Intervista: Il giro del mondo in musica con i Violons Barbares, ospiti a Musicultura 2022

Che cosa hanno in comune un violinista bulgaro, un cantante mongolo e un percussionista francese? È quello che abbiamo cercato di scoprire in quest’intervista ai Violons Barbares (Dimitar Gougov, Dandarvaanchig Enkhjargal e Fabien Guyot), trio internazionale che porta in giro per l’Europa i “ritmi galoppanti” prodotti dai loro strumenti tradizionali: la gadulka bulgara che assomiglia a una ghironda medievale e il morin khuur, una sorta di viola bicorde che affonda le sue radici nelle società nomadi delle steppe asiatiche. A questi si aggiungono percussioni di ogni tipo – tamburi arabi e mediterranei, scodelle, scatole, bottiglie, gong e bonghi – e le tecniche del canto gutturale. Ma nei loro tre album – Violons Barbares (2010), Saulem Ai (2014) e Wolf’s Cry (2018) – non si trova solo musica tradizionale o popolare: al contrario, emergono il rock, il jazz e perfino il metal, il tutto accompagnato da un ritmo davvero travolgente.

Tre nazionalità, tre culture, tre esperienze musicali diverse. Com’è nato il gruppo? Soprattutto, come avete fatto a trovare il vostro comune denominatore?

Io (Dimitar Gougov, gadulka ndr) abito a Strasburgo dal 2000. Anche il percussionista Fabien abitava a lì, quindi ci conoscevamo già. Qualche anno dopo sono stato invitato in Germania per partecipare a un festival che riuniva tante nazionalità diverse: i colleghi venivano dalla Cina, dalla Mongolia, dall’India, dall’Afghanistan, dall’Iran e dalla Turchia oltre che da tutta Europa. Il progetto si chiamava La via della seta e con questi musicisti abbiamo fatto cinque, sei concerti durante l’estate. In quel gruppo – che in realtà non era un vero gruppo, ma si era unito solo per il progetto – ho incontrato Epi (Dandarvaanchig Enkhjargal, morin khuur ndr). Grazie a lui ho conosciuto per la prima volta la tecnica del canto grave armonico, di cui non avevo mai sentito parlare, e del canto acuto khöömii. In più ascoltando il suo morin khuur, ho notato che suonava nella mia stessa tonalità. Le corde ricordavano molto quelle del mio strumento, però erano più gravi. Così mi sono detto: «Si possono combinare molto bene insieme. Possiamo creare un gruppo».

La musica spesso viene etichettata: gli artisti sono accostati a un genere preciso e il pubblico pensa già a cosa doversi aspettare dalle loro creazioni musicali. Il vostro tratto distintivo, invece, è la contaminazione. Quanto lavoro è dedicato alla ricerca e quanto all’improvvisazione per ottenere questo effetto?

Ognuno di noi ha appreso la musica tradizionale nel proprio paese. Di conseguenza, in Francia e in Germania, io ed Epi siamo automaticamente classificati nella “world music”. Ma è solo il punto di partenza, perché alla fine ci ritroviamo a festival di musica tradizionale o anche di impronta più attuale, ai festival di musica classica, jazz, rock e metal. Ti rendi conto che puoi suonare dolcemente, ma anche trasmettere molta energia ed è questo alla base della nostra voglia di fare. Certo, partiamo dai nostri strumenti tradizionali, ma quando ci riuniamo cerchiamo di creare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, di andare al di là di ciò che abbiamo già imparato. Non è una vera e propria fusione: facciamo un’altra musica. Io suono la gadulka e ora anche il morin khuur. Adesso cantiamo tutti alla maniera mongola. Ognuno di noi, inoltre, ascolta musica molto diversa e questo aiuta enormemente per il futuro, per avere delle idee e dei pezzi che escono dalla tradizione e da un genere preciso.

In che senso i vostri strumenti sono “barbari”?

Ho chiamato questo gruppo Violons Barbares perché è qualcosa di impossibile. Un violino non è barbaro; un violino è il contrario di barbaro. Lo sapete, è fatto in Italia, a Cremona. Volevo che il nome saltasse all’occhio. Quelli che suoniamo, in realtà, non sono violini, ma i loro antenati. L’aggettivo “barbari”, allora, rimanda al fatto che sono strumenti di altri popoli, anticamente chiamati “barbari”.

Spesso nei vostri brani prevale la musica rispetto al testo. Anche l’utilizzo della voce per creare effetti polifonici suggerisce una propensione ai suoni piuttosto che alle parole. Nei vostri pezzi è più importante il significato o il significante?

Fino a ora, per i primi tre album, non ci siamo preoccupati tanto dei testi: molti venivano dalla tradizione, altri li abbiamo scritti noi. È vero, negli scorsi anni ci siamo soffermati maggiormente sulle sonorità e su tecniche di canto particolarmente espressive, che ci permettevano di evocare determinate sensazioni e di rendere la performance più suggestiva. Attualmente stiamo preparando qualcosa di diverso: sono delle canzoni a tema e tutti i testi ricoprono un ruolo davvero importante. Li abbiamo scritti in bulgaro, mongolo tedesco e inglese; per la prima volta anche in francese. Perché 5 lingue? Volevamo farci capire un po’ di più.

La natura è un tema ricorrente della vostra produzione. La canzone Wolf’s Cry si interroga sull’ambiente e sull’eredità da lasciare alle prossime generazioni; Fabien fa anche parte del progetto Furieuz Casrols, che utilizza percussioni riciclate; il canto gutturale trae origine da un profondo contatto con la natura; nel 2018 vi siete perfino esibiti all’interno delle grotte di Lascaux. In qualche modo la vostra musica aspira a una dimensione primitiva e primordiale?

Il nostro collega mongolo Epi è molto colpito da ciò che sta accadendo nel suo paese. Fino a poco tempo fa lì la gente viveva in armonia con la natura, era nomade e si spostava secondo i ritmi dell’ambiente circostante. Invece negli ultimi anni le persone hanno iniziato a sfruttare indiscriminatamente le risorse della terra: Epi vede ciò e prova una grande tristezza, così ha voluto inserire questo tema nelle canzoni. Aspirare a una dimensione primordiale? È da vedere, perché comunque anche i temi dei brani cambiano e non posso dire che siamo un gruppo impegnato sulle questioni dell’ecologia. Anche noi ce ne siamo occupati, certo, ma credo ci siano altri che lo fanno molto meglio di noi.

RACCONTO: il giovedì targato La Controra 2022

La Controra di Musicultura continua e il primo ospite della giornata di ieri è Ennio Cavalli. Nel cortile del Palazzo Comunale lo scrittore, poeta e giornalista presenta le sue ultime fatiche letterarie: la raccolta di poesia Amore Manifesto e il romanzo Parabola di un filo d’erba. In quest’ultimo, centrale è il tema della vecchiaia, che secondo l’autore “altro non è che l’insieme degli anelli della giovinezza”.

Spazio poi al secondo ospite, il regista e autore televisivo Duccio Forzano. È possibile imparare a incassare i colpi più duri e non smettere di credere, nonostante ciò, nell’occasione della propria vita? La risposta, positiva, è contenuta proprio nel romanzo di Forzano, Come Rocky Balboa. “Nel mio caso – si legge nella quarta di copertina – le delusioni e la sofferenza mi hanno messo a dura prova fin da piccolo, ma in qualche modo sono riuscito a trasformare tutto quel dolore e tutti quegli ostacoli nell’energia positiva che mi serviva per andare avanti e per raggiungere obiettivi che chiunque avrebbe considerato irraggiungibili”.  È la storia della sua vita, insomma, quella che il regista racconta tra le pagine e al pubblico di Musicultura in compagnia del conduttore radiofonico John Vignola; è una storia portatrice di un messaggio di rivincita che vale esclusivamente a una condizione: “è possibile concretizzare i propri sogni solo se ci si crede davvero.”

Per la serata protagonista torna a essere la musica con il concerto dei Violons Barbares. Con l’esibizione del gruppo Macerata si trasforma nella Ulan Bator del XVIII secolo; o magari nella Parigi dell’epoca degli Impressionisti; o forse nella Bulgaria di fine Ottocento. Insomma, grazie alla performance della band il tempo e lo spazio si annullano. E per un attimo tutto è “qui e ora”, “hic et nunc”, grazie alla gadulka, i violini, le percussioni, il canto armonico.

Ma non è tutto qui. Perché nel frattempo, nel cortile di Palazzo Buonaccorsi, uno dei più grandi discografici della musica italiana viene omaggiato con la proiezione di un docufilm di Roberto Manfredi, Nanni Ricordi, l’uomo che inventò i dischi. E che produsse i lavori, solo per citarne alcuni, di artisti del calibro di Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Sergio Endrigo e Ornella Vanoni, scrivendo la storia del cantautorato nostrano.

RACCONTO: il mercoledì maceratese de La Controra

Dopo due giornate trascorse all’insegna di fortissime emozioni, entusiasmo e partecipazione da parte del pubblico accorso da ogni angolo della regione Marche per assistere agli eventi proposti, la terza giornata de La Controra non delude le aspettative.

Il primo capitolo della giornata si apre con “Scrivere per ricostruire. Voci e storie del dopo terremoto”, progetto ideato e promosso dall’Istituto Storico di Macerata e la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Il progetto nasce con l’intento di ri-costruire le memorie delle comunità delle aree interne della provincia maceratese in seguito ai terremoti che hanno colpito l’Appennino dove, tra ritardi e polemiche, la ricostruzione ha tardato a iniziare. Presso la Sala Castiglioni della Biblioteca Comunale di Macerata sono presentate storie di vite attraversate dalla fragilità, dal coraggio e dalla speranza. Sono storie di donne, uomini, bambini, anziani. Molti sono i temi che vengono trattati tra cui il passato, la riorganizzazione della propria vita e la voglia di ricostruire con la convinzione che è proprio la forza del racconto e della scrittura ad aiutare a risanare le ferite e a rimettere insieme quanto dentro e fuori di sé sta andando in pezzi.

La giornata prosegue presso il Cortile di Palazzo Buonaccorsi, dove bambini, genitori e lettori curiosi accolgono l’editrice e autrice Elisabetta Dami, teneramente conosciuta come la “mamma” di Geronimo Stilton. Dami, insignita da poco del titolo di Commendatore della Repubblica Italiana, ripercorre la storia della sua vita attraverso una serie di aneddoti e racconti inediti e racconta al pubblico presente come da una esperienza personale, l’adozione presso la tribù di nativi americani Cherokee, l’autrice abbia tratto lo spunto per il suo ultimo romanzo. Così parlò Lupo Blu è un viaggio avventuroso nella natura selvaggia alla scoperta del vero senso della vita e dei valori fondamentali quali la cooperazione, la tolleranza e il rispetto per noi stessi, per gli altri e per la Natura. Un romanzo che parla a tutti, grandi e piccini, e ci ricorda la bellezza della diversità e il potere straordinario delle storie come queste, toccanti, dolci. Lupo Blu ci insegna che noi, attraverso le scelte che compiamo ogni giorno, siamo i responsabili e gli artefici del nostro destino e che il futuro è nelle mani di chi ha la forza e il coraggio di continuare a sognare e a ricercare la felicità.

Le vie di Macerata si riempiono poi di gioia e colori grazie all’ Hoopelaï Hula Hoop Show di Andreanne Thiboutot, artista canadese che nella sua importante carriera vanta meravigliose collaborazioni con il prestigioso Cirque du Soleil. In Hoopelaï, Thiboutot, veste i panni di Madame Jocelyn, una donna elegante e sofisticata, che si stordisce a far girare i suoi hula hoop.  Grande è il coinvolgimento del pubblico, giovane e meno giovane che con grande stupore e meraviglia si lascia affascinare ed emozionare da tanta bellezza e tanta arte.

La sera si accendono i riflettori su Piazza della Libertà Il sindaco di Macerata, Sandro Parcaroli e la direttrice commerciale di Banca Macerata, Debora Falcetta, sottolineano l’importanza di un festival come Musicultura per la comunità maceratese. Spazio poi a John Vignola per l’inizio della serata musicale in compagnia degli otto vincitori di Musicultura 2022.

La prima a esibirsi è Isotta, artista senese che porta sul palco le sue Palla avvelenata e Psicofarmaci, a detta della cantautrice una metafora di tutti quei “castelli di sabbia che la nostra mente crea per cercare di stare meglio con se stessi e nel rapporto con gli altri”. Spazio poi all’anima dolce ed elettronica di Martina Vinci, cantautrice e musicista genovese che ha incantato la platea con Il cielo di Londra e Parole di troppo, canzone che parla dei mille modi possibili di vivere l’amore, invita ad accettarsi e ad accettare gli altri e a fare delle proprie insicurezze dei punti di forza. La serata continua poi con THEMORBELLI, autore e interprete de Il giardino dei Finzi-Contini e THERINASCIMENTO, una canzone d’amore non convenzionale che lascia trasparire una rabbia velata la quale sottende una gioia e un amore infinito per la vita. Il quarto ad esibirsi è Emit. Il cantautore sottolinea l’importanza che le parole hanno all’interno della sua produzione artistica e suggerisce delle bellissime immagini con i suoi due brani Vino e Mare.

Altra presenza femminile è quella di Cassandra Raffaele. La musica rappresenta per lei un rifugio, una luce, un fuoco che le brucia l’anima e che la porta a intonare le note de La mia anarchia ama te e Sarà successo. Seguono gli Yosh Whale, che con le loro Inutile e Stanca portano sul palco la loro musica frutto di un ricercato lavoro di sperimentazione e contaminazione. È il turno poi di Valeria Sturba, artista polistrumentista che grida forte il suo Antiamore e racconta i mille mondi interiori che convivono in ognuno di noi con Le cose strane. Ultimi a esibirsi sono i Malvax che, con una straordinaria capacità di coinvolgere il pubblico presente, eseguono le loro canzoni Esci col cane e Sneakers.

Intervista: con Elisabetta Dami, l’arte della curiosità a La Controra 2022

Chi, come noi della redazione di “Sciuscià”, ha la possibilità di incontrare di persona Elisabetta Dami, capisce subito che di fronte non ha solo l’autrice di Geronimo Stilton. Classe 1958, da sempre dedica la sua vita alla scrittura e ai viaggi. Tra un libro e l’altro ha corso tre volte la maratona di New York e una volta la durissima 100 km del Sahara; ha preso il brevetto da pilota d’aereo e fatto paracadutismo. Per il suo ruolo di storyteller è stata adottata ufficialmente da due tribù di nativi americani: il Popolo degli Hopi e quello dei Cherokee. Avventura, rispetto e curiosità sono i suoi principi guida nel lavoro e nella vita. Anche se la sua missione principale consiste nell’educazione di bambini e ragazzi, una cosa è certa: Elisabetta Dami è un esempio per tutti, grandi e piccini.

Nella tua biografia dici che in ogni libro c’è un po’ di te, soprattutto la tua passione per l’avventura. Come riesci a prendere le distanze dal tuo vissuto personale e a trasformarlo in una storia?

In realtà tutte le esperienze che faccio, da sempre, mi sono servite. Sono la materia prima da cui parto per elaborare le emozioni che ho provato e trasmetterle ai lettori che magari non hanno ancora l’età, o le capacità di organizzarsi – magari le avranno in futuro – per scalare il Kilimangiaro, completare una maratona di centoventi chilometri nel deserto del Sahara o un trekking in Nepal. Sono tutte cose che mi hanno insegnato moltissimo su me stessa e di cui sono grata alla vita. Quindi parto dall’emozione che ho provato in queste avventure e cerco di trasmetterle a chi legge, in modo che il libro sia come una finestra sul mondo, capace di immedesimare il lettore nella realtà vera di quello che ho sentito io. Per esempio, una volta mi chiesero – più di vent’anni fa – di scrivere un libro di Geronimo sulle cascate del Niagara e c’era pochissimo tempo perché il lavoro era urgente. Dissi che ci dovevo andare, e tutti a ripetermi che ero la solita esagerata, che avrei potuto solo studiare un po’. Volevo – e voglio ancora – l’emozione. Quando arrivai là capii che avevo ragione. La cosa curiosa che scoprii alle cascate è che tu senti un rumore fortissimo prima ancora di vederle. E proprio questo ti dà l’emozione: comprendere che quella è una cosa assolutamente fuori dal normale. Lo stesso mi accadde quando per la prima volta mi trovai vicino a degli elefanti nella riserva naturale di Dzanga-Sangha in Centrafrica: prima di vederli, senti il terreno che trema e senti l’odore, questo odore di selvatico che non è sgradevole e sa di foglie bagnate, di fango, di terra, di piante, di esotico, di Africa. E la guida ti dice: “Arrivano!”.

I valori e gli ideali che cerchi di trasmettere nei tuoi libri sono approdati in tutto il mondo: Geronimo Stilton è stato tradotto in ben 49 lingue, dall’inglese al cinese, fino  all’arabo. Come si arriva al cuore dei bambini quando hanno una cultura di base tanto diversa dalla nostra?

I bambini in tutto il mondo, almeno fino ai dieci anni, sono molto simili perché sono istintivi e danno una grande importanza al cuore. Vedo che rispondono alle stesse leve psicologiche ed emotive, proprio per questa loro capacità così autentica di essere sinceri. I valori di Geronimo sono onestà, lealtà, sincerità, amicizia, soprattutto rispetto. Rispetto per la natura significa ecologia, rispetto per gli altri significa valorizzazione delle diversità, inclusione e pace. Rispetto per se stessi significa non fare mai nulla che possa farti del male, per esempio non avvicinarsi alle droghe o all’alcol. Ci sono anche il rispetto per la famiglia, per la scuola, per le istituzioni, per la legalità. Tutti questi valori aiutano i bambini a inserirsi in modo pacifico e civile nella società, ma il punto più importante è la speranza. Geronimo è nato proprio così, in un ospedale, per dare speranza ai ragazzi. Poi le sue storie sono anche avventure, colpi di scena in ogni pagina e umorismo, che è fondamentale.

Il tuo ultimo libro, Così parlò Lupo Blu, si discosta in parte dalla produzione precedente, soprattutto per quanto riguarda i possibili destinatari del testo: non solo piccoli uomini e donne, ma anche ragazzi e adulti. Come è emersa l’esigenza di parlare a una platea più ampia?

Per oltre vent’anni ho parlato con la voce di un topo, poi ho pensato di fare un libro per i più piccoli: sono nati Billo e Billa nella Valle della Felicità. In ogni libro spiego un valore e cerco di aiutare i genitori ad affrontare certi temi difficili. Il lupo, invece, è un animale che parla al cuore di tutti noi e desideravo scrivere un’avventura senza tempo, alla scoperta del senso della vita. Attraverso la voce di questo personaggio speciale volevo raccontare la mia esperienza. Vedo che i giovani hanno bisogno di sentirsi confortare da qualcuno che dica loro: “Io ti racconto ciò che ho imparato, secondo me ti sarà utile”.

Suoni il pianoforte e da anni sei ambasciatore dello Zecchino d’Oro e dell’Antoniano Onlus. La tua presenza a Musicultura evidenzia l’aspirazione di questo Festival a essere un’officina dell’arte in tutte le sue forme, una scuola per chiunque abbia voglia di imparare. A te cosa ha insegnato la musica?

La musica è forse l’unico linguaggio universale perché – di nuovo – parla al cuore di tutti. Quando ci si riunisce in nome della musica non si può sbagliare e a quel punto si può parlare anche di cultura, di libri. Qui al Festival ho trovato un clima di amicizia che mi piace tantissimo. Infatti ho chiesto a Ezio (Nannipieri, il direttore artistico di Musicultura, ndr) di invitarmi anche l’anno prossimo. Magari troverò qualcos’altro di intelligente da dire!

Dopo quarant’anni di carriera come si conserva e protegge quella curiosità di bambina che, come dici, ispira ancora il tuo lavoro?

Guarda, li ho contati l’altro giorno: sono 45. Io ho 63 anni e sono orgogliosa di dirlo perché nel cuore me ne sento meno e, quando scrivo, ritorno ai miei 7 anni. Però sono anche contenta di essere “maturata”, come direbbe Geronimo per il formaggio. L’età mi ha insegnato un sacco di cose. Sono migliorata con gli anni: per esempio, ho imparato la pazienza – una virtù che da giovane non avevo – e ho capito l’importanza della gentilezza. Sono felice che la mia esperienza possa passare a qualcuno.

Hai già fatto il giro del mondo e visitato alcuni dei luoghi più singolari del pianeta. Dove ti porterà il prossimo viaggio?

Tocchi un punto sensibilissimo. Iniziai a lavorare a 18 anni con mio papà e a 25 gli dissi: “Senti, qui ho capito che per far le cose come dico io devo lavorare tanto, sarà impegnativo e mi ci voglio buttare bene. Adesso mi prendo sei mesi sabbatici e vado a fare il giro del mondo”. Partii con i soldi che avevo guadagnato e messo da parte religiosamente, in classe economica e da sola perché volevo fare esperienza. Ho visto di tutto, ma non è stato facile. A metà ci ho messo anche un corso di sopravvivenza nel Maine. Però è stato favoloso e da qualche tempo a questa parte mi sono detta: ho lasciato passare quarant’anni, adesso lo devo rifare!

Intervista: Roberto Piumini ospite a La Controra 2022

Roberto Piumini ha sempre giocato con i suoni, le parole, i racconti. È stato, all’inizio della sua carriera, insegnante di lettere e attore teatrale. La scrittura è arrivata quasi naturalmente, nel 1978: da allora ha pubblicato moltissimi libri di fiabe, filastrocche e testi teatrali, diventando uno dei nomi più importanti della letteratura per l’infanzia. E non solo: perché dagli anni ’90 ha anche scritto romanzi, racconti e poemi per i più grandi.

Ieri ha messo un po’ di quelle storie in valigia e le ha portate a Macerata, per la Controra di Musicultura. Nella Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti, assieme a Nadio Marenco che lo ha accompagnato con la sua fisarmonica, ha letto ad alta voce le avventure de “Il Piegatore di lenzuoli”. Noi della redazione di Sciuscià l’abbiamo intervistato, per conoscere meglio il suo percorso artistico, le sue idee sul mestiere di scrivere, le sue ispirazioni. Ecco cosa ci ha raccontato:

Partiamo così, a bruciapelo: come nasce una filastrocca?

La filastrocca nasce dal gioco: il gioco delle parole e del senso, e il gioco dei suoni. È qualcosa che origina nella parte ludica e fonosimbolica della nostra mente, dalla voglia di creare e poi di condividere con gli altri. “Altri” che in questo caso sono i bambini. In un primo momento la filastrocca appartiene solo a chi la scrive, ma fa presto a diventare divertimento, coralità, danza e movimento, voglia di partecipare insieme. È un materiale verbale dinamico.

Ha tradotto poemi di Browning, i Sonetti e il Macbeth di Shakespeare. Come si integra il suo lavoro di traduttore con quello di scrittore per l’infanzia?

Il mio lavoro di traduttore è una sorta di “prolungamento ludico” della mia attività di poeta. Ma senza la responsabilità di narrare e di inventare. Con la traduzione ho la possibilità di far dilatare al massimo l’intervento del mio linguaggio e della mia capacità di costruire e di creare. Di mestiere non faccio il traduttore, però quando traduco mi informo sul campo semantico usato dall’autore, faccio una sorta di “perizia investigativa” sulla metrica, studio la lingua, le metafore. Però non mi dimentico mai di essere anche un poeta, quindi cerco di creare delle versioni che siano comunque fedeli, ma più godibili e con più canto.

Ha lavorato al fianco di diversi musicisti per la realizzazione di libri su autori, strumenti e stili musicali. Com’è nata l’idea di queste collaborazioni?

Diversi decenni fa Bruno Lauzi, cantautore della gloriosa epoca del cantautorato italiano, mi fece iscrivere alla SIAE. Aveva visto e apprezzato alcuni dei miei testi, e voleva a tutti i costi che io diventassi autore musicale per potermi coinvolgere in un progetto. La cosa alla fine non avvenne, il progetto non fu mai realizzato, ma io rimasi comunque formalmente un autore. Quando cominciai a girare per le scuole e per le biblioteche per fare spettacoli sui miei testi accompagnato da musicisti scoprii che non avevo nessuna difficoltà a scrivere canzoni. È un’attività che mi diverte tantissimo, proprio come mi diverte fare traduzioni. Credo che in entrambi i casi, infatti, ci sia una parte poetica preesistente; quindi posso rivolgermi con più attenzione al mio campo specifico: quello delle parole. Le considero entrambe attività “defaticanti”. Il che può sembrare strano, perché una traduzione come quella del “Paradiso Perduto” mi ha occupato circa un anno e mezzo. Ma è un gioco: un gioco che si fa con qualcosa detto già da altri o che sta per essere detto da altri, e io cerco di giocare nel miglior modo possibile.

Che valore attribuisce alla poesia quando afferma che “partecipa al colloquio del mondo, anche quando è un canto solitario”?

Attribuisco alla poesia un valore antropologico. È senz’altro l’atto espressivo più profondo e più legato alla memoria, al desiderio, all’esperienza, all’identità. È quello che più di ogni altra cosa richiama una risposta nell’altro.

Da oltre trent’anni Musicultura accoglie moltissimi giovani cantautori. Parliamo di musica d’autore in cui ognuno esprime una parte di sé, del proprio animo. Quali sono le sue impressioni a proposito?

Posso parlare dei miei gusti personali, perché non sono un ascoltatore per così dire “qualificato”. Mi piacciono i cantautori che non scrivono con un eccesso di letteratura, ma che lavorano sull’espressività. Preferisco i cantautori che non vogliono essere troppo letterati, insomma. Quelli che trovano il giusto equilibrio, senza esagerare nel profetarsi poeti.

Musicultura e Banca Macerata

Venerdì 24 e sabato 25 giugno, l’Arena Sferisterio farà da scenario alle esibizioni degli 8 vincitori della XXXIII edizione di Musicultura. Alla fine delle due serate verrà assegnato il premio Banca Macerata, del valore di 20.000 euro, al vincitore assoluto di questa XXXIII edizione. Ecco, proprio valorizzare l’eccellenza e i giovani talenti musicali è uno degli obiettivi che la partnership tra Musicultura e Banca Macerata intende perseguire. In un momento storico come questo, in cui ricominciare è la parola d’ordine, il Presidente dell’istituto di credito, Ferdinando Cavallini, ci ricorda proprio di puntare sempre sui giovani e sul futuro della musica italiana.

Sta per giungere al termine il secondo anno di collaborazione con il Festival della Musica Popolare e d’Autore. Com’è nata l’idea di questa partnership?

L’idea nasce da una semplice costatazione: Musicultura è un’eccellenza del territorio che si è affermata – e sempre più si va affermando – nel tempo, portando la città di Macerata ad avere risonanza a livello nazionale. Banca Macerata è una banca giovane, un po’ più giovane di Musicultura, e vuole quindi valorizzare i giovani e i loro talenti. Non c’era un partner migliore per noi, perché rispondeva perfettamente alla nostra esigenza di portare avanti un’idea: quella di essere sempre presenti e sempre attivi sul territorio.

Facciamo un piccolo bilancio, seppur ancora parziale, di questa prima edizione del festival post-pandemia…

È stata un’edizione di grande successo, di grande soddisfazione, di grandi impegno e capacità organizzativa. Il Festival ancora una volta è riuscito a coinvolgere tutti in termini mediatici. C’è stata tanta presenza, insomma. Tanto tutto. Tanto bello.

Le serate finali che si terranno allo Sferisterio si avvicinano. Qual è il suo augurio agli otto vincitori che a breve si esibiranno per aggiudicarsi il titolo di vincitore assoluto?

Che vinca il migliore. Che vinca il finalista più apprezzato dal pubblico. A tutti gli artisti auguro una splendida carriera, perché si sono impegnati tanto, hanno superato molte selezioni e sono arrivati fino a questo traguardo. Credo che sarà una grande soddisfazione per tutti loro essere già arrivati fin qui. In bocca a lupo a tutti, vi auguriamo tutto il bene possibile.

Chiudiamo così: se dovesse dedicare una canzone a Musicultura, quale canzone sceglierebbe?

Sei bellissima, di Loredana Bertè.

Intervista: Michele D’Andrea torna a La Controra di Musicultura

La seconda giornata de La Controra è inaugurata dalla presenza dello storico, araldista, scrittore romano Michele D’Andrea e dalla sua spiccata volontà di narrare particolari storici poco noti al pubblico. Tante le attività e le passioni che contraddistinguono la sua figura, tra cui la passione per la musica risorgimentale italiana.
Classe ’59, Michele D’Andrea ha ricoperto cariche prestigiose come quella di Consigliere della Presidenza della Repubblica e membro del Cerimoniale. Si è occupato, inoltre, di messaggistica presidenziale e uffici stampa. Insomma, la sua è stata, per sua stessa ammissione, “una bella palestra di crescita professionale”. Conosciamo altre sfaccettature della sua persona attraverso quest’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.

Si è occupato di messagistica e comunicazione istituzionale, cerimoniale, storia, teatro e musica. Come ci si giostra tra attività apparentemente così diverse?

Con tanta passione. La passione è qualcosa che ti fa vivere. È ossigeno. È il cervello che si apre. Sono le occasioni che prendi al volo. Sono le intuizioni. È anche la mancanza di fatica quando sei stanco. E c’è una cosa che dico a voi ragazzi: fate tutte le vostre cose, scuola e fuoriscuola, con passione, perché la passione muove le montagne.

In qualità di araldista ha curato lo stendardo presidenziale e gli stemmi dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato, della Marina Militare e dell’Esercito Italiano. Qual è l’importanza di questa forma di comunicazione nel 2022?

L’araldica fu una sorta di miracolo. In cinquant’anni appena, tra la fine del 1100 e l’inizio del 1200, l’Europa riusciva a parlare lo stesso linguaggio figurato attraverso l’araldica, che è un po’ una carta di identità senza parole e, per tantissimi secoli, è stato uno strumento per raccontare la storia, le persone, le comunità. Oggi l’araldica ha ancora un senso, perché in tutti i comuni se alzi lo sguardo all’entrata della città puoi vedere il suo stemma ed essere in grado di riconoscerlo tra mille. Ecco perché l’araldica è ancora importante: dà un messaggio immediato, visivo, che si può cogliere subito.

Spesso si è interessato di temi quali il galateo della comunicazione, l’educazione e il rispetto nella società contemporanea. Che valore ha sensibilizzare i giovani di oggi su queste tematiche?

Non vorrei essere preso per un vecchio, però ci sono dei comportamenti che possono dare fastidio, trent’anni fa come oggi. Io dico sempre che c’è una libertà personale che dev’essere poi mediata con la libertà degli altri. Il nostro comportamento individuale deve essere sempre legato al luogo in cui si sta, a chi si ha intorno, all’occasione, all’età delle altre persone.
È importante perché voi ragazzi affronterete il mondo del lavoro, e in quel mondo ci sono delle regole non scritte molto più rigide. È necessario, quindi, abituarsi adesso ad avere un certo tipo di atteggiamento con gli altri, un atteggiamento tendenzialmente rispettoso che ha in sé la cifra di un’educazione. Ad esempio, io a una persona più grande darei comunque del “lei”. Quando sarete nel mondo del lavoro, questo vi aiuterà a capire meglio quali sono i meccanismi che regolano gli ambienti in cui spenderete la vostra professionalità. Se uno tende a essere un pochino anarcoide, prima o poi si scontrerà frontalmente contro un treno e con una realtà che è molto diversa.

Nella scorsa edizione del Festival ha presentato al pubblico dello Sferisterio Il Canto degli italiani. Cosa rappresenta per lei l’Inno di Novaro-Mameli?

Hai detto bene, “l’inno di Novaro-Mameli”, perché tutti dicono “l’inno di Mameli” ma, effettivamente, ciò che l’ha portato a essere simbolo dell’Italia è la musica di Novaro. L’inno è stata la colonna sonora non solo del nostro Risorgimento, ma anche degli anni a venire. Si pensi, per esempio, che in tema della Resistenza nel 1943, Radio Bari, che era una radio che trasmetteva ai partigiani del Nord, chiudeva le sue trasmissioni con l’inno di Mameli. Se l’anno scorso, proprio qui a Musicultura, l’ho presentato e quest’anno ne riparlo è proprio perché il nostro inno merita di essere raccontato, svelato, e deve essere presentato come in realtà è e non come, purtroppo, viene spesso massacrato da esecuzioni che non sono corrette.

Nei suoi seminari e convegni utilizza spesso l’ironia. L’ha sempre usata o ha deciso solo di recente di adottarla come strategia comunicativa?

Più che parlare di “strategia comunicativa”, che fa pensare a qualcosa di costruito, direi che in realtà ho sempre cercato di approntare il mio lavoro e i miei interessi non tanto sull’ironia quanto sull’autoironia, prendendo in giro anzitutto me stesso, ovvero non prendendomi troppo sul serio. La storia si può raccontare in tanti modi, ma sono certo che anche raccontandola attraverso l’aneddotica, i retroscena, le curiosità, anche scherzandoci un pochino sopra, alla fine il messaggio arrivi ugualmente, ma in una maniera forse più piacevole che magari invoglia ad andare in libreria e comprare un libro per aggiornarsi. Ecco, un altro consiglio che mi permetto di dare, da persona anziana, a voi giovani, è proprio questo: abbiate tanta autoironia.

Ron positivo al Covid: salta il suo concerto. Arriva Enrico Ruggeri

Siamo spiacenti di riferire che poche ore fa, ci è stata comunicata l’impossibilità di Ron a partecipare al concerto previsto per questa sera martedì 21 giugno a Macerata, in Piazza della Libertà, per la Controra della XXXIII edizione di Musicultura.

Sono molto dispiaciuto di non poter suonare questa sera a Macerata per Musicultura a cui sono legato da anni di collaborazione, facendo anche parte del Comitato Artistico di Garanzia. – Ha detto Ron  Purtroppo sono risultato positivo al Covid. Spero di poter recuperare questo concerto al più presto.

Musicultura formula a Ron il più caldo e affettuoso augurio di pronta guarigione. Dopo il bellissimo concerto di Filippo Graziani che ha aperto ieri sera La Controra, con l’omaggio alle canzoni del padre Ivan, in una Piazza della Libertà stracolma di pubblico, c’era in città una grande attesa per lo spettacolo che avrebbe visto stasera protagonista Ron accompagnato dall’Ensemble Symphony Orchestra.

Il dispiacere per l’impossibilità del grande cantautore di essere presente a Musicultura non ha appannato la reattività dell’organizzazione del festival.

In una emergenza dell’ultimo minuto come questa,  non ci siamo arresi e abbiamo fatto di tutto per  assicurare comunque al pubblico stasera un grande spettacolo in piazza – ha dichiarato il direttore artistico Ezio Nannipieri – Ci siamo rivolti a un amico e gli abbiamo chiesto se fosse disponibile a venirci in soccorso, l’amico è Enrico Ruggeri. Generosamente e in tempo reale Enrico si è reso disponibile e stasera  sarà lui a suonare  in piazza della LIbertà con la sua band.

Enrico Ruggeri che il 24 e il 25 giugno condurrà insieme  a Veronica Maya le serate conclusive  della XXXIII edizione di Musicultura allo Sferisterio di Macerata, ha così commentato. Non è semplice organizzare un concerto con poche ore a disposizione prima della partenza del nostro tour. Ma ci sono valori perfino più importanti dell’organizzazione: gli amici di Macerata non meritavano di rinunciare a un concerto. Un abbraccio a Ron, con i nostri auguri di pronta guarigione. Macerata, arriviamo di corsa.

Intervista: Pupi Avati a La Controra di Musicultura

L’incontro di ieri in occasione di Musicultura 2022 ne ha dato conferma: il Maestro Pupi Avati, oltre ad avere una spiccata predisposizione per l’arte, dopo aver fatto del cinema la sua vita è riuscito a maturare una visione profonda del mondo, che risalta magnificamente in questa intervista. Mentre parla, mostra con naturalezza disarmante il suo carattere introspettivo e la saggezza accumulata nel corso degli anni, che sente di dover condividere: “Alla mia età ho il dovere di dirvi cos’è la vita,” spiega durante la sua partecipazione a La Controra, alla quale fa da sfondo il cortile di Palazzo Buonaccorsi, nel centro di Macerata. Prima del suo arrivo, il pubblico è già fuori ad attenderlo; in molti cercano di acciuffare un posto per assistere all’evento; i giornalisti, pazientemente, aspettano il loro turno per porre qualche domanda. E anche noi lo facciamo: poniamo domande. E le risposte ricevute ci accarezzano.

Prima di affermarsi come regista ha avuto una carriera nel mondo della musica come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz Band; a distanza di tutti questi anni le è rimasta questa passione e suona ancora il suo clarinetto oppure la fiamma si è spenta col tempo?

La passione è rimasta perché è stato il primo sogno della mia vita. E dal primo sogno della vita è difficile svegliarsi. Purtroppo non si è realizzato: essendomi confrontato con musicisti di grande talento (io non credo di averne), e sentendomi ancora in tempo per cambiare progetto, ho abbandonato quel sogno. Ma dentro di me il desiderio di poter fare il musicista è rimasto vivido e ho ancora vicino alla scrivania il mio clarinetto montato; ogni tanto provo a fare qualche nota ma la musica richiede esercizio e studio, quindi non la pratico più. Però, se mi chiedessero se avessi preferito essere un musicista o un regista, avrei scelto la musica.

Oltre a diverse fortunate collaborazioni, condivideva con il compianto compositore pesarese Riz Ortolani un’amicizia di vecchia data; conserva di lui qualche ricordo in particolare che le piacerebbe condividere?

Avrò fatto con Riz all’incirca 30 film, sono il regista con il quale ha lavorato di più nella sua vita. Ha contribuito a fornire un’anima ai miei film, carica di sentimenti e di un’emotività che prima non avevano. Montavo la sua musica sulle riprese e levitavano, raggiungevano l’emozione; per questo io a Riz debbo tantissimo. Il nostro era un rapporto tra musicisti – nonostante abbia smesso di suonare sono un cultore della musica – così gli suggerivo quali suoni o atmosfere ricreare, quali artisti ascoltare tra Béla Bartóko Miles Davis, e lui immaginava un mondo musicale solo per quel film. Riz era straordinario nell’arrangiamento degli archi, aveva questo grande dono.

A settembre uscirà il suo ultimo film, Dante, che narra della vita del sommo poeta in uno scenario post mortem attraverso gli occhi di un giovane Boccaccio; come ha trovato l’ispirazione per affrontare in maniera così “inedita” e singolare un personaggio tanto conosciuto?

Tanto conosciuto e così poco indagato, perché nonostante le biografie dantesche siano infinite il Dante “umano” è raccontato pochissimo, quando in realtà non era così difficile desumerne il carattere. I gesuiti dicevano: “Dammi un bambino i primi cinque anni della sua vita e sarà nostro per sempre”; Dante ha vissuto la sua infanzia nel dolore per aver perso la madre a 5 anni e gli furono imposti una matrigna e un fratellastro; poi incontrò questa Beatrice, della quale si innamorò, e lei si sposò con un altro; non era difficile intuire che la sua grande sensibilità poetica derivasse da tutto il dolore patito. Perché il dolore è un percorso attraverso il quale ci si forma. Non è da augurare a nessuno, certo, però le persone più profonde sono tutte transitate attraverso il dolore. Ho quindi voluto raccontare un Dante giovane e autentico in cui ci si possa riconoscere. Corrado Augias, alla fine della prima proiezione a Roma, mi disse: “Dopo 80 anni, finalmente Dante non mi è più antipatico.”

Da quale scuola o movimento cinematografico è maggiormente affascinato?

Ho cercato di liberarmi dalla fortissima influenza che ho avuto e dalla fascinazione che ancora ho nei riguardi di Federico Fellini: se faccio cinema è perché ho visto 8; non avrei mai immaginato che il cinema fosse una cosa del genere. Per i primi anni della mia attività venivo definito “il giovane regista felliniano”, poi via via oltre all’aggettivo “giovane” anche “felliniano” è scomparso, perché ho trovato un mio tono di voce, una mia calligrafia, ma non è stato facile: i maestri sono importanti, ma è importante anche liberarsene. Non si può rimanere allievi tutta la vita.

Tra musica e cinematografia c’è un sodalizio che in qualche maniera oggi va avanti anche attraverso la produzione di video musicali. C’è un brano nel panorama nazionale di cui le piacerebbe dirigere la componente visiva?

Più di uno. Ci sono molti brani ne L’alta Fantasia, la biografia che ho scritto; ogni capitolo è accompagnato da un suggerimento musicale, c’è una sorta di playlist composta da pezzi che ascolto mentre scrivo, e già da lì si desume la grandezza della mia passione; non c’è un brano unico, ci sono brani che variano a seconda delle mie emozioni, di cosa sto scrivendo e di cosa provo, anche se è evidente che i miei riferimenti musicali sono tutti nella musica classica e nel jazz. La musica popolare non mi incuriosisce, non produce in me le stesse emozioni.