Intervista: Il “caos etnico” dei DakhaBrakha a Musicultura 2022

Da Kiev, Ucraina, i DakhaBrakha portano il loro “caos etnico” sul palco di Musicultura. Il progetto nasce nel Kyiv Center of Contemporary Art «DAKH», nel 2004, dalla geniale idea del direttore teatrale Vladyslav Troitskyi. Il gruppo è composto da Marko Halanevych, Iryna Kovalenko, Olena Tsybulska e Nina Garenetska. Con la loro musica, tradizione e contemporaneità si incontrano; l’aggiunta di ritmi e strumenti da tutto il mondo crea immagini suggestive ed evocative: ascoltarli è come viaggiare nel tempo e nello spazio.

Nel 2016, pubblicano The Road e si esibiscono in Italia, al Triennale Milano Teatro, nell’ambito della rassegna musicale Music after Music. Nel 2020, tornano con il loro ultimo progetto Alambari, album – dal look eclettico e intrigante – registrato nel 2019, che garantisce al gruppo il premio per la categoria “Musical Arts” nell’ambito dello Shevchenko National Prize del 2020.

Conosciamo meglio questo straordinario ensemble con la nostra intervista a Marko Halanevych.

Come creatori del “caos etnico”, avete unito alla musica folk ucraina i ritmi, le sonorità e gli strumenti tradizionali di diverse nazioni del mondo. Avete intenzione di sperimentare ancora in questo senso?

Siamo sempre pronti a sperimentare, ma per noi nulla è pianificato, non abbiamo strategie. Ci affidiamo al destino: se sentiamo di fare qualcosa, semplicemente lo facciamo.

Il vostro progetto è stato creato originariamente in e per il teatro, ma in seguito avete iniziato a esibirvi anche al di fuori. Quali sono le differenze riscontrate tra i diversi contesti?

Ci sono sicuramente energie diverse. Quando ci esibiamo a teatro è sempre una magnifica esperienza, è di grande impatto e ha forte influenza sulla nostra musica. Al di fuori di esso, percepiamo il contatto diretto con il pubblico, non ci sono muri, l’interazione è immediata. In fin dei conti, però, DakhaBrakha è DakhaBrakha proprio grazie al teatro.

La musica è unione, pace, armonia. Visti i recenti avvenimenti che riguardano il vostro paese e che hanno destato l’attenzione mondiale, quanto è importante per voi far circolare un messaggio di pace attraverso questa forma d’arte?

Certamente la pace in questo momento è il nostro sogno più grande, ma per noi non è il solo obiettivo da raggiungere; vogliamo vincere questa guerra affinché ci siano pene adeguate nei confronti di chi ha invaso un paese calpestando senza pietà i diritti umani di un’intera popolazione. Quindi non è solo una questione di pace, vogliamo giustizia. La luce vince sempre sulle tenebre.

Non è la vostra prima volta in Italia; come vi sentite a tornare nel nostro paese, sul palco di Musicultura, nella cornice dello Sferisterio di Macerata?

Conosciamo il pubblico italiano, amiamo profondamente questo paese e la sua cultura. Tuttavia, non sapevamo cosa aspettarci da questa esperienza, trovarci in un contesto così ampio come quello di Musicultura è stato, per noi, singolare e magnifico.

Il vostro nome, DakhaBrakha, significa “dai/prendi” in ucraino antico; sulla base della vostra lunga esperienza, la musica cosa vi ha fatto dare e ricevere?

La musica ci ha permesso di dare e ricevere energia alle e dalle persone; è uno scambio difficile da spiegare a parole. È questa energia che ci dà la forza di continuare a suonare. Non sappiamo quello che le persone riescono a percepire e ricevere perché noi ci troviamo dall’altra parte del palco, ma spesso ci è stato detto che la nostra musica è un ponte che collega il presente alla tradizione e al passato, evoca un tipo di emozioni mai sentite prima. Questo è di grande ispirazione e ci fa capire che stiamo facendo le cose nel modo giusto.

Intervista ad Angelo Branduardi ospite a Musicultura 2022

Quasi cinquant’anni di carriera e 50 album nel segno della sperimentazione, della ricerca, dell’esplorazione muovendosi tra musica antica, pop, folk. Angelo Branduardi ha scritto e cantato di filosofia, Medioevo e testi sacri e si è lasciato ispirare da Dante, dalla poesia russa e da Donovan e Cat Stevens. Ai microfoni di Musicultura, il Maestro fornisce una spiegazione chiara e illuminante della sua concezione di musica e del senso profondo che nascondono i suoi grandi successi, capi saldi degli ultimi 40 anni di musica italiana.
“Per spiegare cosa è per me la musica, faccio mie – dice – le parole del Maestro Ennio Morricone, che sosteneva che «essendo la musica l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto». Mi viene in mente anche un’altra frase, questa volta di Dante, che dice «Musica è rapimento. Non ha bisogno di spiegazioni» e, io aggiungo, neanche di critici. La musica è una componente fondamentale della vita e diventa terapeutica quando riesce a sconfiggere i dolori e la paura della guerra”.
Con grande partecipazione, ironia e senso dell’umorismo, risponde poi a un paio di domande della redazione di “Sciuscià”.

Quanto crede sia importante per le nuove leve del cantautorato italiano partecipare a concorsi come Musicultura?

Quello di Musicultura è un palcoscenico particolare e come tale può essere d’aiuto soprattutto a chi non fa musica immediata. Faccio un augurio sincero ai vincitori di quest’anno e ricordo loro che per essere riconoscibili all’interno del mondo della musica bisogna avere personalità, originalità, intelligenza e tanto carattere, altrimenti non si va da nessuna parte.

Quest’anno è uscito il libro Confessioni di un malandrino, autobiografia di un cantore del mondo. Che cosa ha significato per lei mettere per iscritto la storia della sua vita e della sua straordinaria carriera?

Più che un libro musicale, di cui non frega niente a nessuno, ho voluto fare un vero e proprio racconto come fosse un piccolo romanzo. Ho avuto una vita molto particolare, dal quartiere dell’Angiporto di Genova ad avventure delle più varie e fuori dall’ordinario; addirittura per un periodo sono stato il Piccolo principe delle prostitute. Ho avuto incontri straordinari, cominciando da Franco Fortini e arrivando a Pasolini, Fellini e a un sacco di altra gente con cui ho lavorato. È stata una vita interessante. Ovviamente data la mia età, non scriverò la seconda parte del libro, che comunque sarebbe stata la più scabrosa.

RACCONTO: da La Controra ai live all’Arena

Macerata si prepara a ospitare la quinta giornata del Festival oramai sempre più ricco di novità: narrazione, podcast, fotografia, scrittura e tanta musica!

Agli esordi delle serate di finalissima allo Sferisterio, nell’aria si sente profumo di novità e l’energia che solo la musica live sa dare. E ancora, tanta curiosità e condivisione agli immancabili eventi proposti da La Controra. La giornata si apre con lo speaker Filippo Ferrari e il conduttore radiofonico John Vignola che, tra scambi di esperienze, raccontano di podcast e di tutto ciò che gira intorno a questa nuova forma di comunicazione uditiva-non-visiva: “Il bello del podcast, soprattutto di quello indipendente, è che è un laboratorio personale, come un libro auto-pubblicato”.

Il pomeriggio tra le vie del centro storico maceratese si arricchisce di incontri: con il format di “Le parole che non ti ho detto”,  Ennio Cavalli intervista il giornalista Andrea Vianello. Un racconto toccante il suo, dal dolore e la fragilità di una malattia al cervello alla rinascita del linguaggio grazie al sostegno degli affetti più cari. Vianello racconta che per tornare a parlare c’è bisogno di amore, tanto amore. “Forse è proprio la carica affettiva, il trasporto insito in questa parola che è l’unico vero motore per vivere”.

La giornata prosegue con un’ulteriore intervista, questa volta alla cantautrice romana conosciuta sotto lo pseudonimo di Ditonellapiaga che si racconta a John Vignola confessando qualche particolare aneddoto della sua carriera artistica, esplosa anche grazie alla partecipazione allo scorso Festival di Sanremo. La giovane cantante si svela al pubblico maceratese: “Sento di avere ancora tanto da sperimentare e da imparare. Amo fare ricerca per la scrittura di un disco”.

È la volta di un altro ospite tanto atteso: il fotografo e critico musicale Guido Harari. Ad accompagnarlo nelle sue rivelazioni sono gli intervistatori Marcella Sullo di Rai Radio 1 e il giornalista de Il Giornale Paolo Giordano. Tra domande e curiosità del pubblico, Harari racconta di mille imprese fotografiche, di incontri mirabolanti con i più grandi miti della storia del panorama musicale, descrivendo il magico connubio che da decenni unisce il mondo della fotografia con quello della musica. Parla dei suoi anni ’90 e della spiccata volontà di creare delle autobiografie reali di memoria fotografica, come quelle dei cantautori Fabrizio De André e Giorgio Gaber.

Sul far del tramonto inizia lo show: tutta l’attenzione sull’Arena Sferisterio, per la finalissima della XXXIII edizione del Festival. È il gruppo ucraino dei DakhaBrahka a dare inizio alle danze, con il pensiero e il cuore rivolto alla propria terra.

Spazio ai giovani protagonisti della canzone italiana: Isotta è la prima finalista a esibirsi sul palco e inaugura gli otto brani concorrenti intonando Palla avvelenata. Seguono Valeria Sturba con Antiamore, THEMORBELLI con Il giardino dei Finzi Contini e Martina Vinci con cielo di Londra.

Tra le novità degli esordienti allo Sferisterio, una pausa con un grande classico della musica nostrana, menestrello della canzone italiana, il cantante genovese Angelo Branduardi. Dopo i brani Confessioni di un malandrino e Il dono del cervo, a sorpresa il maestro propone sul palco dell’Arena una rivisitazione de Alla fiera dell’est con una strofa in ucraino.

Si ritorna alla rosa degli 8 vincitori: i prossimi artisti a esibirsi sono Cassandra Raffaele con La mia anarchia ama te e i Malvax che interpretano Esci col cane. Con Vino, Emit coinvolge il pubblico dello Sferisterio con la sua settima proposta in gara. A terminare la fila degli otto sono gli Yosh Whale, band salernitana che calorosamente canta Inutile.

Ritorna, questa volta in live, la cantante Ditonellapiaga che accende gli animi dello Sferisterio con i brani Per un’ora d’amore e Chimica, cavallo di battaglia che l’ha resa celebre a seguito del Festival di Sanremo.

E poi, quando il rock chiama, i Litfiba rispondono! I brani Vivere il tempo, Il mio nome è mai più che Pelù dedica alle popolazioni dell’Ucraina, di Gaza e di Kabul, Lo spettacolo e El Diablo scatenano letteralmente il pubblico dell’Arena. Mauro Giustozzi e Graziano Leoni consegnano l’onorificenza per Alti Meriti Artistici alla rock band di Piero Pelù.

A seguire, è la volta del trio franco-mongolo-bulgaro de i Violons Barbares che fanno doppietta al Festival con ritmi etnici energici, sonorità  inedite e musiche baltiche che ammaliano il pubblico marchigiano in Arena.

In chiusura di serata, vengono assegnati i premi ai vincitori di Musicultura: il premio Miglior Testo viene consegnato dagli studenti dell’Università di Camerino e di quella di Macerata alla band Yosh Whale; il premio AFI invece viene assegnato a Isotta da Sergio Cerruti, presidente stesso dell’AFI (Associazione Fonografi Italiani). Regalo a sorpresa per la città: one-man show con Enrico Ruggeri e la sua esibizione in Arena.

Ci rivedremo nella seconda serata della kermesse? L’Arena si colora di azzurro con un quartetto tutto al maschile: Emit, THEMORBELLI, Malvax e Yosh Whale sono ufficialmente i quattro protagonisti della finalissima della XXXIII edizione di Musicultura 2022.

Intervista: Riconoscersi nella metamorfosi. Ditonellapiaga ospite a Musicultura 2022

Dalla recitazione alla musica, dalle lunghe tavolate di donne dei suoi ricordi d’infanzia alla copertina di Camouflage, dal palco dell’Ariston a quello dello Sferisterio. Margherita Carducci, in arte Ditonellapiaga, presta la sua voce in maniera fluida e versatile a diversi generi musicali e forme d’arte: pop, soul, r&b, jazz, monologhi teatrali e/o canzoni. Lo esprime bene il suo ultimo album, un ritratto della poliedricità di quest’artista che, come il camaleonte, ama sperimentare, assumere diverse sembianze e adattarsi, colorarsi di tante sfumature musicali quante sono le sue sfaccettature pur mantenendo sempre intatta e riconoscibile la sua identità. Questo il fil rouge che tiene insieme il suo passato da attrice, il suo presente da cantante e un futuro in cui, chissà, questi due lati di lei potrebbero sovrapporsi.
Prima di un’esibizione magnetica, o forse chimica, sotto i riflettori dello Sferisterio, svela in quest’intervista a tu per tu con la redazione di “Sciuscià” gli ingredienti della sua personale soluzione: una miscela composita di autenticità, ricettività e ironia.

Per i bambini esplorare la ferita è un’esperienza sensoriale di conoscenza, sebbene possa comportare anche l’imprevedibile incontro con il dolore. È questo il significato del tuo nome d’arte?

È un’interpretazione bellissima, complimenti. Il senso del mio nome d’arte è la provocazione, l’insistere e punzecchiare, ma sempre in maniera simpatica e bonaria. Però questa interpretazione è molto bella, perché si rifà a un altro aspetto della mia musica meno simpatico e sbruffone e più riflessivo e intimo.

Camouflage (2022) è il titolo del tuo album d’esordio, che oltre a simboleggiare l’eclettismo del camaleonte, è una tecnica di trucco volta a nascondere gli inestetismi. Che rapporto hai con il trucco e con la tua immagine?

La tecnica del camouflage consiste nel nascondersi; nell’accezione del disco, però, non si tratta di nascondersi ma di adattarsi. A me piace molto sperimentare con il trucco. Per tanto tempo, soprattutto al liceo, non ho accettato il mio viso struccato: ero abituata a indossare tanto trucco perché mi divertiva, però a un certo punto questa cosa mi è sfuggita di mano e non riuscivo più a vedermi struccata. Adesso il rapporto con la mia immagine è cambiato: sono molto a mio agio con la me senza trucco, però al tempo stesso trovo che anche questa sia una forma d’arte e mi diverto molto a sperimentare e giocarci.

Il duo con Donatella Rettore sul palco dell’Ariston e la copertina dell’album appena citato, che ti vede circondata da donne meno giovani di te, mostrano una forte impronta femminile intergenerazionale. Che messaggio volevi lanciare con questa scelta?

Non era voluto, ma effettivamente forse è stata una scelta inconscia e spontanea. Io ho dei grandi riferimenti femminili nella mia famiglia, soprattutto da parte di madre sono quasi tutte donne. Mia madre, mia nonna, le amiche di mia nonna: sono tutte donne che vedo fin da quando ero bambina e a cui si legano i miei più bei ricordi d’infanzia. Ho quest’immagine nella mente di loro che stavano a casa e giocavano a carte tutte insieme. Sono da sempre abituata a vedere scene di donne numerose, solidali e unite tra loro. Inevitabilmente anche il mio disco ha una componente femminile così segnata e quindi forse l’ho voluta inconsciamente evocare anche nella copertina.

Sei laureata in teatro al DAMS. Quanto ha inciso la recitazione sulla tua musica? Hai mai pensato, in futuro, di fondere queste due passioni in un’unica forma d’arte?

Il teatro ha inciso molto sulla mia musica, perché prima di finire l’accademia scrivevo male; poi la mia scrittura è maturata con e grazie alla recitazione, risentendo della sua influenza. Molti miei pezzi sono un po’ teatrali, a volte quasi dei monologhi. La recitazione ha inciso molto soprattutto sull’interpretazione e sull’immaginazione, perché fare teatro apre tantissimo l’immaginazione. In futuro mi piacerebbe lavorare di più sui videoclip a livello recitativo, anche se è un esercizio difficile che richiede molto impegno e i videoclip, invece, vanno realizzati in poco tempo. Però, sarebbe bello intraprendere un progetto di questo tipo in futuro.

Osservando il tuo rapporto con i social, mi sembra che per te siano importanti il contatto e l’interscambio di energie tra artista e pubblico. Cosa ti piacerebbe ricevere dal pubblico dello Sferisterio e cosa, invece, vorresti lasciargli?

Mi piacerebbe ricevere “du’ applausetti”! Di base secondo me si tratta sempre di uno scambio di energie: io devo dare energia al pubblico e se il pubblico la percepisce – anche se dipende da che tipo di pubblico sia: ci sono dei pubblici ricettivi e dei pubblici un po’ più rigidi – la assorbe e poi te la restituisce. Di solito più sei energico tu e più la gente percepisce questa cosa e te la ridà indietro. Quindi spero che anche qui allo Sferisterio ci sia uno scambio di good vibes, di energie positive!

Mi sembra che nella vita, oltre che nella musica, stemperi anche le emozioni più profonde con leggerezza e divertimento. Che valore ha per te l’ironia?

L’ironia per me è un po’ uno stile di vita. Per tanto tempo ho avuto un po’ paura delle mie emozioni, quindi, reagivo sminuendole, ridendoci su o non parlandone. Però credo che anche le tragedie, a loro modo, siano comiche. Secondo me, osservandole con distacco e non nel momento in cui si sta soffrendo, ci si rende conto che si può ridere anche delle cose tristi, che non significa sminuirle ma guardarle da un’altra prospettiva. Naturalmente esistono anche delle cose molto serie sulle quali è meglio non scherzare e che bisogna invece affrontare con altrettanta serietà. In generale, l’ironia è un modo un po’ più leggero di vivere la vita, di scherzarci su e reagire positivamente al negativo. Io me la vivo meglio così!

Intervista: Il giro del mondo in musica con i Violons Barbares, ospiti a Musicultura 2022

Che cosa hanno in comune un violinista bulgaro, un cantante mongolo e un percussionista francese? È quello che abbiamo cercato di scoprire in quest’intervista ai Violons Barbares (Dimitar Gougov, Dandarvaanchig Enkhjargal e Fabien Guyot), trio internazionale che porta in giro per l’Europa i “ritmi galoppanti” prodotti dai loro strumenti tradizionali: la gadulka bulgara che assomiglia a una ghironda medievale e il morin khuur, una sorta di viola bicorde che affonda le sue radici nelle società nomadi delle steppe asiatiche. A questi si aggiungono percussioni di ogni tipo – tamburi arabi e mediterranei, scodelle, scatole, bottiglie, gong e bonghi – e le tecniche del canto gutturale. Ma nei loro tre album – Violons Barbares (2010), Saulem Ai (2014) e Wolf’s Cry (2018) – non si trova solo musica tradizionale o popolare: al contrario, emergono il rock, il jazz e perfino il metal, il tutto accompagnato da un ritmo davvero travolgente.

Tre nazionalità, tre culture, tre esperienze musicali diverse. Com’è nato il gruppo? Soprattutto, come avete fatto a trovare il vostro comune denominatore?

Io (Dimitar Gougov, gadulka ndr) abito a Strasburgo dal 2000. Anche il percussionista Fabien abitava a lì, quindi ci conoscevamo già. Qualche anno dopo sono stato invitato in Germania per partecipare a un festival che riuniva tante nazionalità diverse: i colleghi venivano dalla Cina, dalla Mongolia, dall’India, dall’Afghanistan, dall’Iran e dalla Turchia oltre che da tutta Europa. Il progetto si chiamava La via della seta e con questi musicisti abbiamo fatto cinque, sei concerti durante l’estate. In quel gruppo – che in realtà non era un vero gruppo, ma si era unito solo per il progetto – ho incontrato Epi (Dandarvaanchig Enkhjargal, morin khuur ndr). Grazie a lui ho conosciuto per la prima volta la tecnica del canto grave armonico, di cui non avevo mai sentito parlare, e del canto acuto khöömii. In più ascoltando il suo morin khuur, ho notato che suonava nella mia stessa tonalità. Le corde ricordavano molto quelle del mio strumento, però erano più gravi. Così mi sono detto: «Si possono combinare molto bene insieme. Possiamo creare un gruppo».

La musica spesso viene etichettata: gli artisti sono accostati a un genere preciso e il pubblico pensa già a cosa doversi aspettare dalle loro creazioni musicali. Il vostro tratto distintivo, invece, è la contaminazione. Quanto lavoro è dedicato alla ricerca e quanto all’improvvisazione per ottenere questo effetto?

Ognuno di noi ha appreso la musica tradizionale nel proprio paese. Di conseguenza, in Francia e in Germania, io ed Epi siamo automaticamente classificati nella “world music”. Ma è solo il punto di partenza, perché alla fine ci ritroviamo a festival di musica tradizionale o anche di impronta più attuale, ai festival di musica classica, jazz, rock e metal. Ti rendi conto che puoi suonare dolcemente, ma anche trasmettere molta energia ed è questo alla base della nostra voglia di fare. Certo, partiamo dai nostri strumenti tradizionali, ma quando ci riuniamo cerchiamo di creare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, di andare al di là di ciò che abbiamo già imparato. Non è una vera e propria fusione: facciamo un’altra musica. Io suono la gadulka e ora anche il morin khuur. Adesso cantiamo tutti alla maniera mongola. Ognuno di noi, inoltre, ascolta musica molto diversa e questo aiuta enormemente per il futuro, per avere delle idee e dei pezzi che escono dalla tradizione e da un genere preciso.

In che senso i vostri strumenti sono “barbari”?

Ho chiamato questo gruppo Violons Barbares perché è qualcosa di impossibile. Un violino non è barbaro; un violino è il contrario di barbaro. Lo sapete, è fatto in Italia, a Cremona. Volevo che il nome saltasse all’occhio. Quelli che suoniamo, in realtà, non sono violini, ma i loro antenati. L’aggettivo “barbari”, allora, rimanda al fatto che sono strumenti di altri popoli, anticamente chiamati “barbari”.

Spesso nei vostri brani prevale la musica rispetto al testo. Anche l’utilizzo della voce per creare effetti polifonici suggerisce una propensione ai suoni piuttosto che alle parole. Nei vostri pezzi è più importante il significato o il significante?

Fino a ora, per i primi tre album, non ci siamo preoccupati tanto dei testi: molti venivano dalla tradizione, altri li abbiamo scritti noi. È vero, negli scorsi anni ci siamo soffermati maggiormente sulle sonorità e su tecniche di canto particolarmente espressive, che ci permettevano di evocare determinate sensazioni e di rendere la performance più suggestiva. Attualmente stiamo preparando qualcosa di diverso: sono delle canzoni a tema e tutti i testi ricoprono un ruolo davvero importante. Li abbiamo scritti in bulgaro, mongolo tedesco e inglese; per la prima volta anche in francese. Perché 5 lingue? Volevamo farci capire un po’ di più.

La natura è un tema ricorrente della vostra produzione. La canzone Wolf’s Cry si interroga sull’ambiente e sull’eredità da lasciare alle prossime generazioni; Fabien fa anche parte del progetto Furieuz Casrols, che utilizza percussioni riciclate; il canto gutturale trae origine da un profondo contatto con la natura; nel 2018 vi siete perfino esibiti all’interno delle grotte di Lascaux. In qualche modo la vostra musica aspira a una dimensione primitiva e primordiale?

Il nostro collega mongolo Epi è molto colpito da ciò che sta accadendo nel suo paese. Fino a poco tempo fa lì la gente viveva in armonia con la natura, era nomade e si spostava secondo i ritmi dell’ambiente circostante. Invece negli ultimi anni le persone hanno iniziato a sfruttare indiscriminatamente le risorse della terra: Epi vede ciò e prova una grande tristezza, così ha voluto inserire questo tema nelle canzoni. Aspirare a una dimensione primordiale? È da vedere, perché comunque anche i temi dei brani cambiano e non posso dire che siamo un gruppo impegnato sulle questioni dell’ecologia. Anche noi ce ne siamo occupati, certo, ma credo ci siano altri che lo fanno molto meglio di noi.

RACCONTO: il giovedì targato La Controra 2022

La Controra di Musicultura continua e il primo ospite della giornata di ieri è Ennio Cavalli. Nel cortile del Palazzo Comunale lo scrittore, poeta e giornalista presenta le sue ultime fatiche letterarie: la raccolta di poesia Amore Manifesto e il romanzo Parabola di un filo d’erba. In quest’ultimo, centrale è il tema della vecchiaia, che secondo l’autore “altro non è che l’insieme degli anelli della giovinezza”.

Spazio poi al secondo ospite, il regista e autore televisivo Duccio Forzano. È possibile imparare a incassare i colpi più duri e non smettere di credere, nonostante ciò, nell’occasione della propria vita? La risposta, positiva, è contenuta proprio nel romanzo di Forzano, Come Rocky Balboa. “Nel mio caso – si legge nella quarta di copertina – le delusioni e la sofferenza mi hanno messo a dura prova fin da piccolo, ma in qualche modo sono riuscito a trasformare tutto quel dolore e tutti quegli ostacoli nell’energia positiva che mi serviva per andare avanti e per raggiungere obiettivi che chiunque avrebbe considerato irraggiungibili”.  È la storia della sua vita, insomma, quella che il regista racconta tra le pagine e al pubblico di Musicultura in compagnia del conduttore radiofonico John Vignola; è una storia portatrice di un messaggio di rivincita che vale esclusivamente a una condizione: “è possibile concretizzare i propri sogni solo se ci si crede davvero.”

Per la serata protagonista torna a essere la musica con il concerto dei Violons Barbares. Con l’esibizione del gruppo Macerata si trasforma nella Ulan Bator del XVIII secolo; o magari nella Parigi dell’epoca degli Impressionisti; o forse nella Bulgaria di fine Ottocento. Insomma, grazie alla performance della band il tempo e lo spazio si annullano. E per un attimo tutto è “qui e ora”, “hic et nunc”, grazie alla gadulka, i violini, le percussioni, il canto armonico.

Ma non è tutto qui. Perché nel frattempo, nel cortile di Palazzo Buonaccorsi, uno dei più grandi discografici della musica italiana viene omaggiato con la proiezione di un docufilm di Roberto Manfredi, Nanni Ricordi, l’uomo che inventò i dischi. E che produsse i lavori, solo per citarne alcuni, di artisti del calibro di Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Sergio Endrigo e Ornella Vanoni, scrivendo la storia del cantautorato nostrano.

RACCONTO: il mercoledì maceratese de La Controra

Dopo due giornate trascorse all’insegna di fortissime emozioni, entusiasmo e partecipazione da parte del pubblico accorso da ogni angolo della regione Marche per assistere agli eventi proposti, la terza giornata de La Controra non delude le aspettative.

Il primo capitolo della giornata si apre con “Scrivere per ricostruire. Voci e storie del dopo terremoto”, progetto ideato e promosso dall’Istituto Storico di Macerata e la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Il progetto nasce con l’intento di ri-costruire le memorie delle comunità delle aree interne della provincia maceratese in seguito ai terremoti che hanno colpito l’Appennino dove, tra ritardi e polemiche, la ricostruzione ha tardato a iniziare. Presso la Sala Castiglioni della Biblioteca Comunale di Macerata sono presentate storie di vite attraversate dalla fragilità, dal coraggio e dalla speranza. Sono storie di donne, uomini, bambini, anziani. Molti sono i temi che vengono trattati tra cui il passato, la riorganizzazione della propria vita e la voglia di ricostruire con la convinzione che è proprio la forza del racconto e della scrittura ad aiutare a risanare le ferite e a rimettere insieme quanto dentro e fuori di sé sta andando in pezzi.

La giornata prosegue presso il Cortile di Palazzo Buonaccorsi, dove bambini, genitori e lettori curiosi accolgono l’editrice e autrice Elisabetta Dami, teneramente conosciuta come la “mamma” di Geronimo Stilton. Dami, insignita da poco del titolo di Commendatore della Repubblica Italiana, ripercorre la storia della sua vita attraverso una serie di aneddoti e racconti inediti e racconta al pubblico presente come da una esperienza personale, l’adozione presso la tribù di nativi americani Cherokee, l’autrice abbia tratto lo spunto per il suo ultimo romanzo. Così parlò Lupo Blu è un viaggio avventuroso nella natura selvaggia alla scoperta del vero senso della vita e dei valori fondamentali quali la cooperazione, la tolleranza e il rispetto per noi stessi, per gli altri e per la Natura. Un romanzo che parla a tutti, grandi e piccini, e ci ricorda la bellezza della diversità e il potere straordinario delle storie come queste, toccanti, dolci. Lupo Blu ci insegna che noi, attraverso le scelte che compiamo ogni giorno, siamo i responsabili e gli artefici del nostro destino e che il futuro è nelle mani di chi ha la forza e il coraggio di continuare a sognare e a ricercare la felicità.

Le vie di Macerata si riempiono poi di gioia e colori grazie all’ Hoopelaï Hula Hoop Show di Andreanne Thiboutot, artista canadese che nella sua importante carriera vanta meravigliose collaborazioni con il prestigioso Cirque du Soleil. In Hoopelaï, Thiboutot, veste i panni di Madame Jocelyn, una donna elegante e sofisticata, che si stordisce a far girare i suoi hula hoop.  Grande è il coinvolgimento del pubblico, giovane e meno giovane che con grande stupore e meraviglia si lascia affascinare ed emozionare da tanta bellezza e tanta arte.

La sera si accendono i riflettori su Piazza della Libertà Il sindaco di Macerata, Sandro Parcaroli e la direttrice commerciale di Banca Macerata, Debora Falcetta, sottolineano l’importanza di un festival come Musicultura per la comunità maceratese. Spazio poi a John Vignola per l’inizio della serata musicale in compagnia degli otto vincitori di Musicultura 2022.

La prima a esibirsi è Isotta, artista senese che porta sul palco le sue Palla avvelenata e Psicofarmaci, a detta della cantautrice una metafora di tutti quei “castelli di sabbia che la nostra mente crea per cercare di stare meglio con se stessi e nel rapporto con gli altri”. Spazio poi all’anima dolce ed elettronica di Martina Vinci, cantautrice e musicista genovese che ha incantato la platea con Il cielo di Londra e Parole di troppo, canzone che parla dei mille modi possibili di vivere l’amore, invita ad accettarsi e ad accettare gli altri e a fare delle proprie insicurezze dei punti di forza. La serata continua poi con THEMORBELLI, autore e interprete de Il giardino dei Finzi-Contini e THERINASCIMENTO, una canzone d’amore non convenzionale che lascia trasparire una rabbia velata la quale sottende una gioia e un amore infinito per la vita. Il quarto ad esibirsi è Emit. Il cantautore sottolinea l’importanza che le parole hanno all’interno della sua produzione artistica e suggerisce delle bellissime immagini con i suoi due brani Vino e Mare.

Altra presenza femminile è quella di Cassandra Raffaele. La musica rappresenta per lei un rifugio, una luce, un fuoco che le brucia l’anima e che la porta a intonare le note de La mia anarchia ama te e Sarà successo. Seguono gli Yosh Whale, che con le loro Inutile e Stanca portano sul palco la loro musica frutto di un ricercato lavoro di sperimentazione e contaminazione. È il turno poi di Valeria Sturba, artista polistrumentista che grida forte il suo Antiamore e racconta i mille mondi interiori che convivono in ognuno di noi con Le cose strane. Ultimi a esibirsi sono i Malvax che, con una straordinaria capacità di coinvolgere il pubblico presente, eseguono le loro canzoni Esci col cane e Sneakers.

Intervista: con Elisabetta Dami, l’arte della curiosità a La Controra 2022

Chi, come noi della redazione di “Sciuscià”, ha la possibilità di incontrare di persona Elisabetta Dami, capisce subito che di fronte non ha solo l’autrice di Geronimo Stilton. Classe 1958, da sempre dedica la sua vita alla scrittura e ai viaggi. Tra un libro e l’altro ha corso tre volte la maratona di New York e una volta la durissima 100 km del Sahara; ha preso il brevetto da pilota d’aereo e fatto paracadutismo. Per il suo ruolo di storyteller è stata adottata ufficialmente da due tribù di nativi americani: il Popolo degli Hopi e quello dei Cherokee. Avventura, rispetto e curiosità sono i suoi principi guida nel lavoro e nella vita. Anche se la sua missione principale consiste nell’educazione di bambini e ragazzi, una cosa è certa: Elisabetta Dami è un esempio per tutti, grandi e piccini.

Nella tua biografia dici che in ogni libro c’è un po’ di te, soprattutto la tua passione per l’avventura. Come riesci a prendere le distanze dal tuo vissuto personale e a trasformarlo in una storia?

In realtà tutte le esperienze che faccio, da sempre, mi sono servite. Sono la materia prima da cui parto per elaborare le emozioni che ho provato e trasmetterle ai lettori che magari non hanno ancora l’età, o le capacità di organizzarsi – magari le avranno in futuro – per scalare il Kilimangiaro, completare una maratona di centoventi chilometri nel deserto del Sahara o un trekking in Nepal. Sono tutte cose che mi hanno insegnato moltissimo su me stessa e di cui sono grata alla vita. Quindi parto dall’emozione che ho provato in queste avventure e cerco di trasmetterle a chi legge, in modo che il libro sia come una finestra sul mondo, capace di immedesimare il lettore nella realtà vera di quello che ho sentito io. Per esempio, una volta mi chiesero – più di vent’anni fa – di scrivere un libro di Geronimo sulle cascate del Niagara e c’era pochissimo tempo perché il lavoro era urgente. Dissi che ci dovevo andare, e tutti a ripetermi che ero la solita esagerata, che avrei potuto solo studiare un po’. Volevo – e voglio ancora – l’emozione. Quando arrivai là capii che avevo ragione. La cosa curiosa che scoprii alle cascate è che tu senti un rumore fortissimo prima ancora di vederle. E proprio questo ti dà l’emozione: comprendere che quella è una cosa assolutamente fuori dal normale. Lo stesso mi accadde quando per la prima volta mi trovai vicino a degli elefanti nella riserva naturale di Dzanga-Sangha in Centrafrica: prima di vederli, senti il terreno che trema e senti l’odore, questo odore di selvatico che non è sgradevole e sa di foglie bagnate, di fango, di terra, di piante, di esotico, di Africa. E la guida ti dice: “Arrivano!”.

I valori e gli ideali che cerchi di trasmettere nei tuoi libri sono approdati in tutto il mondo: Geronimo Stilton è stato tradotto in ben 49 lingue, dall’inglese al cinese, fino  all’arabo. Come si arriva al cuore dei bambini quando hanno una cultura di base tanto diversa dalla nostra?

I bambini in tutto il mondo, almeno fino ai dieci anni, sono molto simili perché sono istintivi e danno una grande importanza al cuore. Vedo che rispondono alle stesse leve psicologiche ed emotive, proprio per questa loro capacità così autentica di essere sinceri. I valori di Geronimo sono onestà, lealtà, sincerità, amicizia, soprattutto rispetto. Rispetto per la natura significa ecologia, rispetto per gli altri significa valorizzazione delle diversità, inclusione e pace. Rispetto per se stessi significa non fare mai nulla che possa farti del male, per esempio non avvicinarsi alle droghe o all’alcol. Ci sono anche il rispetto per la famiglia, per la scuola, per le istituzioni, per la legalità. Tutti questi valori aiutano i bambini a inserirsi in modo pacifico e civile nella società, ma il punto più importante è la speranza. Geronimo è nato proprio così, in un ospedale, per dare speranza ai ragazzi. Poi le sue storie sono anche avventure, colpi di scena in ogni pagina e umorismo, che è fondamentale.

Il tuo ultimo libro, Così parlò Lupo Blu, si discosta in parte dalla produzione precedente, soprattutto per quanto riguarda i possibili destinatari del testo: non solo piccoli uomini e donne, ma anche ragazzi e adulti. Come è emersa l’esigenza di parlare a una platea più ampia?

Per oltre vent’anni ho parlato con la voce di un topo, poi ho pensato di fare un libro per i più piccoli: sono nati Billo e Billa nella Valle della Felicità. In ogni libro spiego un valore e cerco di aiutare i genitori ad affrontare certi temi difficili. Il lupo, invece, è un animale che parla al cuore di tutti noi e desideravo scrivere un’avventura senza tempo, alla scoperta del senso della vita. Attraverso la voce di questo personaggio speciale volevo raccontare la mia esperienza. Vedo che i giovani hanno bisogno di sentirsi confortare da qualcuno che dica loro: “Io ti racconto ciò che ho imparato, secondo me ti sarà utile”.

Suoni il pianoforte e da anni sei ambasciatore dello Zecchino d’Oro e dell’Antoniano Onlus. La tua presenza a Musicultura evidenzia l’aspirazione di questo Festival a essere un’officina dell’arte in tutte le sue forme, una scuola per chiunque abbia voglia di imparare. A te cosa ha insegnato la musica?

La musica è forse l’unico linguaggio universale perché – di nuovo – parla al cuore di tutti. Quando ci si riunisce in nome della musica non si può sbagliare e a quel punto si può parlare anche di cultura, di libri. Qui al Festival ho trovato un clima di amicizia che mi piace tantissimo. Infatti ho chiesto a Ezio (Nannipieri, il direttore artistico di Musicultura, ndr) di invitarmi anche l’anno prossimo. Magari troverò qualcos’altro di intelligente da dire!

Dopo quarant’anni di carriera come si conserva e protegge quella curiosità di bambina che, come dici, ispira ancora il tuo lavoro?

Guarda, li ho contati l’altro giorno: sono 45. Io ho 63 anni e sono orgogliosa di dirlo perché nel cuore me ne sento meno e, quando scrivo, ritorno ai miei 7 anni. Però sono anche contenta di essere “maturata”, come direbbe Geronimo per il formaggio. L’età mi ha insegnato un sacco di cose. Sono migliorata con gli anni: per esempio, ho imparato la pazienza – una virtù che da giovane non avevo – e ho capito l’importanza della gentilezza. Sono felice che la mia esperienza possa passare a qualcuno.

Hai già fatto il giro del mondo e visitato alcuni dei luoghi più singolari del pianeta. Dove ti porterà il prossimo viaggio?

Tocchi un punto sensibilissimo. Iniziai a lavorare a 18 anni con mio papà e a 25 gli dissi: “Senti, qui ho capito che per far le cose come dico io devo lavorare tanto, sarà impegnativo e mi ci voglio buttare bene. Adesso mi prendo sei mesi sabbatici e vado a fare il giro del mondo”. Partii con i soldi che avevo guadagnato e messo da parte religiosamente, in classe economica e da sola perché volevo fare esperienza. Ho visto di tutto, ma non è stato facile. A metà ci ho messo anche un corso di sopravvivenza nel Maine. Però è stato favoloso e da qualche tempo a questa parte mi sono detta: ho lasciato passare quarant’anni, adesso lo devo rifare!

Intervista: Roberto Piumini ospite a La Controra 2022

Roberto Piumini ha sempre giocato con i suoni, le parole, i racconti. È stato, all’inizio della sua carriera, insegnante di lettere e attore teatrale. La scrittura è arrivata quasi naturalmente, nel 1978: da allora ha pubblicato moltissimi libri di fiabe, filastrocche e testi teatrali, diventando uno dei nomi più importanti della letteratura per l’infanzia. E non solo: perché dagli anni ’90 ha anche scritto romanzi, racconti e poemi per i più grandi.

Ieri ha messo un po’ di quelle storie in valigia e le ha portate a Macerata, per la Controra di Musicultura. Nella Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti, assieme a Nadio Marenco che lo ha accompagnato con la sua fisarmonica, ha letto ad alta voce le avventure de “Il Piegatore di lenzuoli”. Noi della redazione di Sciuscià l’abbiamo intervistato, per conoscere meglio il suo percorso artistico, le sue idee sul mestiere di scrivere, le sue ispirazioni. Ecco cosa ci ha raccontato:

Partiamo così, a bruciapelo: come nasce una filastrocca?

La filastrocca nasce dal gioco: il gioco delle parole e del senso, e il gioco dei suoni. È qualcosa che origina nella parte ludica e fonosimbolica della nostra mente, dalla voglia di creare e poi di condividere con gli altri. “Altri” che in questo caso sono i bambini. In un primo momento la filastrocca appartiene solo a chi la scrive, ma fa presto a diventare divertimento, coralità, danza e movimento, voglia di partecipare insieme. È un materiale verbale dinamico.

Ha tradotto poemi di Browning, i Sonetti e il Macbeth di Shakespeare. Come si integra il suo lavoro di traduttore con quello di scrittore per l’infanzia?

Il mio lavoro di traduttore è una sorta di “prolungamento ludico” della mia attività di poeta. Ma senza la responsabilità di narrare e di inventare. Con la traduzione ho la possibilità di far dilatare al massimo l’intervento del mio linguaggio e della mia capacità di costruire e di creare. Di mestiere non faccio il traduttore, però quando traduco mi informo sul campo semantico usato dall’autore, faccio una sorta di “perizia investigativa” sulla metrica, studio la lingua, le metafore. Però non mi dimentico mai di essere anche un poeta, quindi cerco di creare delle versioni che siano comunque fedeli, ma più godibili e con più canto.

Ha lavorato al fianco di diversi musicisti per la realizzazione di libri su autori, strumenti e stili musicali. Com’è nata l’idea di queste collaborazioni?

Diversi decenni fa Bruno Lauzi, cantautore della gloriosa epoca del cantautorato italiano, mi fece iscrivere alla SIAE. Aveva visto e apprezzato alcuni dei miei testi, e voleva a tutti i costi che io diventassi autore musicale per potermi coinvolgere in un progetto. La cosa alla fine non avvenne, il progetto non fu mai realizzato, ma io rimasi comunque formalmente un autore. Quando cominciai a girare per le scuole e per le biblioteche per fare spettacoli sui miei testi accompagnato da musicisti scoprii che non avevo nessuna difficoltà a scrivere canzoni. È un’attività che mi diverte tantissimo, proprio come mi diverte fare traduzioni. Credo che in entrambi i casi, infatti, ci sia una parte poetica preesistente; quindi posso rivolgermi con più attenzione al mio campo specifico: quello delle parole. Le considero entrambe attività “defaticanti”. Il che può sembrare strano, perché una traduzione come quella del “Paradiso Perduto” mi ha occupato circa un anno e mezzo. Ma è un gioco: un gioco che si fa con qualcosa detto già da altri o che sta per essere detto da altri, e io cerco di giocare nel miglior modo possibile.

Che valore attribuisce alla poesia quando afferma che “partecipa al colloquio del mondo, anche quando è un canto solitario”?

Attribuisco alla poesia un valore antropologico. È senz’altro l’atto espressivo più profondo e più legato alla memoria, al desiderio, all’esperienza, all’identità. È quello che più di ogni altra cosa richiama una risposta nell’altro.

Da oltre trent’anni Musicultura accoglie moltissimi giovani cantautori. Parliamo di musica d’autore in cui ognuno esprime una parte di sé, del proprio animo. Quali sono le sue impressioni a proposito?

Posso parlare dei miei gusti personali, perché non sono un ascoltatore per così dire “qualificato”. Mi piacciono i cantautori che non scrivono con un eccesso di letteratura, ma che lavorano sull’espressività. Preferisco i cantautori che non vogliono essere troppo letterati, insomma. Quelli che trovano il giusto equilibrio, senza esagerare nel profetarsi poeti.