INTERVISTA. “C’è ancora bisogno di musica”: Walter Veltroni a Musicultura 2020

Tra le atmosfere barocche del cortile di Palazzo Buonaccorsi, in occasione della XXXI edizione del Festival, Walter Veltroni racconta del suo ritorno alla saggistica presentando il suo ultimo scritto, Odiare L’odio, “un sentimento livido, una lunga bava di lumaca nella vita di ciascuno di noi. (…) Si infila nelle ferite del nostro tempo e progressivamente ci domina 

L’occasione è stata il pretesto per parlare non solo di letteratura, ma anche di cinema, poesia e tanta buona musica. In compagnia di Michela Pallonari, l’ex sindaco romano si è raccontato genuinamente prima al pubblico de La Controra,  dopo alla redazione di “Sciuscià” con questa :

Prima ancora che regista e appassionato di musica, lei è giornalista e politico. La musica è stata da sempre permeata dalla politica e le canzoni sono state utilizzate come strumento di protesta: ritiene che sia possibile individuare una sorta di interconnessione tra politica e musica, considerarle l’una alla stregua dell’altra?

Non credo. Qualsiasi forma di espressione culturale, che sia cinema, teatro o musica può avere una sua ricaduta politica, ma questa non è la forma. È solamente una delle forme attraverso le quali l’espressione artistica si manifesta. Naturalmente, più immediata e meno propagandistica questa forma si rivela e meglio è.  Il cinema di Chaplin era un cinema politico, a suo modo: Tempi moderni, Il Grande Dittatore. Abbiamo tante esperienze, ma persino la grande musica d’opera italiana è stata importante durante il risorgimento. Ma non le identificherei. La musica, il cinema e l’arte sono un mondo dentro il quale ci sono vari colori e intenzioni, che poi possono essere di svariati tipi, perfino civili o politico/sociali.

In uscita quest’anno Il concerto ritrovato, docufilm prodotto dalla società statunitense Sony Music e interamente diretto da lei, che riporta in vita quel mondo ormai sparito del pop d’autore di fine anni ‘70 dominato dal prog pioneristico della PFM e dal cantautorato interpretativo di Fabrizio De André. Nel panorama italiano odierno chi identificherebbe come degno erede spirituale degli artisti sopracitati?

La cosa bella di quel concerto era il fatto che era la prima volta che si incontravano due realtà assolutamente separate, quasi contrastanti, cioè la grande musica d’autore di Fabrizio De André e il rock progressivo della Premiata Forneria Marconi, e incontrandosi generavano una musica totalmente nuova. È sempre quello che avviene quando due persone, due idee, due parole si incontrano: ne generano sempre una terza. È una forma di attività procreatrice. Faccio un po’ fatica, oggi, a trovare qualcuno di simile, in grado di fare un’operazione del genere, perché quello è stato veramente di un unicum. Ci sono in America grandi esperienze di questo tipo, ma in Italia non ne trovo alcuna.

“VELTRONI” è il singolo d’esordio, nonché il brano più conosciuto, della GARAGE GANG, gruppo di post-trapper originari di Ostia. La canzone ha riscosso un successo spropositato svettando sin da subito in cima alla classifica dei brani più ascoltati su Spotify. Ha avuto modo di ascoltarla?

L’ho sentita e l’ho trovata molto divertente. Concettualmente diciamo che per arrivare a decodificare il messaggio c’è voluto tempo, però ammetto che la seconda parte della canzone mi identifica bene con la creatura del Partito Democratico che feci nascere tanti anni fa. Sono dunque contento che abbiano avuto successo.

Il 2020 si porta via il gigante dell’arte italiana e pluripremiato compositore Ennio Morricone, suo concittadino, nonché caro amico e seguace politico. Nell’ottobre del 2007 partecipò infatti alle primarie del Partito Democratico come candidato in una lista a suo sostegno. Crede che il legame pluriennale con il maestro abbia influito in una qualche maniera sulla sua passione per la musica e la cinematografia?

Morricone appartiene a quel tipo di concezione della cultura di cui parlavo prima a proposito di De André perché era capace di fare sia la musica dodecafonica che il riff di In ginocchio da te di Gianni Morandi. In mezzo, la meravigliosa musica da film che ha fatto: era questa la cosa che mi affascinava. Non posso dire che sia stato lui a farmi amare il cinema, ma certamente molte delle sue colonne sonore hanno un’incredibile forza evocativa. Penso a Novecento, ai film di Sergio Leone e a quelli di Giuseppe Tornatore, penso a Mission e penso a tutte quelle pellicole nelle quali l’elemento della musica era talmente forte, talmente intrecciato coerentemente con il film, da riuscire a funzionare anche se slegato da quest’ultimo. 

Il 2020 è stato anche l’anno del Covid-19. Di fronte all’emergenza sanitaria che ha messo in ginocchio l’intero settore artistico, Musicultura non si arrende e si riconferma come ogni anno. Quale consiglio di sentirebbe di regalare non solo ai vincitori, ma a tutti quegli artisti che non hanno mai smesso di crederci e di proporsi nonostante le inevitabili incertezze di questo periodo?

L’emergenza finirà. Non so se torneremo come prima, meglio di prima o peggio di prima, ma sicuramente ci sarà e c’è ancora bisogno di musica, cinema, e immagini. Anzi probabilmente durante questa tragica esperienza inaspettata che ci è capitata abbiamo avuto tempo e modo di consumare molti più prodotti culturali di quanto facessimo quando la vita era troppo veloce, troppo organizzata. Per cui, continuare. Continuare a scrivere, a fotografare, a cantare, suonare, a dipingere. Questo rende il mondo un po’ migliore quindi l’invito è non smettere e basta. 

INTERVISTA. “Musicultura è la prova che esiste ancora una canzone libera”: il ritorno di Roberto Vecchioni a Macerata

“Ma non è vero, ragazzo / che la ragione sta sempre col più forte: / io conosco poeti / che spostano i fiumi con il pensiero / e naviganti infiniti / che sanno parlare con il cielo”: ricordate quando nel 2017 Roberto Vecchioni brillava sul palco dello Sferisterio con la magica Sogna ragazzo sogna, lasciando il pubblico di Macerata incantato e, appunto, sognante? Sono passati pochi anni e il nostro Maestro è sempre una conferma quanto a nobiltà d’animo e grandezza artistica. Per la XXXI edizione di Musicultura ha presentato infatti il suo omaggio commovente al caro amico Piero Cesanelli, ideatore del Festival e suo direttore artistico prematuramente scomparso lo scorso anno, ed ha dato qualche prezioso consiglio ai vincitori del concorso. Poco prima del suo ritorno a sorpresa sul palco dell’Arena, abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo in camerino e di confrontarci con lui per questa intervista. 

Nel 2018 è uscito il suo ultimo album in studio, L’infinito, pubblicato per suo volere solo in copia fisica e quindi non disponibile nei digital store. Qual è stata la genesi di questo concept album e come mai questa scelta controcorrente, in un mondo di streaming veloce e fruizioni distratte?

È stata una scelta romantica, di contropotere, una scelta dei vecchi tempi, con il pensiero che chi desidera realmente un disco lo va a comprare, senza ascoltarlo per forza a pezzettini, a brandelli qua e là. Del resto, questa mia opera è il frutto di un anno e mezzo di pensieri e sentimenti, di soddisfazioni e paure: credo di avere il diritto di essere ascoltato per intero. L’Infinito è un disco di grande vita. Siamo nel luogo migliore per parlarne, vicino a Recanati: non dobbiamo ricercare l’infinito chissà dove, ma nella nostra coscienza, nelle nostre attitudini o nella nostra forza di vivere.

Nel 1998 ha curato la voce Canzone d’autore dell’Enciclopedia Treccani. La domanda sorge spontanea: ha notato delle innovazioni notevoli nel mondo della canzone d’autore negli ultimi 20 anni?

Tantissimo! Ci sono state tante diramazioni, ma questi anni hanno visto anche l’ingresso prepotente di un altro modo di fare musica d’autore, più rappata e parlata, o forse anche più stressante e violenta in un certo senso. Si è perso forse un po’ l’andazzo della leggerezza poetica degli anni ‘70. Sono però sorti altri generi altrettanto interessanti, con configurazioni della vita e del pensiero differenti, ma si può trovare il bello anche lì. Non sono di certo un passatista, uno che dice “i miei tempi erano altri tempi”: c’erano quelle precise forme di canzone e stavamo dietro a quelle. 

Dopo la laurea in lettere antiche e una prima parentesi accademica, ha proseguito per trent’anni la sua attività d’insegnante di greco, latino, italiano e storia nei vari licei. Come ha influito la sua spiccata capacità didattica e intellettuale nella sua carriera cantautoriale?

Nemmeno tanto in fin dei conti: tutto nasce dall’idea di esprimere la storia immane che abbiamo dentro, quella ereditata dal mondo antico, dalla memoria e dalla poesia del passato. Così come raccontavo quei sentimenti a scuola, per dare un senso di continuità alla storia, così faccio anche da sempre nella canzone.

Si è anche distinto nel panorama editoriale italiano dall’esordio del 1983 con Il grande sogno ai più recenti romanzi: Il Mercante di luce (Einaudi, 2014) e La vita che si ama (Einaudi, 2016). Ha nuovi progetti editoriali in cantiere?

Sì, a ottobre uscirà il mio nuovo libro per Einaudi, che a tal proposito è la narrazione di un mio anno di scuola, il 1987, ovvero l’ultimo in cui ho insegnato in un certo liceo. Racconto di come facevo scuola insieme ai miei ragazzi, di cosa parlavamo e del perché. Ne è uscito un libro tra il comico e il pensieroso, un romanzo inaspettato perché molte figure della storia e della filosofia vengono ribaltate e messe in discussione, accettate o meno: insomma, come se dalla cattedra gli si desse un voto.

Dopo la sua partecipazione come ospite della XXVIII edizione, Musicultura la riaccoglie in un anno particolarmente difficile per l’industria musicale e lo spettacolo dal vivo. Come membro del Comitato Artistico di Garanzia, quali consiglio sente di dare agli otto vincitori del festival?

Di sicuro non il consiglio di sfondare chissà dove e chissà come! Musicultura è la prova che esiste ancora una canzone libera, che non ha voglia di essere determinata dal gusto di una massa sconvolgente, ma preferisce chi sente le cose veramente con l’anima giusta, col cuore giusto. Auguro a tutti i vincitori di avere successo e un riscontro, ma non certamente di diventare star: quel tipo di successo effimero nasconde probabilmente qualcosa di sbagliato.

INTERVISTA. Da Reckoning song ad Anagnorisis: Asaf Avidan incanta l’Arena Sferisterio

A Musicultura 2020 approda Asaf Avidan, il cantautore israeliano che nel 2012 ha scalato le classifiche internazionali con il brano Reckoning song, confermando così di fatto il suo posto tra i più interessanti esponenti della canzone d’autore dell’ultimo decennio. 
Si definisce un cittadino del mondo: dagli esordi a Gerusalemme ha scelto di vivere la  tranquillità di Colle San Bartolo, vicino Pesaro, dove ha deciso di stabilirsi per lavorare. “Solo i marchigiani si stupiscono di questa scelta – scherza – e a loro rispondo di darmi delle ragioni per non farla: le Marche sono una regione meravigliosa”.
Avidan è un artista eclettico che nel corso della sua esperienza musicale è giunto alla maturità necessaria per esprimersi come solista, proponendo al suo pubblico progetti sempre nuovi e ragionati. Il suo ultimo album, Anagnorisis, in uscita a settembre, ne è una chiara esemplificazione.

È stato la mente creativa di Asaf Avidan & the Mojos, una band folk rock israeliana che ha fondato nel 2006 a Gerusalemme e con la quale ha pubblicato tre album: The Reckoning, Poor Boy/Lucky Man, Through the Gale. Qual era l’idea alla base del gruppo? 

È difficile da dire: guardando indietro non è cambiato molto tra quei giorni e quello che è avvenuto dopo, soprattutto a livello artistico e cantautoriale. Ad essere onesti forse non eravamo propriamente un gruppo. Ho studiato cinema e volevo concentrarmi su quella strada, la musica è arrivata dopo.

Ero davvero spaventato e l’idea di avere una sorta di famiglia con cui approcciarmi a questo mondo mi ha aiutato molto. Vivere ogni giorno per quattro anni con queste persone è stato importantissimo dal punto di vista della produzione musicale, sono tutti dei musicisti di talento ed ognuno ha portato qualcosa alla musica che stavamo creando. La mia vena solista rimaneva comunque palese.
Siamo cresciuti negli anni ’90 con i Nirvana e siamo stati influenzati dai Led Zeppelin e Jimi Hendrix, volevamo riportare in auge il folk, il blues e il rock poiché in quegli anni tutto ruotava intorno al pop e all’hip-hop. Questi erano i Mojos.
Nell’ultimo album che abbiamo prodotto si può ascoltare la mia inversione di tendenza: ero pronto a lanciarmi dal trampolino da solo. 

Nel 2012 il brano Reckoning Song diventa popolare in Germania grazie a un remix di DJ Wankelmut e viene pubblicato in versione digitale con il titolo One Day/Reckoning Song (Wankelmut Rmx) raggiungendo le prime posizioni nelle classifiche internazionali in paesi come Italia, Belgio, Francia e Paesi Bassi. Com’è stato vivere sulla propria pelle il successo immediato del singolo a livello internazionale?

In realtà è stato piuttosto difficile, il successo mainstream non era affatto pianificato. Naturalmente desideravo sfondare e sono grato per quello che è avvenuto con  Reckoning song ma il remix non era propriamente mio, la canzone era stata ridotta. Ero spaventato del fatto che le persone mi avrebbero per sempre associato al ritornello One Day remixato. Quando però ho cominciato a pubblicare album differenti mi sono subito reso conto che il pubblico non era stupido,  Reckoning song era stato solamente il lasciapassare per conoscere la mia musica, da lì la gente andava alla ricerca di altri miei brani. 
Non posso parlare di amore e odio per Reckoning song, avrei preferito che la storia fosse stata scritta in maniera differente ma alla fine dei giochi mi ha introdotto al pubblico internazionale e sono felicissimo di questo.

Proprio dopo il successo di One Day decide di optare per un percorso da solista continuando ad esibirsi dal vivo in versione acustica. A cosa è stata dovuta questa inversione di tendenza?

Avevo deciso di intraprendere la mia carriera da solista già prima dell’uscita di One Day, tanta era la voglia di dar sfogo al mio mix d’impulsi, ma l’improvviso successo della canzone ha fatto tardare la definitiva separazione dal gruppo. Era come se mi sentissi un po’ confinato con i Mojos, privo di nuovi orizzonti. Il blues e il rock non mi bastavano più. Mi sentivo cresciuto come essere umano e volevo sperimentare cose nuove. 

Anagnorisis è il nuovo album che uscirà l’11 settembre. È una parola greca che significa agnizione, che indica non solo l’identità di un personaggio ma anche l’improvvisa consapevolezza di una situazione reale. Qual è stata la genesi di questo ultimo progetto?

Anagnorisis è proprio questo: l’improvvisa presa di coscienza della vera identità da parte di un personaggio, il momento che ci fa uscire dall’ignoranza e ci mette faccia a faccia con la verità. Già prima del lockdown mi sono isolato per scelta, volevo stare da solo dopo dieci anni di concerti e mi sono stabilito nelle Marche, nella tranquillità di Colle San Bartolo. Ho da poco compiuto quarant’anni e mi sento nel pieno di una crisi di mezza età (ride). Quest’album è la ricerca della mia vera identità. L’agnizione funziona nella finzione, nel dramma, non nella vita vera. Ogni canzone dell’album fa rivivere un piccolo personaggio che è dentro di me e se avrete la pazienza di ascoltare con attenzione verrà fuori il quadro completo di chi sono.

A Musicultura 2020, il suo ritorno sul palco dopo mesi di incertezza dovuti all’attuale emergenza sanitaria: sensazioni? 

Sembra una frase fatta ma il palco è veramente la mia vita, quindi ringrazio Musicultura per avermi reso possibile calcarlo in un momento così delicato. Spero di aver saputo esprimere il massimo! 

INTERVISTA. “Musica delle mie fauci”: il primo progetto musicale di Antonio Rezza a Musicultura

“Quel che presento è musica delle mie fauci, non un tentativo di fare ciò che già so fare, di invadere un campo seminato altrove, ma la prova che la vibrazione può estendersi al di qua dell’intelletto e garantire al giudizio un’estensione musicale”. In questi mesi di reclusione il performer Antonio Rezza non si è fermato, ma è riuscito a modulare suono e pensiero dentro una bocca che ha parlato meno. E che è tornata ad essere prodiga di parole in quest’intervista.  

In un mondo in cui lo spettro dell’arte performativa va da Marina Abramovic ad Antonio Rezza, chi è il performer e qual è il discrimine effettivo tra performer e attore, se ce n’è uno? 

Il limite che c’è tra il performer e l’attore è la durata del tipo di sperimentazione: l’attore non conduce una vera e propria sperimentazione, perché necessita sempre di un personaggio o di uno stato d’animo. Non può sperimentare ma, con molta dedizione, può diventare un bravo esecutore. La performance è qualcosa di differente. Credo che la ricerca di Marina Abramovic si sia conclusa un po’ di tempo fa; spero che la ricerca mia e di Flavia Mastrella non si concluda così presto. Non è un giudizio di merito ma è evidente che la dirompenza iniziale di Marina Abramovic, la sua cattiveria e la sua sfrontatezza siano andate perse, perché perdere fa parte di un processo fisiologico. Anche un corpo mozzo o fatto a pezzi possiede una sua energia, ma in un percorso artistico si potrebbe arrivare a non trovare più qualcosa da dire. Nel momento in cui dovesse avvenire, anche nel mio caso, è meglio farsi fuori.

Quanto l’idea di performance è connessa con la manipolazione, giocosa o disturbante che sia, del proprio corpo davanti al pubblico? 

Non mi pongo il problema: ci si nasce così, non ci si diventa. Non esiste una scuola per non servire il personaggio o per non essere attore; non può essere solamente lo stato d’animo di qualcun altro a guidare le gesta di un attore. I più grandi attori che io riconosco, per esempio parlando di italiani Gian Maria Volonté o Mastroianni, servivano sì lo stato d’animo, ma già in maniera performativa. Non nascere attore, quindi non dovermi immedesimare, è stata per me una grande fortuna: attraverso gli habitat che realizza Flavia Mastrella sono doppiamente avvantaggiato perché mi trovo in uno spazio che non è neppure mio e posso fare davvero ciò che non mi aspetto.

Nel luglio 2018, forse fin troppo in ritardo, il Festival Internazionale di teatro della Biennale di Venezia vi ha attribuito il Leone d’Oro alla carriera. Qual è il segreto della longevità trentennale del duo Rezzamastrella?

Ci sono da sempre alcuni momenti di attrito, però il vero disaccordo potrebbe subentrare solo quando non ci si riconosce più in quel che si fa. Si potrebbe creare una frattura facendo cose brutte: finché uno fa cose belle si va avanti, con sacrificio e abnegazione, che non significa mai negare se stessi, ma significa fare della vita artistica l’unica vera vita esistente. Comunque, lavoriamo spesso anche autonomamente: difatti ora io sto preparando un film su Cristo e Flavia invece un film sulla Costituzione recitata dagli animali. 

Parliamo ora di Pitecus, opera a più quadri presentata al pubblico de La Controra di Macerata, lo spettacolo teatrale sull’uomo e sulle sue perversioni “(mai) scritto da Antonio Rezza”, come tu stesso dichiari. Immaginando sia un’opera per sua natura volontariamente non codificata, sempre in divenire, anche linguisticamente, come è maturata in tutti questi anni? Sei rimasto fedele all’idea sorgiva del 1995?

Pitecus sfrutta la tecnica bidimensionale di Flavia Mastrella che prevede i quadri di scena da cui sbuco con la testa, con le braccia e con le gambe; è l’unione di tre opere, Barba e cravatta, Seppellitemi ai fornetti e Pitecus; ci sono quindi frammenti di più di trenta anni fa, dal 1988 in poi. L’opera non si è evoluta perché è come uno spartito musicale invariabile: noi facciamo musica e ritmo, siamo nati in primis come musicisti o cineasti. Il teatro è l’unica cosa che non facciamo ma anche l’unico settore che ci ha accolto: per questo la nostra idea di teatro è così difforme da ogni altra forma teatrale. Il cinema non era un terreno libero, lo stiamo riprendendo solo adesso; la musica invece ce l’abbiamo da sempre dentro: per comodità ci esprimiamo in teatro. In Pitecus e in Io, gli spettacoli più antichi, c’è anche dell’improvvisazione, ma in realtà è andata persa. Tutto ciò che sembra improvvisazione fa parte del testo, ovvero il meta-testo si accanisce sul testo. Sono sempre gli stessi spettacoli, pur dando di volta in volta suggestioni diverse, come ogni forma di arte superiore, da Bacon nella pittura a Lynch nel cinema; tutto ciò che non si capisce è per me superiore.

Per quanto riguarda invece Groppo e Galoppo. Il Pianto del Centauro, Armonie gutturali a quattro ganasce, il primo progetto musicale di Antonio Rezza, dichiari: “sapevo di avere un pulpito che dimorava nella gola, ma la vita di ogni giorno, infettata dai discorsi di rappresentanza, non dava al demone la libertà di cui dispone”. Da cosa dovevi liberarti? 

Per cervelli che funzionano in autonomia essere chiusi in casa per tre mesi potrebbe essere una ricetta esplosiva. Mi auguro al più presto una pandemia a secco, senza morti e sofferenza. Dovrebbe essere obbligatorio stare chiusi da soli per almeno quattro mesi all’anno, dovrebbe essere legge di stato! Le menti libere se costrette a fare qualcosa danno i risultati più dirompenti: io, nei mesi trascorsi da solo, ho esercitato la mia voce attraverso la musicalità che ho sempre avuto dentro. Ne è uscito un progetto inaspettato, che non volevo divulgare così presto. Ezio Nannipieri però l’ha ascoltato e mi ha convinto subito a presentarlo qui a Musicultura nella Sala Cesanelli.

Questa prima metà del 2020 ha probabilmente acutizzato alcune delle sofferenze costanti nell’industria dell’intrattenimento, del teatro, della musica e della cultura in genere. Quali sono le prospettive del teatro contemporaneo? 

Il teatro era già sofferente prima, con schede tecniche sempre più povere e poco personale malpagato. In questo periodo il governo ha ulteriormente dimostrato che la cultura non serve a nulla, non ne ha neppure mai parlato perché a conti fatti la cultura si è lasciata comprare da uno stato in caduta libera. Invito tutti ad andar via per qualche anno, a lasciare la classe politica da sola, senza nessuno da amministrare, per vedere chi governeranno senza pascolo.

INTERVISTA. Un suono lungo 150 anni: il Gruppo Ocarinistico Budriese a Musicultura 2020

È una tradizione antica, con un secolo e mezzo di storia alle spalle, quella che il Gruppo Ocarinistico Budriese ha deciso di far rivivere;  è una tradizione “vecchia” di 150 anni, eppure ancora incredibilmente attuale. A dimostrarlo è questo ensemble che ha l’obiettivo di riscoprire il repertorio classico/operistico e di sperimentare nuove sonorità legate alla musica contemporanea, con una protagonista indiscussa: l’ocarina. O meglio, con tante protagoniste indiscusse:  ocarine di ogni dimensione, che in occasione della settimana finale di Musicultura hanno animato con le loro note il centro storico e lo Sferisterio di Macerata. 

Nel 1853, a Budrio, Giuseppe Donati inventa l’ocarina, un piccolo strumento a fiato in terracotta. Attualmente il vostro gruppo rappresenta la continuazione di quella storica tradizione. Volete raccontarci di questa grande responsabilità?

Siamo molto orgogliosi di questo retaggio storico. Seguiamo l’antica tradizione del Settimino di Ocarine: siamo un gruppo di sette persone con sette ocarine di diverse dimensioni, dalla più piccola alla più grande. Ci sono molte persone che portano avanti questa tradizione oltre noi, in particolare in Corea del Sud.

Ecco, a distanza di oltre due secoli Il Gruppo Ocarinistico Budriese raccoglie l’eredità musicale e culturale dei complessi ocarinistici formatisi a Budrio. Quali sono gli insegnamenti dei grandi maestri che avete preservato nel tempo?

Ci fu un grande passaparola negli anni settanta e ottanta da parte delle generazioni precedenti ma soprattutto gli insegnamenti più prezioni provengono da un corpus di letteratura per sette ocarine che risale agli anni venti. 

Dagli anni ’90 il G.O.B  è stato testimonial della cultura musicale emiliana con concerti in Australia, Argentina, Cile, USA, e dal 2010 in poi avete realizzato tournée anche in Corea del Sud, Giappone e Cina. Avete notato delle differenze di recezione tra il pubblico italiano e quello mondiale?

Sia in Corea del Sud che in Giappone ci sono persone veramente appassionate dell’ocarina. Probabilmente c’è da parte del pubblico orientale una maggiore consapevolezza perché hanno un’esperienza diretta dello strumento, cosa che il pubblico italiano difficilmente ha.

Qual è stata la vostra reazione all’invito di Musicultura come ospiti?

Siamo molto contenti di essere stati invitati come ospiti da Musicultura. Ci ha sorpreso la scelta coraggiosa ed interessante della direzione artistica di invitare un gruppo come il nostro che è così eterogeneo rispetto all’offerta musicale di questo festival, incentrato soprattutto sul cantautorato. 

INTERVISTA. I Pinguini Tattici Nucleari infiammano lo Sferisterio per la XXXI edizione di Musicultura

Reduce dalla settantesima edizione del Festival di Sanremo, la band bergamasca approda sul palco di Musicultura con tutto il suo carico di energia, un sound fresco e vivace, una scrittura tanto ironica quanto malinconica e la grinta di chi ha la giovinezza dalla propria. Prima di presentare il loro nuovissimo singolo, La Storia Infinita, al pubblico dello Sferisterio di Macerata, i Pinguini Tattici Nucleari si sono raccontati così alla redazione di “Sciuscià”. 

La vostra carriera musicale decennale è decisamente esplosa dopo l’approdo di questo inverno sul palco del Teatro Ariston di Sanremo, favorendo il successo radiofonico del vostro brano Ringo Starr, ormai disco di platino. Come stato salire sul palco di uno dei più prestigiosi festival musicali italiani? 

Sarà forse una banalità ma è stato semplicemente emozionante: calcare quel palco pieno di storia, per noi venticinquenni, è stato come entrare nel mondo dei grandi. In più, sapere che a casa così tante famiglie sono incollate al piccolo schermo contribuisce ancora più alla magia e alla bellezza di quel momento. E poi è stato bellissimo poter vedere come si lavora ad un livello così alto e scoprire tutte le dinamiche che si vanno a creare. Inaspettatamente, anche l’ambiente che si è creato è stato molto positivo: si potrebbe pensare che nell’ambito di una kermesse musicale come Sanremo ci sia tanta rivalità tra artisti, ma in realtà tutti fanno il tifo per tutti e c’è molta solidarietà tra i vari concorrenti. 

Proprio ieri, il 28 agosto è uscito il vostro ultimo singolo, La Storia Infinita, che preannuncia forse un vostro nuovo attesissimo progetto. Cosa avete in cantiere?

 In questo momento stiamo scrivendo, ma un passo alla volta! È appena uscito per Sanremo il repack del disco Fuori dell’Hype con tre pezzi inediti. Abbiamo però sicuramente in progetto di buttare fuori tantissimo altro materiale.

A proposito di scrittura: i vostri testi sono ricchissimi di ironia pungente e dei giochi linguistici più disparati. Qual è la genesi compositiva dei vostri brani, sia dal punto di vista dei testi che degli arrangiamenti? 

Il compositore principale sia dei testi che della musica, anche se poi ci lavoriamo insieme, è sempre Riccardo, la nostra voce.  C’è comunque molto confronto sulle bozze durante il processo compositivo in sala prove; il grosso del lavoro di gruppo per un organico come il nostro è poi arrangiare i pezzi in chiave live, perché a conti fatti è quella la nostra dimensione vera e propria.

In quanto bergamaschi, vi siete trovati proprio nell’epicentro della pandemia, in momenti particolarmente dolorosi, e spesso le parole hanno lasciato posto al silenzio. Nonostante tutto, siete riusciti sempre a mantenere un contatto onesto con i vostri fan tramite i social. Quali prospettive immaginate per la musica live dopo questo periodo?

È davvero difficile dirlo.  Chiaramente speriamo per il meglio perché, al di là del fatto che ne va del nostro lavoro, la situazione riguarda l’arte in genere, la musica e quello che rappresenta per ciascuno di noi. Ovviamente bisognerà seguire le evoluzioni della pandemia, ma è davvero dura fare dei pronostici. 

Da Cartoni animati, il primo LP autoprodotto nel 2012, all’ultimo disco Fuori dall’Hype del 2019 uscito per Sony Music, avete fatto molta strada. Cosa consigliereste a chi decide oggi di intraprendere la carriera musicale, in particolare ai vincitori di Musicultura?

Di continuare a crederci, di migliorarsi ogni giorno e soprattutto di avere molta pazienza, perché le cose belle arrivano solo con la calma.

INTERVISTA – “Dove non siamo stati”: la poesia di Giovanna Cristina Vivinetto incanta La Controra

«[…] Col tempo avremmo imparato/ 

per non farci cogliere mai più impreparati/ 

a saper far parlare anche il vuoto». 

Nella sua più recente raccolta di poesie Dove non siamo stati (Rizzoli, 2020), presentata al pubblico de La Controra per la XXXI edizione di Musicultura, la poetessa Giovanna Cristina Vivinetto racconta di tanti strappi e mancanze, di innumerevoli fantasmi del passato, di transizioni graduali e di sorpassi lenti; ma racconta anche di altrettante rinascite luminosissime, di altrettanti dolori minimi, alle volte minimalisti, alle volte monumentali. Quella di Giovanna è una maturità artistica pura, quasi disarmante vista la giovanissima età, una maestria unica, di chi non deve di certo alzare la voce per farsi udire, di chi riesce con la più delicata delle schiettezze «a far parlare anche il vuoto» e far sì che quel vuoto – e la conseguente rinascita – arrivi proprio a tutti, anche a chi spera di non sentire. Alla redazione di “Sciuscià”, la poetessa siracusana si racconta così.

La tua prima raccolta di poesie, Dolore minimo, è stata un vero e proprio grido di identità, caso critico ed editoriale del 2018 e rarità nel mondo della poesia contemporanea. Cosa stai rivendicando oggi? Cosa è cambiato da quel recente esordio?

Ogni “istanza” che possa essere definita in qualche maniera “identitaria” e che porta avanti i diritti civili non ha mai una data di scadenza; certe battaglie sono valide in qualsiasi epoca storica, e anzi con il passare del tempo diventano ancora più attuali, basti pensare alla lotta femminista ripresa fortunatamente negli ultimi anni, dopo troppo tempo. Per quanto riguarda invece un’identità più ibrida o fluida come può essere quella LGBT, o che mi riguarda ancor più da vicino, come l’identità sessuale delle persone transessuali, la tematica è ancor più attuale. Sono argomenti recentissimi non solo nel dibattito culturale, ma anche in quello storico e politico: difatti, risale solo al 1984 la legge che permette alle persone transessuali di poter cambiare il sesso dopo una trafila burocratica e medico-chirurgica. Solo recentemente c’è stato un grande salto in avanti, grazie a una sentenza del 2015 che rende possibile cambiare sesso senza dover ricorrere necessariamente alla chirurgia. 

Essendo una tematica civile così rilevante, deve essere sempre affrontata con maggior vigore: il fatto che la poesia si faccia carico di qualcosa di così forte non può che giovare alla comunità, perché da sempre la letteratura è il veicolo di idee e concezioni che meglio permette di superare certi stereotipi. Insomma, la letteratura è una voce corale, non appartiene mai al singolo, o peggio ancora a chi la produce, ma appartiene davvero a tutti. 

Riguardo invece la tua seconda uscita, Dove non siamo stati, nella nota critica Alberto Bertoni racconta che “Orfeo torna solo nel mondo, dopo essere diventato lui Euridice”. Difatti, la raccolta si presenta come un viaggio nell’Ade, un ritorno ai fantasmi del passato. Si tratta di una trasformazione o di una resurrezione? Ovvero, c’è di mezzo un omicidio?

Sembra ci sia stato un omicidio perché in effetti nella prima sezione, quella dai toni più dark, cerco di indagare ciò che è avvenuto dopo la perdita di una parte della mia identità. Ogni transizione, che sia sessuale o meno, comporta una perdita. Tutti noi perdiamo nel corso della nostra esistenza una parte di noi stessi; la vera scommessa sarebbe proprio tentare di mantenere questa parte, o meglio di recuperarla, di tenerla in vita ricordando quello che eravamo. 

La seconda raccolta di poesie, Dove non siamo stati, è un’indagine nei confronti di un’assenza, che mi ha riguardato prima in quanto parte della mia identità, ma poi rivolta anche all’esterno: infatti, se in Dolore minimo il viaggio è in solitaria, vale a dire il percorso di un’identità che riscopre sé stessa, qui lo sguardo della mia cinepresa si allarga oltre i confini della sola identità, abbracciando quelli di un paese intero; nell’ultima sezione racconto infatti di un centro abitato, Ciuriddia, ovvero Floridia -dove sono nata e cresciuta- nell’ottica di fare i conti con una realtà che si è persa per recuperarla, dirle addio e infine andare avanti.

 Questo è il significato di tutti i diversi fantasmi che si avvicendano nel libro: capire che dove apparentemente non siamo stati e dove non saremo più in realtà continueremo ad esistere, perché dalla nostra abbiamo delle storie da raccontarci: esistiamo perché raccontiamo.  

 Parliamo di scelte stilistiche. Spesso si ravvisano delle attenzioni metriche proprie della tradizione italiana, ma in una scrittura volutamente libera, quasi prosastica. Da cosa deriva questa inclinazione?

Diversi modelli hanno influenzato la stesura di questo libro: in particolare, oltre alla compagna di letture a cui sono più affezionata, Wisława Szymborska, ci sono anche Pierluigi Cappello, Franco Buffoni e Antonella Anedda. In effetti, la raccolta è molto variegata: nella prima sezione, per esempio, ho inserito componimenti dal ritmo più serrato, in rimando alla metrica tradizionale con decasillabi, endecasillabi e dodecasillabi; nell’ultima sezione invece i versi si sono di molto allungati, perché sentivo di dovermi avvicinare all’andamento della prosa. Ho poi concluso il libro con una poesia dalla struttura più lirica, con strofe da otto versi, in maggioranza endecasillabi.

Come unicum nella scena poetica Under 30 italiana, quali sviluppi immagini per la lirica contemporanea?

La nostra tradizione poetica italiana è meravigliosa ma al tempo stesso può risultare asfissiante: i giovani dovrebbero leggere di più i contemporanei e tentare di scrollarsi di dosso tanti modelli preponderanti e tante idee precostituite. Questa è l’unica via d’accesso per scrivere qualcosa di proprio, per accedere alla modernità: frequentare i poeti viventi e smetterla di radicarsi nel passato. La maggior parte delle persone che scrive poesia oggi è ferma all’ermetismo e produce versicoli di cui non si capisce nulla. La bellezza della poesia però risiede nella chiarezza, e forse questa sua potenzialità è anche l’unica arma per fare uscire la poesia dai ranghi dove è stata rinchiusa. 

Dopo il Nobel alla letteratura di Bob Dylan, il confine tra lirica e musica è ancora più labile e ogni categoria è sorpassata. Secondo te è giusto che spesso i cantautori vengano considerati al pari dei poeti? 

Non credo di essere la persona giusta per dire qualcosa in merito, ma il concetto che dobbiamo avere in mente per intendere il futuro è quello di contaminazione delle espressioni artistiche. Non mi sorprende che un premio Nobel sia stato assegnato a un cantautore: più che scandalizzarci, dovremmo riflettere sul perché questo avvenga. Per evolversi, la poesia non può certo rimanere rinchiusa in se stessa ma deve continuamente attingere a diverse forme d’arte per arricchire il proprio mezzo comunicativo.

INTERVISTA – Musicultura 2020: è il Momentum dei Calibro 35

Si è aperta a suon di colonne sonore cinematografiche l’edizione 2020 di Musicultura, che né l’emergenza sanitaria dovuta al Covid né la pioggia battente che ha preceduto l’evento sono riuscite a bloccare.

Così ieri sera, in Piazza Vittorio Veneto, il sound funk e jazz dei Calibro 35 è stato protagonista di una serata in cui il pubblico del Festival ha potuto apprezzare le sonorità dei film poliziotteschi degli ‘anni 70 riproposte dalla band, che prima della sua esibizione ha rilasciato quest’intervista alla redazione di “Sciuscià”.

Gennaio 2020: i Calibro35 tornano sulla cresta dell’onda con l’uscita del nuovo album Momentum; le registrazioni sono avvenute nello studio milanese TestOne, lo stesso dove avete realizzato il primo omonimo disco dodici anni fa. Com’è stato tornare dove tutto ha avuto inizio?

È stato molto divertente ed interessante tornare sui nostri passi perché Momentumsi rifà proprio ai nostri primissimi lavori. Non si è trattato di una scelta consapevole, ma piuttosto di un puro caso fortuito. Non è stato né voluto né programmato, semplicemente è capitato.

Restiamo ancora in tema: chi sono i Calibro di Momentum?

Momentum per noi è sinonimo di una vera e propria rinascita, sia fisica che concettuale. I Calibro di Momentum sono gli stessi di dieci anni fa. Più vecchi e più stanchi, ma sempre inguaribilmente gli stessi.

Provenendo da background musicali totalmente differenti, ed essendo impegnati in carriere parallele e svariati side-project, come conciliate le vostre diverse nature e soprattutto come riuscite a mantenervi sempre integri nella vostra musica?

Sembrerà banale ma la forza dei Calibro 35 risiede proprio nella nostra diversità. Il confronto e la successiva fusione di gusti musicali ed influenze artistiche totalmente contrastanti, talmente discostanti da sembrare apparentemente quasi del tutto inconciliabili, ha insolitamente portato al crearsi di una particolare alchimia che poggia le sue basi proprio sull’ incompatibilità e che per noi ha inspiegabilmente sempre funzionato e funziona ancora oggi.

Poco più di un mese fa il mondo del cinema e quello della musica hanno pianto la scomparsa del pluripremiato maestro delle colonne sonore Ennio Morricone. Una stanza vuota, Trafelato e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospettosono solo alcuni degli innumerevoli tributi dei Calibro all’amato padrino musicale. Credete che Morricone abbia mai ascoltato le vostre reinterpretazioni?

Nel corso degli anni abbiamo avuto numerosi responsi, ma non sappiamo se Ennio Morricone abbia mai avuto modo di ascoltare uno dei nostri pezzi. Se mai dovessimo averne conferma ci sentiremmo solo che infinitamente grati ed onorati.

 

Questa è la vostra prima volta sul palco di Musicultura e a Macerata. Che cosa si prova a calcare nuovamente le scene e a ritrovarsi sul palco di un grande Festival come questo dopo tutti questi mesi di “congelamento”?

Ci riteniamo molto fortunati a poter partecipare al Festival in un momento simile. Privilegiando il lato strumentale, la musica dei Calibro 35 si concilia bene con le norme per il distanziamento sociale e anche una platea seduta e composta può renderci a suo modo omaggio. Anche molti spettatori si sono ricreduti: musica più godibile e senza interruzioni. La vera sfida sarà in autunno e in inverno quando gli spazi per esibirsi saranno notevolmente ridotti. Per quel che conta, noi restiamo positivi.

 

 

 

L’Università di Macerata rende omaggio a Piero Cesanelli

Durante la serata del 26 Agosto, in occasione dell’atteso concerto dei vincitori della XXXI edizione del Festival, l’Università di Macerata renderà omaggio all’amato e storico direttore artistico del Festival, Piero Cesanelli, scomparso lo scorso anno.

Un gesto dal valore simbolico, un riconoscimento ufficiale alla lungimiranza e all’impegno di Piero Cesanelli nel valorizzare giovani talenti: è con questo spirito che l’Università di Macerata ha deciso di rendere omaggio al patron di Musicultura nel primo anno di festival senza il suo ideatore.

Abbiamo voluto riconoscere alla sua memoria– spiega il Rettore Francesco Adornato – il sigillo dell’Ateneo. Ci uniscono la profonda passione per i giovani e i loro molteplici talenti, il comune impegno per offrire a ragazze e ragazzi le giuste occasioni per sperimentare le loro capacità e provare che sono in grado di raggiungere le mete che sognano e coltivano nel cuore”.

Il Rettore consegnerà il sigillo dell’Ateneo alla moglie di Piero Cesanelli, Paola e all’attuale direttore artistico e suo braccio destro Ezio Nannipieri durante la serata del concerto dei vincitori .
Inoltre, per rafforzare la collaborazione, avviata da anni, tra le due istituzioni, la prossima edizione “covid-free” di UniFestival – l’evento annuale che vede gli studenti Unimc organizzatori e protagonisti – sarà dedicato a Piero Cesanelli.

Ritengo– prosegue il Rettore – che ci siano consonanze significative che, negli anni, si sono tradotte in forma di collaborazione e partecipazione: con i nostri studenti impegnati nelle annuali giurie o nell’ufficio stampa; oppure con la webradio dell’Università di Macerata, Rum. Preziose occasioni artistiche, culturali, formativo-educative, di crescita e arricchimento personali”.

I Pinguini Tattici Nucleari a Musicultura 2020

I Pinguini Tattici Nucleari irrompono nel ricco cast della XXXI edizione di Musicultura.Si esibiranno sul palco del festival della canzone popolare e d’autore italiana, allo Sferisterio di Macerata, sabato 29 agosto.

“Sono ragazzi che seguiamo con attenzione fin dal loro esordio. Sanno raccontare storie, accostarsi a sentimenti complessi con leggerezza ed intelligente ironia, dedicarsi alle proprie canzoni con passione e cure artigianali. La coesistenza di tutti questi requisiti nella stessa realtà artistica è una cosa rara –osserva il direttore artistico di Musicultura Ezio Nannipieri, che aggiunge: La band guidata da Zanotti non è uno di quei fuochi di paglia che nel panorama musicale di oggi divampano e si spengono dall’oggi al domani, penso che i Pinguini siano destinati a durare tanto e stupirci ancora molto. Siamo contenti che abbiano risposto al nostro invito, li aspettiamo con stima e simpatia”.

La XXXI edizione di Musicultura si avvia intanto a vivere il suo atto finale, in presenza di pubblico allo Sferisterio di Macerata, con due serate di spettacolo (28 e 29 agosto). Le espressioni migliori della canzone italiana si intrecceranno con le suggestioni della parola poetica, Sul palco si alterneranno con set studiati ad hoc Massimo Ranieri, Tosca, ilvincitore dell’Eurovision Song Contest 2017 Salvador SobralAntonio Rezza BandaKadabravenerdì 28 agosto; Francesco Bianconi, Asaf Avidan, Gruppo Ocarinistico Budriese, Bruno Tognolini, Lucilla Giagnoni e per l’appunto i Pinguini Tattici Nucleari sabato 29 agosto.

In veste di conduttore-narratore ritroviamo Enrico Ruggeri. Il cantautore, che è anche membro del Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura, è alla sua seconda esperienza in questo ruolo sul palco della manifestazione.

Protagonisti delle due serate saranno anche i giovani vincitori del prestigioso concorso di Musicultura, con il pubblico dello Sferisterio chiamato ad eleggere tra loro il vincitore assoluto, al quale andranno in premio 20.000 euro.  Queste le otto proposte in gara: Fabio Curto, Miele, BlindurI Miei Migliori ComplimentiH.E.R.Senna, Hanami e La Zero. Dopo lunghe selezioni, gli otto vincitori del Festival sono stati incoronati dal prestigioso Comitato di Garanzia di Musicultura, composto da Claudio Baglioni, Brunori Sas, Vasco Rossi, Sandro Veronesi, Francesca Archibugi, Giorgia, Enzo Avitabile, Enrico Ruggeri, Alessandro Mannarino, Luca Carboni, Guido Catalano, Carmen Consoli, Simone Cristicchi, Gaetano Curreri, Frankie hi-nrg mc, Teresa De Sio, Niccolò Fabi, Dacia Maraini, Mariella Nava, Gino Paoli, Ron, Andrea Purgatori, Alessandro Carrera, Ennio Cavalli, Tosca, Paola Turci, Roberto Vecchioni, Willie Peyote.

Rai Radio1, la radio ufficiale del festival, trasmetterà in diretta le due serate, tra i media partner c’è anche Rai Isoradio. L’evento sarà trasmesso televisivamente da Rai2, con messa in onda il 3 settembre in seconda serata.

Gli spettacoli allo Sferisterio (biglietti disponibili su Vivaticket) sono solo una “porzione”, se pur rilevante, del “menù” più ampio del festival. Musicultura 2020 accenderà infatti la città di Macerata nell’intera settimana che va dal 24 al 29 agosto con il denso programma della Controra, la sezione cittadina della manifestazione, che propone concerti, recital, spettacoli teatrali, incontri con gli autori, tutti ad ingresso libero. Tra gli ospiti, oltre ad alcuni degli artisti che si esibiranno anche allo Sferisterio, i Calibro 35, Diego Bianchi (in arte Zoro),Giovanna Cristina Vivinetto, Ennio Cavalli, Walter Veltroni.