo stesso pseudonimo, che in inglese significa “ombelico”, richiama la prima ferita di ogni essere umano: il distacco dalla madre con il taglio del cordone ombelicale. Ed è proprio dalla necessità di elaborare e trasformare le proprie fragilità che nascono la sua musica e un percorso artistico che si fa strumento di riscatto e consapevolezza. Il suo sound fonde le sonorità urban rap con l’intensità evocativa del gospel, dando vita a un’identità stilistica capace di coniugare l’espressione personale e collettiva con l’impatto emotivo. Dall’esigenza di arrangiare la musica in questa chiave, nel 2023 prende forma il Coro Onda, una formazione diretta da Asja Martorelli e composta da giovani della periferia romana, con l’obiettivo di amplificare la forza del messaggio grazie all’armonia delle voci. Oggi,Belly Button e il Coro Onda sono tra i 16 finalisti di Musicultura con Credo, un brano che, attraverso un’ironia pungente, denuncia le difficoltà delle nuove generazioni nel costruirsi un futuro in un contesto sempre più precario e complesso.

Belly Button e il Coro Onda alle Audizioni di Musicultura 2025

Belly Button nasce come progetto solista e, nel febbraio 2023, si unisce al Coro Onda, diretto da Asja Martorelli, pubblicando il singolo Credo. Abituato a un processo creativo da solista, come ti sei trovato a lavorare in team con il coro?
Ho iniziato a scrivere canzoni a 14 anni per l’esigenza di esprimermi e di trovare un posto nel mondo. Il mio progetto solista mi ha permesso negli anni di scrivere moltissimo e di trovare la mia dimensione artistica, maturando la solidità necessaria per lasciarmi influenzare da idee e persone, senza per questo perdere la mia identità. Il Coro Onda ha rappresentato e rappresenta il
punto di arrivo di questo percorso, ma anche un punto di partenza per arricchire la mia musica di sonorità sempre nuove e complesse.

Il genere con cui ti sei proposto a Musicultura, l’urban gospel, è poco comune nella scena cantautorale contemporanea. Davanti al tuo stile così distintivo, come ti è sembrata la risposta che hai ricevuto dal pubblico del Festival?
La risposta del pubblico davanti al nostro spettacolo è sempre un’incognita per noi. L’esibizione è piuttosto inusuale, soprattutto in Italia, dove non esiste nel DNA culturale la musica gospel. Per esempio, durante un’esibizione, indossando le tuniche che io stesso ho disegnato per la performance, un ascoltatore ha urlato: “Ecco le suore!”. Poi però parte la musica e inizia la magia! Il pubblico di Musicultura ci è sembrato molto aperto e disponibile a confrontarsi con qualcosa di diverso.

Nel gospel, il corpo e il movimento sono parte integrante dell’espressione musicale. Come vivi l’aspetto della performance sul palco? E in che modo, secondo te, il gospel moderno si sta evolvendo dal punto di vista scenico?

Per noi è un aspetto essenziale. Ascoltare su Spotify la nostra musica trasmette energia ed una forte carica, ma assistere al nostro spettacolo, guardare 20 persone cantare e ballare, è un’esperienza. Il gospel moderno, soprattutto all’estero, sta evolvendo aumentando il numero di persone che si esibiscono sul palco. L’effetto è bellissimo. Noi abbiamo scelto di andare ancora oltre, inserendo coreografie che arricchiscano ulteriormente lo spettacolo, disegnando la nostra musica. Inizialmente il coreografo con il quale collaboriamo doveva aiutarci solo a coordinarci, ma alla fine ci siamo trasformati ed evoluti in ballerini – i membri del coro decisamente più di me!-.

Nei tuoi brani, nei quali ritmo, melodie e cori giocano un ruolo fondamentale, quanto peso ha la parola? Preferisci modellarla in funzione della sua musicalità, integrandola nel suono, o darle un peso più poetico per trasmettere un messaggio più chiaro?
La musica per me è un’esigenza pura di espressione, per questo i testi restano centrali. Nasco cantautore, ascoltatore e amante del cantautorato italiano, non posso quindi non portare quel background nella mia musica. Al contempo, oggi è possibile anche veicolare un messaggio tramite altri linguaggi, spesso molto efficaci, come quello visivo. Secondo me sono tutti ingredienti che devono coesistere ed essere strumentali gli uni agli altri.

Nella vostra biografia si parla di una missione che mira a dare voce a chi spesso non ne ha. In che modo questo principio si riflette nel tuo percorso artistico? Cerchi ispirazione dalla realtà che ti circonda per trasformarla in musica?

Certo. Fin dalle prime esibizioni, in maniera ancora non totalmente comprensibile, il progetto ha attratto persone che sentono il reale bisogno di potersi esprimere ed avere una propria voce, che percepivano di aver perso come singoli e hanno ritrovato come membri di questa famiglia. La magia è che questo trasporto emotivo viene trasmesso ai nostri ascoltatori: così i nostri concerti diventano una casa per chi non ha un luogo per sentirsi semplicemente bene essendo se stesso; diventano, insomma, “un posto per chi non ha posto”.

INTERVISTA – Moonari e l’arte di restare in equilibrio

Dietro il nome d’arte Moonari si cela Giovanni Cosma, cantautore, compositore e polistrumentista romano, classe 1995, con alle spalle un percorso artistico e umano che attraversa Roma, Milano e Londra, dove ha studiato ingegneria del suono. Dopo l’esperienza in una band italo-inglese, oggi porta avanti un progetto solista che fonde scrittura intima, sperimentazione sonora e grande versatilità live, con formazioni che spaziano dal duo alla full band con fiati. Con Funamboli – il brano che lo ha portato tra i 16 finalisti di Musicultura 2025 – racconta, con sonorità jazz, quella condizione fragile ma potente di chi cerca il proprio equilibrio nella vita e nell’arte. «Su tra le nuvole, anche se non so se sto volando o se sto cadendo», canta, sospeso tra il desiderio di perfezione e la necessità di lasciarsi andare, come un funambolo che avanza nonostante il vuoto sotto i piedi. Con questa intervista rilasciata alla redazione di
“Sciuscià” ha condiviso il suo percorso artistico fatto di esplorazione interiore, dell’influenza poetica di Bruno Munari, delle sfide affrontate nel passaggio dall’inglese all’italiano nella scrittura e della costante ricerca – tra palco e studio – di una verità emotiva autentica.

Moonari alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Dal tuo nome d’arte alla tua musica, le immagini e le suggestioni visive sembrano avere un ruolo fondamentale nel tuo percorso artistico. Quanto ha influenzato il tuo approccio alla scrittura e alla composizione l’ispirazione di Bruno Munari? Se dovessi trasformare la tua musica in un’immagine, quale sarebbe e perché?
Mi riconosco nel suo sguardo ironico ma anche malinconico sulla vita. È in questo senso che mi ha ispirato. E se dovessi trasformare la mia musica in un’immagine sarebbe sicuramente quella di un albero – che non è altro che la lentissima esplosione di un seme, proprio come dice Munari -, perché ha radici profonde ma cresce comunque verso l’alto.

Hai vissuto tra Roma, Milano e Londra, tre città con identità musicali molto diverse. In che modo queste esperienze hanno plasmato il tuo stile? Qual è il principale insegnamento che hai tratto dalla scena musicale londinese?
Milano l’ho vissuta all’inizio del mio percorso, ero molto giovane. Mi ricordo che percepivo una grande povertà nel fermento musicale e nella creatività, insieme a una carenza di posti dove incontrarsi, conoscersi e suonare, cosa che invece ho trovato, con molto stupore, a Roma. Finché non sono andato a viverci, ho sempre sottovalutato Roma: la consideravo immobile nel tempo, senza stimoli. Invece, il principale insegnamento che ho tratto dalla scena musicale londinese è che c’è sempre qualcuno da cui imparare, in qualsiasi posto. Per molto tempo non ho saputo ascoltare, e a Londra, paradossalmente, ho imparato a farlo.

Nel tuo primo album in italiano, Sono Nato Debole, racconti di fragilità e di crescita, affrontando tematiche personali e universali. C’è una canzone del disco a cui sei particolarmente legato? Se sì, perché?
Il brano di Sono Nato Debole a cui sono più legato è La Mia Primavera. Dentro c’è un lungo processo di decostruzione: era un brano con un testo a tratti anche volgare e volevo evitare di fare qualcosa di solo strumentale poiché arrivavo da due dischi con tanta parte musicale e la voce usata più che altro come strumento. A un certo punto, però, mi sono detto: “Io sono anche questo”. Quindi ho tolto il testo che non mi aveva mai convinto e ho lasciato solo la musica, evitando di dover infilare a forza parole in un pezzo in cui non sarebbero andate.

Hai una grande versatilità dal vivo: passi da set intimi in duo a formazioni più ampie con fiati e sezioni ritmiche. Cosa cambia per te sul palco in queste diverse configurazioni? C’è un aspetto della performance live che ami particolarmente?
Se sei in duo o solo cambia molto l’esposizione rispetto a essere in 10 sul palco. Amo quando suono sul palco con naturalezza e riesco a emozionarmi e soprattutto a godere come quando sono da solo a casa a scrivere un brano nuovo. È una cosa che vorrei provare sempre, ed è la sfida di una vita. Mi ritengo molto fortunato a condividere il palco con dei musicisti bravi, sensibili e creativi; è il meglio che potessi desiderare. Essere circondato da persone così talentuose è stimolante.

Funamboli, il brano selezionato da Musicultura per il tuo ingresso tra i 16 finalisti del concorso, parla di sospensione, di equilibrio precario, di incertezza. È una sensazione che vivi spesso nel tuo percorso artistico? Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato nel tuo cammino musicale?
Tutto il contrario dell’incertezza: so bene cosa vorrei sentire nei miei brani e ho chiara l’idea di ciò che dev’essere un pezzo quando lo scrivo, di come sarà live, ed è proprio con questo che mi ritrovo a dover fare i conti: un’insoddisfazione da cui cerco di non farmi fagocitare per non essere infelice tutto il tempo. Sono sempre alla ricerca del suono, della frase e della parola giusta per ogni brano, e spesso non trovare questi elementi mi fa stare male ed è frustrante, ma comunque non sento né precarietà e né incertezza, appunto, in quello che faccio. La più grande sfida che ho affrontato fino a ora è stata quella del passaggio testuale dall’inglese all’italiano, perché scrivere nella tua lingua conoscendo il peso esatto di ogni parola è stata la cosa più difficile nel mio percorso artistico. La linea tra il banale, il wannabe poeta, la stronzata retorica e il guizzo intelligente è sempre molto sottile.

INTERVISTA – Alessandra Nazzaro a Musicultura: e Ouverture sia

Ha alle spalle un’esperienza con l’alias di Lena A, col quale esplorava sonorità elettronico-pop; oggi, da quando ha scelto di essere semplicemente se stessa, Alessandra Nazzaro coltiva la sua musica come uno spazio dove parole e melodie si intrecciano per raccontare storie intime e riflessioni. Per esempio, nel suo brano Ouverture, selezionato dalla Giuria di Musicultura tra quelli finalisti del concorso, si addentra con intensità nel labirinto della perdita e della memoria, portando per mano l’ascoltatore in un viaggio interiore attraverso universi alternativi e sogni infranti, mettendo a nudo la cruda realtà del risveglio adulto e la perdita delle infinite possibilità ch’erano sogno dell’infanzia.

Alessandra Nazzaro alle Audizioni di Musicultura 2025

Agli esordi ti sei esibita con l’alias di Lena A, esplorando sonorità elettronico-pop. Qual è stato il momento chiave che ha segnato la tua evoluzione artistica verso il cantautorato di Alessandra Nazzaro?
Il cantautorato ha sempre conquistato il mio cuore e condizionato i miei ascolti. Quindi definisco l’esperienza di Lena A come una piccola parentesi per nascondermi e non voler abbracciare la mia natura, fatta di parole e di musicisti che si guardano negli occhi e arrangiano i brani. Il momento che ha disegnato definitivamente la parentesi tonda, chiudendo con Lena A, è stato entrare a Officina Pasolini, un laboratorio di formazione artistica di Roma; lì ho conosciuto altri cantautori come me, con cui confrontarmi, e insieme a loro ho imparato a non avere paura di cantare senza seguire il flusso delle mode, ma solo il mio.

In una precedente intervista per “Il Metrònomo” hai raccontato che il tuo percorso musicale ha preso una direzione più definita dopo aver intrapreso il Cammino di Santiago. In che modo questo viaggio fisico ha influenzato il tuo viaggio artistico?
Durante un viaggio in cui tutto è incentrato sul camminare, dedichi tanto tempo all’ascolto dei suoni della natura, per esempio, delle chiacchiere multilingue o delle canzoni nelle cuffiette. Forse tutte queste fonti differenti mi hanno motivata a cercare sempre con più cura il suono, soprattutto quello della parola.

Hai raccontato di aver spento le tue prime cinque candeline cantando Vorrei dei Lunapop. Quali altri artisti hanno rappresentato per te un modello di riferimento e una fonte di ispirazione nel tuo percorso musicale?
Dai 5 agli 11 anni Chopin e Cremonini; dai 12 ai 20, invece, Fiona Apple e Tori Amos. Dai 20 anni Giovanni Truppi e Cristina Donà; oggi direi tutti loro, tutti insieme.

Oltre a essere un’artista, sei anche docente di pianoforte. Cosa porti nelle tue lezioni delle tue performance sul palco e come queste ultime, invece, sono influenzate dall’insegnamento? Quanto a quest’ultimo: in che modo trasmetti ai tuoi allievi la passione per la musica?
Credo siano gli allievi, con la loro curiosità e con la loro personalità, ad alimentare la mia scelta di voler suonare sempre. Io cerco solo di far vivere loro quello che ho provato sulla mia pelle.

“Sarebbe stato più poetico scappare via dopo un’ouverture”, canti in Ouverture, brano col quale ti sei aggiudicata un posto tra i 16 finalisti di Musicultura. Ecco, nell’ambito della tua carriera musicale, o più in generale del tuo percorso di vita, c’è stata qualche situazione in cui, dopo un primo approccio, hai reputato più poetico scappar via?
Niccolò Fabi canta: “Ah, si vivesse solo di inizi, di eccitazioni da prima volta, quando tutto ti sorprende e nulla ti appartiene ancora”. Ecco, tutte le volte che ho provato una sensazione simile, ammetto che mi sarebbe piaciuto incorniciare il momento con una bella fotografia, non toccare niente e scappare via. Ma non si vive solo di inizi, e delle volte basta solo, naturalmente, vivere.

INTERVISTA – “Tutti-nessuno”: NILO finalista di Musicultura 2025

In un mondo che corre e urla, lui sceglie di fermarsi e sussurrare. La sua musica non è solo melodia: è un atto di resistenza emotiva, un invito a rallentare, ad abitare il silenzio, a dare forma all’invisibile. Sul palco si presenta come NILO, ma nella
vita di tutti i giorni è Daniele Delogu, giovane musicista sassarese oggi di casa a Piacenza, dove studia al Conservatorio. Il suo viaggio artistico comincia nel 2020 con la pubblicazione di Meco, un album d’esordio che fin dal titolo — dal latino “con me” — svela la natura profondamente introspettiva del suo percorso. Un progetto nato nel silenzio, cresciuto nell’ascolto, che segna l’inizio di un dialogo
sincero con il mondo. Un cammino che prende forma lì dove finisce il rumore: nel faccia a faccia con se stesso. Finalista di Musicultura 2025 con il brano Tutti-nessuno, ecco come si è raccontato alla redazione di “Sciuscià”.

NILO alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Sei un polistrumentista; ti sei esibito con diverse formazioni rock e parallelamente hai coltivando una forte passione per la musica classica e il jazz. Insomma, in te sembrano convivere diverse “anime musicali”. Con quale genere e con quale strumento senti più sintonia e ti trovi più a tuo agio?
Essendo cresciuto in un contesto pieno di stimoli molto diversi tra loro, ho sempre visto la musica, e la realtà, molto sfaccettata e varia. Non credo che ci sia un genere unico al quale mi ispiro o col quale mi trovo più a mio agio. Ogni brano che scrivo è un’esperienza nuova che mi suscita diverse emozioni. Vedo la musica come un’entità unica ma diversificata. Differente è il caso dello strumento: mi trovo molto a mio agio a scrivere al pianoforte perché l’ho studiato di più durante la mia formazione musicale. Al pianoforte riesco a trasmettere genuinamente le mie idee.

Continuiamo a muovere tra le tue “anime musicali” e proviamo a sondarle meglio con un’altra domanda: quali sono i tuoi modelli di riferimento? Quanto sei riuscito a distaccartene per trovare la tua strada e quanto, invece, ti porti appresso di loro?
I miei punti di riferimento spaziano dal cantautorato – con Lucio Dalla, Daniele Silvestri, Enzo Jannacci – alla musica strumentale sia classica che jazz – Ennio Morricone, Miles Davis, Beethoven e tanti altri -. Il cantautorato per me è una biblioteca ricchissima dalla quale posso imparare a migliorare la scrittura dei miei testi. Ammiro come gli artisti citati prima riescano a raccontare delle storie
personali che parlano a tutti e di tutti con una semplicità – ovviamente apparente – disarmante. Nella musica classica/jazz invece cerco la raffinatezza, la profondità, il particolare che mi aiuta a migliorare a legare coerentemente la musica ai testi che scrivo. Le parole e la musica in un brano interagiscono tra loro, ma sono due entità distinte; per stare assieme devono avere un’identità chiara che permetta loro di comunicare senza nascondersi le uno dietro le altre.

Nella nota biografica che hai inviato a Musicultura scrivi che la tua arte, frutto di una continua ricerca sonora, unisce surrealismo, introspezione e semplicità. Qual è il segreto per dar voce, un’unica voce, a questi tre elementi, che potrebbero di primo acchito sembrare anche molto distanti tra loro?
La chiave secondo me è quella di ascoltarsi. Credo che la scrittura sia una ricerca profonda del nostro Io interiore, che è in continuo cambiamento, in continua evoluzione. Delle volte è più intenso, delle volte meno, delle volte è riconoscibile, delle altre neanche si riesce a percepire. Penso che siamo tremendamente sfaccettati ma, allo stesso tempo, tendiamo a definirci sotto una sola e unica persona. È una cosa naturale che ci aiuta a inserirci nella società, senza la quale ci sentiremmo soli, non riusciremmo ad adeguarci. Ecco, scrivere per me è fare la stessa cosa: accogliere tutti i pensieri, le emozioni, le sensazioni che ho e sceglierne solo alcuni che avranno il loro spazio in una canzone; gli altri potrebbero averlo in un altro momento, in un’altra canzone. Alle volte è complicato, quindi capita che non riesca a fare una “cernita”; altre volte è molto semplice. Credo che sia proprio questo il bello.

John Donne diceva: “Nessun uomo è un’isola”; sul palco delle Audizioni Live di Musicultura hai parlato di solitudine autoimposta, di quella condizione che porta a credere di essere sempre soli laddove si tratta invece solo di una percezione. Ecco, pensi che la scelta di una solitudine consapevole, autentica, sia sempre negativa o può essere un’opportunità di crescita personale?
Credo che la chiave di tutto sia la consapevolezza: in assenza di quest’ultima ci sarebbe un’anarchia mentale che porterebbe alla distruzione. Senza consapevolezza, anche la gioia potrebbe essere pericolosa. La solitudine, come tanti altri stati d’animo, è un qualcosa di naturale che non per forza viene per nuocere. Personalmente tendo molto a isolarmi, anche in contesti che non lo permettono: è importante per me avere un contatto costante con quello che provo e con quello che sono. Allo stesso tempo è una condanna, perché mi impedisce di godermi ciò che ho attorno e questo mi crea una profonda tristezza. Perciò stare soli non è per
forza un danno, purché ci sia la consapevolezza di ciò che si sta provando e della condizione in cui siamo o ci stiamo mettendo.

Passiamo dalle Audizioni a un’altra fase del concorso: quella che ora ti vede tra i 16 finalisti del Festival con il brano Tutti-nessuno. Quale pensi sia il motivo per cui la giuria di Musicultura ha scelto proprio questo pezzo?
Sinceramente non ho un’idea precisa. Credo che il brano Tutti-Nessuno sia lo specchio della nostra società. È il singolo che parla, si sostituisce alla collettività. Credo di essere riuscito a mettermi a nudo e a inquadrare certe pressioni che la società odierna presenta. Forse la giuria è stata colpita da questo aspetto, o forse ha trovato interessante un’altra interpretazione del brano. I miei pezzi non hanno una sola interpretazione, ognuno ci vede ciò che desidera. Non c’è giusto o sbagliato. Una volta che un’opera artistica viene vista, ascoltata, non è più dell’autore, ma del fruitore. Come artista tendo a fare un passo indietro evitando di imporre la mia
personale visione del brano che ho scritto. Anzi, trovo molto interessante vedere come l’opera si “modifica” da persona a persona.

INTERVISTA – Nakhash, in finale tra “mostri” e musica

Nakhash è una band che porta con sé un nome dal significato denso e sfaccettato, scelto quasi per caso ma divenuto col tempo parte integrante dell’identità artistica del gruppo. La musica proposta dai suoi componenti è un viaggio tra inquietudini e sperimentazione, un percorso in cui le paure si trasformano in materiale creativo e i mostri interiori diventano fonte di ispirazione.
Con un sound che affonda le radici nel rock, arricchendosi con contaminazioni pop, grunge e indie, e con un album di debutto, Cosa Resta, uscito nel gennaio 2023, i Nakhash si sono esibiti alle Audizioni Live con Vetro e Gonna. E con questo secondo brano, ora, sono tra i 16 finalisti di Musicultura 2025.

Nakhash alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Il Nakhash è una figura biblica con molteplici sfumature: per i cristiani incarna il maligno, mentre nella tradizione ebraica è un’immagine più ambigua, non necessariamente negativa. Per voi, cosa rappresenta davvero il Nakhash e cosa vi ha spinto a sceglierlo come nome della band?
Il nome, come diciamo spesso, è un errore di gioventù, nato da una scommessa persa. L’abbiamo scelto quando eravamo giovani e inconsapevoli. Non hai idea di quanto ci abbia fregato quella H in mezzo, nessuno ci trova e spesso il nome è pronunciato nel modo sbagliato. Eppure è diventato parte di noi. Al di là delle origini – che hai riassunto già benissimo – è diventato come un nome di battesimo, simbolo della nostra storia.

Di nuovo il Nakhash, spesso associato a ostacoli e forze caotiche che mettono alla prova la vita di chi lo incontra. Nel vostro viaggio musicale, c’è un “mostro” che continua a tormentarvi? Quali paure o incertezze strisciano ancora nell’ombra?
C’è una frase di Michel de Montaigne che amiamo molto e dice: “Non ho mai visto alcuna mostruosità e miracolo più evidente nel mondo di me stesso”. Quindi innanzitutto i mostri siamo noi, spesso i primi a tormentarci, e le paure altro non sono che proiezioni di insicurezze nutrite negli anni. Ognuno ha la sua, tutte diventano concime per i nostri brani. I mostri ci servono, e poi, sai, c’è qualcosa di meraviglioso nel mantenere intatta quella componente infantile che teme i mostri e crede nella magia. Quindi viva i mostri!

Nel gennaio 2023 avete pubblicato Cosa Resta, un album che ha catturato l’attenzione di testate come Brainstorming magazine, Distorsioni sonore e Inde music. L’ultima traccia, Romantica, è stata anche nominata da Fabrizio Basso su SkyTg24 come miglior singolo di quel mese. Vi aspettavate un’accoglienza così calorosa da parte della stampa per il vostro disco di debutto? Avete sentito di aver raggiunto un traguardo importante nella vostra carriera o avete vissuto il tutto solo come punto di partenza?
Sicuramente un punto di partenza. Lo è sempre, è la condizione di esistenza affinché ci sia un’evoluzione. I nuovi brani riprendono dal passato anche se ci sono nuove contaminazioni, un modo diverso di giocare con la metrica e influenze più sperimentali. Però non vogliamo fare troppi spoiler. Per l’accoglienza, ovviamente, incrociamo le dita.

Sui vostri social, in maniera particolare su Instagram, raccontate molto del vostro viaggio come band, sia sopra il palco che dietro le quinte. Qual è l’aspetto del vostro percorso che vi piace maggiormente condividere con il pubblico sui social?
Premessa: non siamo animali social. Per noi è una fatica presidiare le piattaforme, ma siamo nel XXI secolo e sappiamo che la musica passa anche da lì. Proprio per questo cerchiamo di essere il più spontanei possibile, non ci sono “strategie social”: abbiamo provato a farle, abbiamo fallito miseramente dopo mezza settimana. Semplicemente puntiamo la camera e raccontiamo cosa succede.

Ogni festival e ogni esibizione dal vivo sono occasioni di crescita. Cosa vi sta lasciando Musicultura, sia artisticamente che personalmente? C’è stato un momento, finora, che vi ha segnato più degli altri?
La morsa allo stomaco prima di salire sul palco c’è sempre, eppure negli anni – per noi ormai sono 11 – si impara in qualche modo a domarla. Poi arriva Musicultura. Quando eravamo dietro le quinte del teatro Lauro Rossi di Macerata, durante le Audizioni Live, ecco, nessuno è riuscito a neutralizzare quella morsa. Ci ha ridato l’emozione di una prima volta, e più si va avanti negli anni più diventano preziose le prime volte. L’abbraccio goffo, teso, emotivo, poco prima di esibirci, non ce lo scolleremo più di dosso.

 

INTERVISTA – Ibisco: quando la musica fiorisce

Quella di Ibisco è un’estetica audace che prende forma attraverso una musica capace di attraversare la darkwave, il post-punk e l’elettronica, restando però sempre fedele a un’urgenza autentica di espressione. Filippo Giglio – questo il suo nome all’anagrafe – irrompe sulla scena nel 2022 con Nowhere Emilia, un esordio potente che lo porta a calcare palchi importanti come MiAmi, Ferrara Sotto le Stelle, Villa Ada, fino ad arrivare a Musicultura, rientrando nella rosa dei 16 finalisti con il brano Languore, lo stesso che dà il titolo anche al suo secondo album. Questo progetto è un tuffo profondo nelle dipendenze e nelle inquietudini, temi che diventano cicatrici indelebili, come il tatuaggio di peonia che Filippo sfoggia sul braccio sinistro. Alla redazione di Sciuscià, Ibisco racconta il desiderio di vivere la musica senza compromessi, costruendo suoni che scavano nell’anima, parole che lasciano tracce e immagini che sfidano le convenzioni. Un percorso che affonda le radici nella fragilità, per dare voce a tutto ciò che -come i fiori e la natura- non si può addomesticare.

Ibisco alle Audizioni di Musicultura 2025

Proviamo a partire dal principio. Il tuo cognome all’anagrafe è Giglio, il tuo nome d’arte è Ibisco e il tuo singolo più recente si intitola Flora Erotica. È tutto casuale o esiste un legame profondo, e cercato, tra la tua produzione artistica e il mondo dei fiori e delle piante?
Ho anche una peonia tatuata sul braccio sinistro. L’estetica floreale mi affascina – e in parte mi appartiene anagraficamente – per il suo spontaneo magnetismo e la carica simbolica che spesso possiede. Mi è sempre venuta in aiuto nei momenti in cui ero alla ricerca di idee e di stimoli. La natura è anche qualcosa sempre capace di imporsi fuori dalla moda, non passerà mai.

Sul palco di Musicultura sei salito con una camicia trasparente nera; il tuo album Languore si presenta con un vinile dalla grafica psichedelica; i tuoi video musicali propongono immagini lontane dagli standard a cui siamo abituati: quanto è importante l’estetica nella tua arte? Che ruolo ha la componente visiva e in che misura influisce anche sul piano musicale?
La componente visiva è fondamentale, oggi, per concretizzare l’immaginario e rendersi adatti ai media attraverso cui si comunicano e pubblicizzano le proprie produzioni. Oltre a rendere possibile lo sfogo della propria immaginazione su orizzonti sensoriali non primari per un musicista, diventa altresì importante per consentire a chi ascolta un ancoraggio culturale. Lo scenario musicale è attualmente una trama molto intricata entro cui l’ascoltatore, per collocare anzitutto se stesso, ha bisogno di visualizzare immediatamente quello che ascolta.

Nel 2023 sei stato citato da Rolling Stones Italia come uno dei 14 nomi da tenere sott’occhio con “l’augurio di mantenere le promesse”. Quali promesse senti di aver mantenuto? E quali, invece, restano ancora in sospeso?
La promessa che ho mantenuto credo sia relativa all’aver continuato a fare musica senza compromessi e preconcetti, pensando esclusivamente all’urgenza di comunicare qualcosa. Resta in sospeso la volontà di essere accessibile a tutti: non voglio che la mia musica sia difficile, o peggio ancora per pochi.

Musicultura include una giuria universitaria; fa appello, quindi, anche al giudizio dei giovani, di persone che, probabilmente meglio di altre, comprendono la tensione che comporta l’inseguimento di un sogno, il costante stare in bilico tra la paura di fallire e l’adrenalina del farcela. Quanto pensi che questo elemento influenzi il giudizio e quanto credi possa essere formativo per entrambe le parti?
Le canzoni sono empatia e immedesimazione, non solo con l’opera in sé, ma anche con il percorso e la biografia che inevitabilmente si aggregano al messaggio che un musicista porta sul palco. Molto spesso ci affezioniamo ad artisti che non solo sanno comunicare emozioni in cui ci rivediamo, ma che, in un certo senso, riescono a farci vivere altre vite. Questo aspetto influenza parecchio il rapporto – e quindi il giudizio – tra le due parti, da un lato si immaginano i brani addosso alle persone già in fase di scrittura, dall’altro si tende a premiare chi meglio riesce ad amplificare la portata della nostra esistenza.

Nei tuoi album mescoli new wave e post-punk, elettronica e cantautorato contemporaneo, generi spesso lontani dall’orecchio del grande pubblico e capaci di sorprendere. Come ti sei avvicinato a questi linguaggi musicali? Chi sono stati i tuoi punti di riferimento nella tua formazione?
Mi sono avvicinato a questi linguaggi in età adolescenziale, sicuramente grazie all’influenza esercitata dagli ascolti e dai consigli in materia di mio padre. È stato lui a iniziarmi alla musica di matrice britannica.

INTERVISTA – sonoalaska: «Canto per scuotere le coscienze»

Federica De Angelis, in arte sonoalaska, è una giovane cantautrice romana che osserva il mondo con lo sguardo disarmante di chi ha ancora il coraggio di farsi domande. Con la sua voce delicata e uno stile che intreccia pop, indie e R&B, ha già calcato diversi palchi della scena distinguendosi per la capacità di trasformare temi complessi in canzoni dirette, sincere e profondamente empatiche. Il brano Bimba pazza, con il quale si è aggiudicata un posto tra i finalisti di Musicultura 2025, è un pezzo che, dietro al ritornello apparentemente giocoso, nasconde una denuncia potente contro la violenza psicologica e la manipolazione emotiva. Un racconto cantato che non chiede solo di essere ascoltato, ma riconosciuto, perché troppo spesso certe dinamiche restano invisibili. Attraverso la sua musica e la sua presenza online, sonoalaska porta avanti un progetto che unisce fragilità e determinazione, intimità e impegno sociale; ne ha parlato così in questa intervista alla redazione di “Sciuscià”.

sonoalaska alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Nel tuo brano Bimba pazza, col quale ti sei aggiudicata un posto tra i 16 finalisti di Musicultura, racconti di una relazione segnata da dinamiche sbilanciate, tra manipolazione e dipendenza emotiva. Quanto è stato importante per te esplorare questo tema attraverso la musica? Pensi che le canzoni possano aiutare chi si trova intrappolato in situazioni simili a riconoscerle e uscirne?
Scrivere, per me, non è solo un’esigenza personale. So quanto le parole e la musica possano essere potenti. Con Bimba pazza ho voluto dare voce a tante storie e dinamiche che spesso restano inascoltate o incomprese. Il brano affronta la violenza di genere, non solo quella fisica, ma soprattutto quella psicologica, che troppo spesso impedisce alle vittime di denunciare per paura di ripercussioni o del giudizio altrui. “Lo sai bene questa è una bugia”, “Non mettere nei guai tutti e due, lo dico per te” sono frasi che qualcuno davvero si è sentito dire, e cantarle è il mio modo di scuotere le coscienze e di aiutare chi ancora fatica a uscirne.

Bimba pazza, ancora. Durante le Audizioni Live di Musicultura hai giocato con la tua vocalità, alternando toni diversi tra quel pezzo e il secondo presentato, Come lupi. Quanto è importante per te la sperimentazione vocale e come lavori sulla tua voce per rendere unici i tuoi brani?
Con la mia voce ho sempre avuto un rapporto conflittuale: ho attraversato un percorso lungo e difficile prima di accettarla e farmela amica. Adesso riesco finalmente a giocarci, a sperimentare e a valorizzare quella sua caratteristica un po’ “bambinesca”. Per me ora non è più un difetto, ma un valore aggiunto.

Nei tuoi testi emerge spesso un contrasto tra delicatezza e profondità, tra la leggerezza della tua voce e il peso delle tematiche che affronti. Questa contrapposizione è un tratto spontaneo del tuo stile o è una scelta consapevole per amplificare il messaggio che vuoi trasmettere?
Questa contrapposizione è del tutto naturale, sono nata con questa voce e la mia scrittura è il frutto di anni di crescita e studio, ma non è mai stata forzata. Mi è sempre piaciuto affrontare temi profondi, complicati e scomodi. Sono del tutto consapevole che questo contrasto amplifica ancora di più il messaggio, è proprio la chiave del mio progetto, ma non c’è nessuna costruzione in questo, è super reale. Io sono così nella vita di tutti i giorni.

La tua musica e la tua presenza sui social sembrano essere due facce della stessa medaglia: entrambe servono a comunicare il tuo messaggio. Come vivi il rapporto con i tuoi ascoltatori al di fuori del palco? Ti capita di ricevere messaggio storie di persone che si riconoscono nelle tue canzoni?
I social per me sono molto importanti. La mia musica è nata da lì e mi piace avere un contatto con chi mi ascolta. Bimba pazza grazie proprio ai social è stata portata nelle scuole, ho ricevuto molti messaggi da bambini, genitori, insegnanti. Sapere che si possono raggiungere così tante persone e far arrivare un messaggio così forte è la dimostrazione che da un telefono si può fare del bene, e io cercherò di farlo sempre.

La tua esperienza live spazia dai palchi della scena romana fino a festival e concorsi nazionali. Cosa cambia per te tra il pubblico di un club e quello di un festival come Musicultura?
Ho cantato ovunque, per mille persone e per due – e non scherzo quando dico che erano solo due -. Se fai il cantautore sai benissimo che ti troverai sempre in contesti diversi e che dovrai sempre fare una buona performance, con la stessa grinta e forza. Certo, il palco di Musicultura mette un bel po’ più di ansia rispetto a quello di un club, ma alle Audizioni ho ricevuto tanto calore e non vedo l’ora di cantare di nuovo per voi.

INTERVISTA – I Frammenti finalisti del Festival: «Aspettatevi una festa!»

Nati e cresciuti tra l’elettronica suonata nei club e i sogni inseguiti nelle retrobotteghe di provincia, Francesco (Checco) e Antonio (Toni) trasformano la loro visione musicale in un progetto vivo e pulsante: Frammenti, un dialogo tra energia e intimità, un linguaggio ibrido fatto di sintetizzatori e cuore, radici e visioni. È dopo un after-party che segue un live di Cosmo che i due intuiscono la direzione da seguire, il potenziale emotivo e collettivo del loro suono. Da quel momento, il progetto si consolida e prende slancio e, tra stratificazione e sintesi, attraversa i palchi, fino a guadagnarsi un posto agli Home Visit di X Factor e, nel 2025, l’accesso alle finali di Musicultura con La pace, brano che trasforma il caos in armonia e la festa in metafora di un equilibrio necessario.

Frammenti alle Audizioni Live di Musicultura 2025

La vostra musica è caratterizzata da una forte componente elettronica e testi che mantengono una sensibilità intima: dove avete tratto ispirazione per dar vita a questo connubio?
È strano: letta questa domanda, la prima risposta che ci è venuta in mente è Werner Herzog. Forse perché ora Checco vive a Monaco – e Herzog viene da lì – o forse per il suo modo di fare i film, fuori da ogni regola, per imprimere su pellicola la verità. Si tratta di un regista alla continua ricerca dell’estatico. In musica, invece, rubiamo da tanti; Battisti, Orbital, Planet Opal, Jannacci, Underworld, Soulwax, Bach, Brutalismus 3000.

Ogni band nasce da un incontro, da una scintilla creativa che porta due o più persone a unire le proprie visioni. Qual è stato il vostro punto di partenza? C’è stato un momento preciso in cui avete capito che valeva la pena trasformare la vostra intesa musicale in un progetto concreto? E, guardando indietro, pensate che il vostro modo di fare musica sia cambiato rispetto a quando avete iniziato?
Rispondiamo a ritroso. Il nostro modo di fare musica è sicuramente cambiato facendolo dal vivo, anche se ci portiamo dietro degli spettri che tentiamo di tramutare in cifra stilistica. Abbiamo imparato a stratificare e a levare il superfluo, a dare più tempo alle canzoni per sedimentarsi prima di dichiararle concluse. Poi è cambiata anche tutta la nostra strumentazione, di conseguenza è cambiato sicuramente il come facciamo le cose. Quanto al momento preciso in cui ci siamo detti che valeva la pena spendere sonno, affetti e tempo per fare musica insieme c’è, ha un luogo e una data precisi: Marghera, 14 aprile 2024, Cosmo in tour con Cosmotronic al Rivolta. Noi suonavamo insieme già da tempo, ma non condividevamo veramente la stessa passione. A Marghera abbiamo capito che c’era un modo di far convivere la leggerezza e l’energia, l’elettronica e il cuore, il futuro e il presente; tutto in un unico grande spettacolo. Per capirlo siamo rimasti fino alla fine dell’after party con Lory D (storico DJ romano, ndr). Se ci penso, tutto si tiene con le nostre radici che affondano nella perenne insoddisfazione della profonda provincia veneta. Non è facile resistere quando le occasioni di suonare la tua musica sono in palchi che affiancano esposizioni di sanitari e fai prove nel retrobottega di una gelateria facendo impazzire il vicinato. Per fortuna, qualche concerto è arrivato anche da noi.

Con la vostra esperienza a X Factor e vari live vi siete trovati di fronte a platee con background e aspettative diversi; ora affrontate il palco di Musicultura. Come avete percepito la risposta del pubblico in contesti così differenti? E in che modo queste esperienze hanno influenzato la vostra evoluzione artistica e la scrittura dei vostri brani?
Noi soffriamo l’assenza del pubblico. Non importa come reagisce, se è lì per ballare con noi o per ascoltare quel che c’è da dire. Non importa nemmeno se è lì per giudicare o per contestarci. Noi suoniamo per instaurare una relazione d’amore con il maggior numero di persone possibile. I mezzi sono sempre la musica, il corpo e la parola. Pensandola così, cerchiamo di dare la massima importanza a ogni palco.
Questo non significa che possiamo proporre lo stesso spettacolo in un club o in in teatro. Le regole ci sono ed è bello giocarci, magari infrangerle – sempre bello suonare la techno a ridosso di gente che cena -. Da X Factor abbiamo imparato che si possono dire molte cose anche in due minuti, anzi, avere così poco tempo è un grande esercizio di concentrazione immediata. Nei locali ci possiamo invece permettere di giocare di più, sperimentare e creare flussi di energia diversi; lì impariamo che i live sono una cosa differente dai dischi, immensamente significativa. Suonare in teatro come per Musicultura, infine, ti insegna a raccontarti; è qualcosa che sta a cavallo delle due dimensioni e l’attenzione che il pubblico ti dà è davvero stimolante. Ha qualcosa di rituale, di sacro. Tutto questo ci ha portati a scrivere più per l’altro e meno per noi stessi.

Musicultura, ancora. La pace, brano scelto dalla giuria del Festival, esplora il tema della ricerca di equilibrio nel caos, sia interiore che esterno. Com’è nata questa canzone? Cosa vi ha spinti a scriverla?
La canzone nasce da due momenti, due concerti. Il primo, mancato, era a Milano. Siamo arrivati in ritardo, proprio nel momento in cui la cantante dei Brutalismus 3000 gridava “Ciao Milano!” e mandava tutti a casa. Da lì è iniziato un viaggio di ritorno lunghissimo, in tram. Qualcuno aveva una cassa e la festa è ripartita. Ballavamo noi e pure il tram. A un certo punto mi sono sentito male, stavo svenendo. Lì, tutti si sono fermati e, quelli che per anni i giornali definivano come “sballati, drogati”, alla meglio “ravers”, mi hanno soccorso, aiutandomi a scendere e a tornare in albergo. Non mi sembrava ci fosse metafora migliore della pace se non quella di una festa libera, come quella nata sul tram e quella che ha ispirato l’amore della seconda strofa. C’è qualcosa di potente nelle feste, forte come un bambino che prega perché chi fa la guerra si renda conto che è più bello essere amici che nemici.

Chiudiamo così, a bruciapelo: cosa dobbiamo aspettarci dal vostro futuro musicale e cosa, invece, vi aspettate voi?
Noi ci aspettiamo un grande carro, con un impianto gigante, per girare tutta l’Italia con le nostre canzoni. Voi aspettatevi una festa!

INTERVISTA – A Musicultura 2025 c’è anche un po’ di Apatia con Distemah

Distemah, l’alter ego di Marta Di Stefano, dietro il suo nome cela un’anima artistica in continua evoluzione, capace di fondere sensibilità e determinazione in un’unica voce. Partita dal bisogno di esprimersi liberamente attraverso la musica, ha trovato nella sua identità artistica un rifugio in cui lasciarsi trasportare dalle emozioni, senza filtri. Dal Tour Music Fest a Sanremo New Talent, il suo percorso è stato segnato da sfide e traguardi che l’hanno resa più consapevole e sicura di sé.Ora, è tra i 16 finalisti di Musicultura con il suo brano Apatia.

Distemah è un nome decisamente particolare. Cosa ti ha ispirato a sceglierlo per la tua identità artistica? Cosa rappresenta per te?
Il mio nome d’arte ha un’origine piuttosto semplice. Quando giocavo a pallavolo, il mio soprannome era Diste. Un pomeriggio, mentre parlavo con mio padre, lui ebbe l’idea di unire Diste alle prime due lettere di Marta, il mio nome, trovando che suonasse originale. Il mio tocco personale? Aggiungere una “h” finale. Vedo Distemah un po’ come il mio alter ego, la mia identità artistica. Così come quando giocavo a pallavolo ero Diste, nella musica sono Distemah. In un certo senso, mi fa sentire a mio agio poter essere “qualcun altro” rispetto alla vita di tutti i giorni, come indossando una “maschera”, per citare Pirandello. C’è sicuramente una
differenza tra chi sono sul palco e chi sono nella quotidianità: Marta è più attenta ai dettagli, mentre Distemah è più impulsiva, si lascia trasportare dai sentimenti.

Distemah alle Audizioni Live di Musicultura 2025

Ecco, appunto: parliamo di contrapposizioni. Guardando la tua pagina Instagram, si percepisce un’immagine di te forte e decisa, ma quando sali sul palco emerge una sensibilità diversa, proprio come se ci fosse un altro lato di te a prendere il sopravvento. È una scelta stilistica consapevole o un processo creativo che nasce in modo naturale durante le tue performance?
Come ho detto, Distemah si lascia trasportare dalle sensazioni. Per questo, quando sono sul palco, evito di pensare troppo a come apparire e mi abbandono completamente alla musica, interpretando il pezzo nel modo più autentico possibile, affinché arrivi davvero a chi ascolta. Direi quindi che tutto nasce in modo naturale, e spero che questo si percepisca. Sui social, invece, cerco semplicemente di costruire un’immagine di me che, prima di tutto, piaccia a me stessa. Cerco comunque di mostrare una parte di me che mi appartiene, evitando falsità.

Rimanendo in tema social, condividi spesso contenuti che spaziano dal cinema alle arti visive, mostrando come la tua passione per l’arte si estenda a 360 gradi. Come influisce questa tua visione multidisciplinare sulla tua musica? Le altre forme d’arte giocano un ruolo importante nel tuo percorso creativo?
Il cinema, come la fotografia, ha sempre avuto un ruolo fondamentale per me. Non solo mi affascina, ma mi ispira profondamente, nella scrittura, ma anche nella vita. Credo che il cinema possa insegnare moltissimo, a patto di saperlo leggere tra
le righe, ed è proprio questa sua capacità di trasmettere significati nascosti che lo rende così essenziale per me. Anche la mia ricerca estetica nella musica ne è influenzata. Mi sento particolarmente attratta dai film che comunicano un concetto attraverso una fotografia evocativa e un’estetica eterea. È in quel linguaggio visivo che ritrovo la mia essenza.

Nel 2022 hai raggiunto le finali nazionali del Tour Music Fest, ricevendo il titolo di High Quality Artist. Come hai vissuto quel momento? Che tipo di impatto ha avuto sulla tua carriera?
Sono passati tre anni da quell’esperienza, e senza dubbio ha avuto un impatto su di me. È stata una delle prime volte in cui mi sono esibita su un palco vero, fuori dalla mia cameretta, e oggi posso dire di sentirmi molto più cresciuta e consapevole. Mi
è servita anche per “sbloccarmi”, per acquisire maggiore tranquillità sul palco, cosa non scontata per me, dato che sono sempre statapiuttosto timida e riservata. Esperienze come questa sono fondamentali per crescere, ed è proprio questo il
motivo per cui avevo deciso di partecipare.

Oltre al Tour Music Fest, di cui abbiamo appena parlato, hai partecipato anche a Sanremo New Talent. Cosa ti ha spinta, invece, a mandare i tuoi brani a Musicultura? Cosa speri di trasmettere con le tue canzoni al pubblico del Festival?
La decisione di partecipare a Musicultura è stata diversa dalle altre. Conoscevo il festival, ma non avevo ancora pensato di iscrivermi, fino a quando, una sera, ho ricevuto una mail dal mio insegnante di canto con il link per l’iscrizione, che mi incoraggiava a farlo. A quel punto, mi sono detta: “O la va, o la spacca”. Sapevo che sarebbe stato difficile andare avanti, considerando la presenza di tantissimi artisti talentuosi, ma ho deciso di provarci comunque per la voglia di cantare, senza fissarmi sul risultato. Ora sono felice di aver intrapreso questo percorso, perché sento che mi sta insegnando molto. Al pubblico del festival vorrei trasmettere un’emozione autentica, capace di toccare l’anima, proprio come accade a me ogni volta che ascolto la musica.