INTERVISTA. A Musicultura Brunori Sas, il cantautore alla ricerca dello stupore

Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è stato uno degli ospiti più attesi di questa XXIX edizione di Musicultura; reduce dall’esperienza televisiva del suo primo programma “Brunori Sa”, andato in onda la scorsa stagione su Rai3, domenica 17 giugno il cantautore siciliano è tornato ad esibirsi sul palco del Festival e a La Controra, occasione in cui ha intrattenuto il pubblico con i racconti incentrati sulla sua musica e sulla vita professionale.

Membro del Comitato Artistico di Garanzia del concorso, Brunori ha avuto un ruolo importante nella scelta degli 8 vincitori, avendo ascoltato il disco contenente i brani dei 16 finalisti di Musicultura e avendo dato un voto alle proposte artistiche che ha ritenuto più interessanti. In riferimento alla sua musica socialmente “impegnata”, grazie alla quale ha ottenuto grandi riconoscimenti, ha confessato: “Ho avvertito un’emergenza emotiva di raccontare la cronaca”. È un artista, oltre che uno dei più famosi cantautori della scena musicale italiana, che negli anni ha saputo raccontare la società con parole semplici e vere, mantenendo un proprio stile e facendo dell’onestà artistica la sua cifra stilistica. Anche alla redazione di Sciuscià ha voluto parlare delle tante sensazioni e dei pensieri racchiusi nelle sue canzoni, ma anche del nuovo progetto vissuto come conduttore.

L’Amnesty International Italia ha premiato il suo pezzo, L’uomo nero, come miglior brano sui diritti umani. Un testo sottile e politicamente impegnato. Com’è nato? C’è stato un evento particolare che l’ha spinto a scrivere di intolleranza?

Sì, la storia è nata quando ho incontrato un ragazzo sulla linea 90 a Milano, che cantava il Corano. Questo evento ha scatenato in me una sorta di attrito tra il mio non essere influenzato da ciò che mi circonda e la realtà intorno, fatta di una serie di paure che pensavo di non avere. Quel momento e tante altre occasioni mi hanno spinto a scrivere il pezzo. Ho sicuramente cercato di raccontare da una parte la sensazione di amarezza che stiamo vivendo tutti, dunque la consapevolezza che ci sia un ritorno di fiamma di alcune vicende che pensavamo fossero seppellite, di paure e pregiudizi considerati ormai lontani; dall’altra invece l’idea che di fronte a tutto questo non possiamo puntare il dito contro qualcuno e ammettere che alcuni argomenti non ci interessino. Dobbiamo provare a comprendere noi stessi e le nostre angosce per capire anche gli altri, cercando così di trovare una chiave di lettura che non sia solo “io sono contro di te perché tu pensi qualcosa che per me è assurdo”. Citando una frase attribuita a Gaber, ognuno deve analizzare prima il mostro che ha dentro, per poi capirlo. In ogni caso, molte cose che sto dicendo adesso le sto comprendendo mano a mano, a posteriori; nel momento in cui scrivo sono spinto dalle mie emozioni e non so davvero i motivi che ci sono dietro ad alcuni argomenti che affronto nei miei brani.

Restando in tema, secondo lei perché si avverte di più questa intolleranza di cui parla? Come mai sta aumentando il nazionalismo e forse il cinismo, nel nostro Paese? 

Sicuramente il motivo risiede nell’incertezza e nell’insicurezza nei confronti del futuro. Lo straniero è sempre stato il bersaglio più semplice; questo lo dicono anche molti di studiosi. Accusare una minoranza è più facile e consente di dare spiegazioni che altrimenti sarebbero troppo complesse da ricercare. Noi sappiamo benissimo che la realtà che viviamo oggi non può essere causata semplicemente dall’arrivo di altre persone nel nostro Paese; così capita che l’immigrato viene visto come una sorta di capro espiatorio, un problema concreto e visibile. Baumann affermava che se non ci fosse stata la figura dello straniero, qualcuno avrebbe dovuto inventarla. Chi governa sa che è facile agire in questa direzione. Purtroppo, come diceva una famosa sentenza di un filosofo, quando c’è in atto una guerra tra le fasce dei più poveri, il massimo potere ne esce vincitore e a lui conviene questo odio.

Quest’anno ha indossato anche le vesti di conduttore televisivo e protagonista in “Brunori Sa”, un programma di ironia, poesia e musica. Com’è nato questo progetto? 

È nato un po’ per caso e senza tante aspettative. Abbiamo voluto creare una trasmissione che potesse fungere da documentario, da fiction e da serie televisiva. Ad ogni puntata ho invitato alcuni amici: cantautori e non, per cui provo ammirazione o con i quali ho instaurato, negli anni, rapporti di amicizia. È stato fondamentale che io già conoscessi le persone che ho voluto nel mio programma, perché con loro ho avuto la giusta confidenza per trattare alcune tematiche. L’argomento di ogni episodio è stato poi decisivo nella scelta sia delle materie da affrontare, sia dei brani da eseguire.

Molti la etichettano nel genere “indie”, nato per contraddistinguere gli artisti indipendenti. Com’è cambiato questo stile? Chi sono oggi i cantautori indie? 

L’indie è un contenitore di cose diverse fra loro, ma allo stesso tempo collegate da un’attitudine a creare “dal basso”, per far sì che i progetti vengano fuori quasi in una maniera spontanea. Gli artisti indie non si sono mossi secondo le regola classiche della discografia “ufficiale”; partendo da questa premessa, c’è distanza dal percepire lo stile indipendente come un’estetica musicale. C’è da dire che oggi identifichiamo con l’indie l’itpop, una corrente melodica, all’italiana, che racconta situazioni vicine ad una parte della società, quella dei giovani. Personalmente io non mi riconosco nell’atteggiamento attuale dell’indie; questo genere prima era caratterizzato da suoni aspri, si poteva definire combattivo e combattente. Adesso analizzare i suoi contenuti può essere interessante; si potrebbe fare un confronto con la narrazione degli anni ’90 e quella attuale, in modo da cogliere i cambiamenti della società e della fascia giovanile.

Facendo parte del Comitato Artistico di Garanzia del Festival, ha ricevuto il disco con i brani dei 16 finalisti di Musicultura, per poter ascoltare e valutare le proposte in concorso. Su quale aspetto si è focalizzata di più la sua scelta di voto? 

Mi hanno sorpreso maggiormente le proposte artistiche che hanno un qualcosa di innovativo da raccontare. Come ascoltatore cerco degli elementi che vadano al di là della tradizione, seppure come cantautore sia legato ad essa. Sollecito a proseguire il loro percorso quegli artisti che, anche in modo naïf, mi fanno provare stupore, curiosità e voglia di conoscenza.

INTERVISTA: “Un film è un viaggio”: il regista Gianni Amelio a La Controra di Musicultura 2018

Venerdì 15 giugno, a La Controra della XXIX edizione di Musicultura, Gianni Amelio ha presentato il libro “Padre quotidiano”, nel quale delinea i tratti principali del rapporto molto sofferto tra genitore e figlio, che lui stesso ha analizzato attraverso il cinema e la scrittura.

Da “Colpire al cuore” fino a “La tenerezza”, sotto l’occhio della sua cinepresa si sono susseguiti quasi 40 anni di storia e di cinema d’autore italiano; nei suoi film i temi inerenti all’attualità, alla politica e alla società sono analizzati sempre attraverso un’indagine sull’introspezione umana, mettendo in risalto sentimenti ed emozioni. L’argomento centrale, in gran parte della produzione cinematografica del regista, è la paternità, che gli è molto caro: Amelio infatti ha dovuto affrontare un’infanzia difficile, avendo vissuto l’abbandono da parte del padre; lui stesso inoltre ha un figlio in adozione, un ragazzo albanese conosciuto durante le riprese del film “Lamerica”.

In questa intervista, il famoso sceneggiatore ha parlato di questo e di molto altro anche con la redazione di Sciuscià, lasciandosi andare ai racconti sulla sua vita e sulla brillante carriera all’insegna della cinematografia.

Da “Colpire al cuore” fino al suo ultimo film “La tenerezza”, il rapporto tra padre e figlio è stato un tema costante in tutta la sua produzione cinematografica; come mai? 

Diciamo che le storie e i sentimenti che uno racconta, così come gli argomenti di un film o di un libro, non arrivano mai per caso. A volte non bisogna neanche andarli a cercare, perché vivono in ognuno di noi e, quando capiscono che è il momento giusto, bussano per uscir fuori e ci dicono: “Quand’è che parli di noi? Quand’è che ci racconti?”. Io ho avuto un’infanzia che non rientra proprio nella norma familiare, perché sono vissuto senza una figura paterna, che tra l’altro ho conosciuto solamente quando avevo 17 anni. Tutto questo mi ha segnato in maniera negativa. A scuola mi ripetevano che non avevo un papà, eppure sapevano che non ero orfano. Mio padre era emigrato in Argentina e aveva in qualche modo abbandonato mia madre, come era successo anche a mia nonna e a tanta gente del mio paese, che è San Pietro di Magisano, in provincia di Catanzaro. All’epoca da noi esistevano le “vedove bianche”, ovvero quelle donne rimaste sole, a casa, per occuparsi dei figli perché i loro mariti sono stati costretti, per cercare fortuna, ad allontanarsi dalla loro terra per andare dall’altra parte dell’oceano. Questa è la mia storia, ma è anche quella di tante famiglie calabresi e siciliane che hanno vissuto negli anni prima della guerra e anche nel dopoguerra. Noi eravamo un po’ come i migranti di adesso o come gli albanesi che venivano nel nostro Paese. Il tema della paternità, che ricorre spesso nei miei film, nasce come una fatalità, da un bisogno interiore: nel momento in cui una persona ha sperimentato sulla propria pelle certe esperienze, è chiaro che in qualche modo queste emergano.

“Lamerica” è la storia di un viaggio verso l’Italia: quello dei tanti albanesi che fuggono dalla povertà, ma anche quello di Michele, che cerca di tornare a casa in Sicilia. Perché nei suoi film – penso ad esempio anche a “Il ladro di bambini” – troviamo spesso dei personaggi “in cammino”? 

Perché il cammino è una ricerca che dovrebbe portarci ad una vita migliore. Da una parte anche questo tema è autobiografico, dato che anche io mi sono dovuto spostare dal mio paese per lavorare. Anche un film è un viaggio, che prende il via con delle persone dapprima sconosciute, che poi però diventano come membri di una famiglia. Raccontare una storia è come muovere i passi in un percorso che si snoda tra i nostri sentimenti. Il mestiere del regista è formato da due aspetti: da un lato si cerca di raccontare la propria esperienza e si è sempre protesi verso la ricerca di una realtà e di un futuro; dall’altra bisogna tener conto del prodotto cinematografico, che è un po’ la metafora di questa indagine.

È proprio durante le riprese di “Lamerica” che si svolgono i fatti narrati nel libro “Padre quotidiano”: per quale motivo ha deciso di raccontarli scrivendo un romanzo, piuttosto che stando dietro la macchina da presa? 

Ho realizzato “Lamerica” in un momento in cui sentivo il bisogno di raccontare come un paese, l’Albania di allora, si sforzasse il più possibile per uscire dalla condizione spaventosa nella quale si trovava. Il mio intento non era quindi quello di filmare vicende già riprese e mostrate. Successivamente ho capito che m’interessava sperimentare un’altra forma di comunicazione, ovvero la scrittura. Non è stato facile, pur essendomi cimentato durante la mia carriera nella realizzazione delle sceneggiature dei miei film; lavorare ad un testo cinematografico è diverso, perché in esso le battute possono anche trasformarsi in corso d’opera. Invece per scrivere un libro bisogna trovare le parole giuste, il tono esatto ed essere il più possibile sinceri, senza nascondersi dietro le cose. E’ stato naturale, necessario, quasi obbligatorio, utilizzare un altro mezzo per raccontare determinati momenti.

Anche se nel suo cinema prevalgono spesso l’intimità e i sentimenti, ogni suo film ha anche uno sguardo critico sulla società. Quali temi legati alla contemporaneità ha voluto mettere in luce in “La tenerezza”? 

In “La tenerezza” ho voluto dare risalto all’intimità degli uomini e a ciò che si nasconde dietro dietro ad una famiglia apparentemente felice, come l’incomprensione tra un padre e una figlia; magari ho affrontato temi meno sociali e meno politici rispetto a quelli presenti in “Ladro di bambini” o “Così ridevano”, in cui trattavo la migrazione interna in Italia. Però secondo me le storie familiari vanno raccontate, dato che il privato è anche politico. Non è che i sentimenti personali siano staccati dalla realtà e dal nostro ruolo all’interno della società: tutto è collegato e in ogni momento vissuto esplodono le nostre pulsioni, ad un certo punto. In “La tenerezza”, che è forse il film più personale che ho realizzato, da una parte racconto la mia età, perché è la prima volta che inserisco un protagonista che ha i miei stessi anni e poiché in qualche modo mi interrogo sul motivo dell’incomunicabilità tra genitori e figli; dall’altra mi soffermo su una piccola famiglia, apparentemente felicissima, che nasconde però delle nevrosi. Faccio riferimento anche a delle vicende che purtroppo ci circondano e che ogni tanto vediamo esplodere persino nella cronaca.

 Alcuni artisti che partecipano a questa edizione di Musicultura hanno espresso il loro desiderio di comporre colonne sonore per il cinema: vuole dare loro qualche consiglio su come adattare un brano ad un prodotto cinematografico? 

Io penso ad entrambi le cose, dunque alla colonna sonora e all’immagine; la maggior parte della volte però ho prima in mente la musica. Mi appassionano molto gli artisti che cantano dei loro tormenti, dei dolori e di vicende che sento a me vicine. Così nei miei film, piuttosto che inserire una musica intesa come commento di un episodio, spesso preferisco includere delle melodie che nascono da una storia ben precisa. Oppure ci sono pezzi che io amo, indipendentemente dal progetto a cui lavoro;  ad esempio “La tenerezza” non ha una colonna sonora composta da un musicista e poi applicata alle immagini, ma ha come anima una canzone greca che ho sentito quando ero ragazzino, un pezzo degli anni ’60 di cui non ho mai capito tutte le parole. Solo adesso le ho un po’ imparate, tradotte in italiano, e mi sembra che queste ben si sposino con i caratteri dei personaggi. È una musica malinconica, tenera e non drammatica; la storia invece ha degli scossoni di grande violenza. Da un lato è una colonna sonora che conduce apparentemente al sogno, dall’altro verso la realtà cruda, che ti scuote e talvolta ti uccide: questi due aspetti formano il contrasto giusto trasmettere il senso del film.

INTERVISTA. La bellezza della quotidianità nella poesia di Ron Padgett, a La Controra di Musicultura

La Controra di Musicultura è, come di consueto, anche poesia. Ron Padgett, al Cortile del Palazzo Municipale, giovedì 14 giugno ha proposto al pubblico l’opera di una vita, dialogando con il suo traduttore dall’italiano, Damiano Abeni, e con Ennio Cavalli.

Il poeta americano, voce primaria della seconda generazione del gruppo artistico d’avanguardia della New York School, ha all’attivo numerose raccolte poetiche e, nel corso della sua brillante carriera, ha ricevuto molti riconoscimenti, fra i quali ricordiamo la Frost Medal, conferitagli proprio quest’anno dalla Poetry Society of America. Ha inoltre collaborato col regista Jim Jarmusch nella sua ultima pellicola “Paterson”, scrivendo le poesie per il protagonista del film. Durante l’evento che si è tenuto a Macerata, si è assistito ad un reading a due voci: insieme ad Abeni, Padgett ha letto i suoi versi, in doppia lingua, colmi della bellezza che si può percepire nella nostra quotidianità, la stessa in cui sono custodite l’intimità e la spontaneità dei gesti e delle parole di tutti noi.

Ha lavorato nell’ultimo film del regista Jim Jarmusch “Paterson”. Com’è stato vedere le sue poesie, dalla pagina scritta, proiettate sul grande schermo? 

È stato un grande onore, oltre che un’esperienza fantastica, che mi è piaciuta tantissimo. Non mi era mai capitato di sentire le mie poesie in un’opera cinematografica, tra l’altro così importante. Nel film compaiono alcuni testi che avevo già scritto in precedenza, altri invece composti per l’occasione; è impossibile distinguerli, perché sono perfettamente omogenei. Quando Jim mi ha chiesto di scriverne di nuovi, però, all’inizio ho rifiutato: sarebbe stato un lavoro troppo impegnativo e tanta sarebbe stata la pressione. Subito dopo, invece, mi sono messo al lavoro. È stato naturale, anche perché io e lui siamo amici da molti anni.

Lei è uno dei poeti più influenti della New York School. Cosa ha significato questo movimento artistico nel panorama letterario americano? 

È il nome che gli hanno dato, New York School. In realtà non era una scuola, né un movimento, ma semplicemente un gruppo di amici. I primi che ne hanno fatto parte sono John Ashbery, Kenneth Koch, Frank O’Hara, James Schuyler. Poi c’eravamo io e altri poeti più giovani, molto influenzati dagli intellettuali di quella corrente. Non spetta a me dire quale sia stato l’impatto di questo comitiva sulla poesia americana, ma so che in ogni caso ha avuto una gran rilevanza a livello letterario.

Il numero dei lettori di poesia sta attualmente diminuendo. Qual è la ragione, secondo lei? E quale, in questo momento, il ruolo dell’arte poetica nella società?

In realtà devo dire che in America, in questo periodo, la poesia ha una visibilità sempre maggiore persino in tv, nonostante rimanga comunque un genere di nicchia. Per rispondere alla domanda, dovrei essere come un dio e tenere dunque le fila di quello che succede sulla terra.

Non è soltanto un poeta, dato che lavora anche come traduttore dal francese. Che ruolo ha avuto la poesia europea sullo sviluppo di quella americana? 

La poesia europea ha avuto una grandissima influenza soprattutto su certi autori americani, come quelli che ho nominato prima: John Ashbery, Frank O’Hara, Kenneth Koch, James Schuyler. A volte riusciamo a leggere le opere che arrivano dall’Europa direttamente in lingua originale, altre volte dobbiamo ricorrere alla versione tradotta. Uno dei poeti più importanti per Kennet Koch è stato, ad esempio, Ariosto. Poi Garcia Lorca, Apollinaire, Rilke, Majakovskij e molti altri: la lista di importanti intellettuali europei è lunga.

Musicultura è un festival che promuove la canzone d’autore. Pensa che la poesia e la musica siano così distanti o possano andare di pari passo? 

Sì, potrebbe assolutamente capitare che vadano di pari passo anche se, secondo me, una perfetta fusione tra l’arte musicale e quella poetica sia molto complessa da mettere in atto. In Gran Bretagna, durante il periodo elisabettiano, Thomas Campion, essendo sia poeta che musicista, univa queste sue attitudini, componendo dei brani. Così capitava anche in Francia. Attualmente, un esempio di questa commistione di generi si può notare in Bob Dylan. In ogni caso credo che l’ideale sarebbe riuscire a realizzare un qualcosa che bilanci gli elementi prettamente poetici, con quelli musicali.

Musicultura 2018: in onda su Radio1 Rai lo special dedicato alle tre serate delle Sferisterio

Rai Radio1 proporrà venerdì 22 giugno a partire dalle ore 21, uno speciale con il meglio delle note ascoltate sul palco dell’Arena Sferisterio di Macerata in occasione di Musicultura 2018. Le serate, condotte da Gianmaurizio Foderaro, Metis Di Meo e John Vignola, hanno visto alternarsi alcuni tra i nomi più illustri della canzone italiana ed internazionale. Così, dopo il boom di visitatori per le dirette su Facebook attraverso i canali di Rai3, Radio1, Musicultura e Sos Italia, domani sera si potranno riascoltare le performance degli otto vincitori del concorso a cui si aggiungeranno le voci di Malika Ayane, Brunori Sas, Mirkoeilcane, Procol Harum, Sergio Cammariere, Lo Stato Sociale e Willie Peyote. Uno spazio particolare sarà dedicato a Davide Zilli, emiliano che con la sua ‘Coinquilini’ si è aggiudicato l’edizione 2018 di Musicultura precedendo Daniela Pes, Marco Greco e Pollio.

“Ci siamo, quello di Radio1 è il secondo step che segue la diretta social che ha garantito – grazie a Rai3, Rai Radio1, Sos Italia e Musicultura – una ricaduta davvero importante per ciò che abbiamo proposto nell’Arena Sferisterio. – ha dichiarato il Direttore Artistico di Musicultura Piero Cesanelli – Con Davide Zilli abbiamo confermato in pieno ciò che Musicultura si è sempre prefissata:  proporre una canzone popolare ma intelligente e per nulla retorica. Fin d’ora stiamo immaginando l’edizione numero 30 di Musicultura e lo stiamo già facendo con i nostri partner storici a partire dalla Regione Marche, il Comune di Macerata e, naturalmente la Rai che ci ha seguito anche quest’anno con attenzione e professionalità. Sono molto curioso dell’impatto che Musicultura avrà questa estate su Rai3 che ci ha accolto con grande entusiasmo”.

INTERVISTA. Dori Ghezzi a La Controra: “Fabrizio ha avuto ragione nel credere a Musicultura”

Nonostante sia così semplice nella forma, “Lui, io, noi” è un titolo per nulla scontato; queste tre parole, infatti, racchiudono tre mondi, diversi ma intrecciati. L’autrice è, assieme a Giordano Meacci e Francesca Serafini, Dori Ghezzi, il cui primo accorgimento, scrivendo il libro, è stato quello di non dipanare una tale aggrovigliata matassa di rapporti umani ma, al contrario, lasciarne intatta la bellezza e la complessità.

Tra le pagine rivive un grandissimo uomo che ha significato tanto per molti, non solo per chi con lui ha condiviso i momenti più importanti: Fabrizio De André è stata una figura di riferimento per intere generazioni e continua ad esserlo, sulla scia dei valori che ha sempre vissuto, prima che cantato. Di questo ci parla, con una tenerezza luminosa, Dori Ghezzi, la sua straordinaria compagna.

“Lui, io, noi” è una raccolta degli incontri e dei momenti più significativi della vostra vita insieme, scritta con Giordano Meacci e Francesca Serafini, gli sceneggiatori del film “Principe Libero”. Come è nata l’idea di realizzare un libro a più voci?

Non è nata da me, come non è stata una mia idea la realizzazione del film; per anni non ho voluto approcciarmi ad opere del genere. Tuttavia, quando mi sono trovata di fronte Francesca e Giordano, mi sono convinta che era il momento per farlo e che avevo trovato le persone giuste. Insieme abbiamo parlato del libro dopo il film, dal quale alcuni anni fa è partito il progetto.

Dopo l’uscita del film “Principe Libero”, oltre ai tanti apprezzamenti, sono state espresse diverse perplessità su quello che non era stato raccontato. Considerato che, naturalmente, in una produzione del genere tagli e leggeri adattamenti sono inevitabili, quale scena, nel ricordo di Fabrizio, sceglierebbe di girare, immaginandosi lei dietro alla macchina da presa?

Ho sposato questo tipo di film per far conoscere alla gente il Fabrizio giovane e creativo del primo periodo della sua vita, nonché la sua formazione. Mi è mancata molto la sua parte fanciullesca, quando da bambino viveva a Revignano D’Asti, in campagna. Proprio questa sua fase ha giustificato tutte le decisioni che ha preso successivamente, come la scelta di abitare in Sardegna; purtroppo non è stato possibile mostrare questo periodo della sua infanzia, nonostante fosse già presente nella sceneggiatura. Il resto, soprattutto quel taglio a fine anni ’80, è stato voluto, anche perché è da lì che comincia il momento più noto della vita di Fabrizio. È stata fatta una scelta drastica, poiché non è stato possibile prendere tutto in considerazione: puntare sulla sua attività creativa o sul suo essere uomo, sulla sua umanità.

Ironicamente Fabrizio diceva che avrebbe voluto vivere come un moderno Oblomov, il personaggio letterario ottocentesco, celebre per la sua indolenza. Voleva così rimarcare la sua pigrizia-attiva che lo portava a chiudersi in camera per ore, circondato dalle letture più disparate. È vero che in questi momenti appuntava citazioni e suggestioni su fogli sparsi, e che quelle diventavano poi le sue canzoni?

È vero, lo ha sempre fatto. Quando aveva l’urgenza di memorizzare qualcosa, a prescindere da dove si trovava, la prima cosa che gli capitava sottomano diventava la sua pagina. Così ho trovato molti suoi appunti, scritti dove capitava. Ho cercato di raccogliere il possibile, perché per me era prezioso tutto di Fabrizio. Per quanto riguarda Oblomov, posso dire che mi sento anch’io come lui: ognuno di noi, proprio perché ha una vita sempre più convulsa, quando è a casa ha bisogno di lasciarsi andare, magari sul letto; così capitava a lui, che rimaneva lì ore e ore. Non tutto quello che scriveva in questi momenti rientrava comunque nelle sue canzoni. Magari in qualche caso erano scritti mirati, perché stava già lavorando su un tema; altre volte erano semplicemente delle riflessioni istintive riguardo ciò che stava leggendo.

Lei si è spesa, anche attraverso la Fondazione Fabrizio De André, per divulgare e far conoscere la figura e la poetica di Fabrizio. Anche in considerazione dell’anniversario dei 20 anni dalla sua scomparsa, quali sono i prossimi progetti della fondazione?

Non ci consideriamo artefici, come fondazione, di aver mantenuto in vita Fabrizio, perché lo ha fatto semplicemente lui, da solo. Spesso seguiamo soltanto delle iniziative che altri ci propongono. Ovviamente per il ventennale dalla sua scomparsa sono previste alcune manifestazioni in tutta Italia. Quello che mi colpisce maggiormente però è vedere come l’11 gennaio, il giorno del compleanno di Fabrizio, nascano nelle maggiori piazze italiane degli incontri spontanei durante i quali si canta e si suona per ore in sua memoria. Io non ho mai voluto partecipare a questi progetti per non interrompere la loro magia.

Fabrizio fu uno tra i primi firmatari del Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura, allora Premio Città di Recanati. Cosa lo spinse ad aderire a quel nuovo progetto? Ci racconta un aneddoto di quelle giornate a Recanati? Un’ultima curiosità: Leopardi era tra i poeti amati da Fabrizio?

Considerando che Fabrizio era sempre molto schivo, lui deve aver nutrito una grande fiducia per il nuovo premio che stava nascendo. Ha avuto ragione nel credere a Musicultura, un festival importante per l’Italia, che ha dato inizio alla ricerca di talenti orientati anche sull’aspetto letterario della canzone. Mi ricordo che ne ero anch’io coinvolta in prima persona, perché quando arrivava questa “montagna” di pezzi da ascoltare, lo facevamo insieme per giornate intere. Per quanto riguarda la poesia, diciamo che era più orientato verso quella francese, anche se sicuramente apprezzava altrettanto i grandi della letteratura italiana, come Leopardi.

INTERVISTA. Sergio Cammariere a Musicultura 2018: un grande “cantautore piccolino”

“Cantautore piccolino confrontato a Paoli Gino”: si definisce così in un suo brano Sergio Cammariere, riconoscendosi come allievo di una  scuola cantautorale italiana, quella genovese, che annovera nomi celebri, come Fabrizio De André, Luigi Tenco, Bruno Lauzi e Gino Paoli, con il quale ha collaborato e suonato in varie occasioni.

Artista raffinato e aperto anche a suoni internazionali, dopo aver composto molte colonne sonore per svariati registi, pubblica nel 2002 il suo primo disco, “Dalla pace del mare lontano”. Seguono poi numerosi lavori: “Cantautore piccolino”, “Carovane” – per ricordarne alcuni – “Piano”, del 2017, un album incentrato, appunto, sulla sola melodia del pianoforte, senza intromissione della voce. In occasione della sua partecipazione a Musicultura 2018, Cammariere parla di sé e della sua musica con la redazione Sciuscià.

Prendiamo in prestito le parole di un suo testo: “tutto quello che un uomo” come lei ha vissuto nella sua carriera, con quali parole si potrebbe descrivere?

Con le stesse parole che ho utilizzato nelle mie canzoni. “Tutto quello che un uomo sognare potrà”: tutto è partito da un sogno che si è avverato. È stato qualcosa di straordinario. È accaduto che, dopo tantissimi anni di gavetta, a 42 anni mi sia trovato a Sanremo a cantare questa bella canzone.

La sua musica si apre a sonorità internazionali; ci sono degli elementi musicali di altri paesi che le piacerebbe sperimentare e che attualmente la incuriosiscono?

Certamente. Ho realizzato già sette album da cantautore e tante colonne sonore; mi piace molto mettermi alla prova. Voglio ricordare un disco del 2009 che è stato molto sperimentale: si chiamava “Carovane”; in quel lavoro ho coinvolto, oltre alla mia famiglia del jazz, anche dei musicisti indiani con il sitar e le tabla, ai quali si è aggiunta poi anche l’orchestra d’archi. È un progetto che include sonorità molto particolari: la sperimentazione per i creativi è fondamentale, perché grazie ad essa è possibile conoscere sentieri nuovi e linguaggi diversi per comunicare l’anima.

Il suo ultimo album, “Piano”, è puro suono ed esprime il rapporto profondo tra lei e il pianoforte; è un gesto d’amore verso il potere riflessivo della musica, dunque. Come nasce l’idea di pubblicare un lavoro solo strumentale?

L’idea è partita tanti anni fa: la mia amica Maria Sole Tognazzi mi chiese dei pezzi strumentali per il suo film “Ritratto di mio padre”, dedicato a Ugo Tognazzi. Così nel 2011 ho iniziato a scrivere dei brani con l’accompagnamento del solo pianoforte. Poi altri registi esordienti mi hanno chiesto altre musiche, che ho composto negli anni successivi. A mano a mano si è formata una scaletta di 30 singoli e tra questi ne ho scelti 16 che sono entrati a far parte di “Piano”. Non è quindi un disco nato negli ultimi 3 mesi, ma è un album pensato in sette anni, che ha dunque avuto una lunga incubazione. Sono contentissimo di esprimere attraverso questi pezzi la parte più profonda di me, perché mi sono messo veramente a nudo, accompagnato dal mio strumento: senza voce, senza parole.

“Cantautore piccolino confrontato a Paoli Gino”, cantava qualche tempo fa in una sua canzone; poi però ha duettato con Paoli nel brano Cyrano e insieme avete fatto diversi concerti. Quanto ha influito la musica del maestro sul suo percorso artistico? Com’è nata la vostra collaborazione?

Sì, il nostro prossimo concerto sarà il 25 giugno al Teatro Petruzzelli di Bari. La musica di Paoli ha influito tantissimo, perché lui è un grande maestro, un patriarca ed è un rappresentante della grande scuola genovese. Io e Gino nei nostri spettacoli omaggiamo questo panorama artistico e i grandissimi cantautori che ne hanno fatto parte: suoniamo dei brani di Tenco, di Bindi, di Lauzi e anche di Endrigo, che sono stati dei grandi patriarchi della canzone italiana. Paoli lascerà nel firmamento della musica mondiale almeno dieci hit di successo, come La gattaSapore di saleUna lunga storia d’amore e Senza fine. La nostra collaborazione è nata perché ho incontrato 4 anni fa il suo manager, Aldo Mercuri, che poi è diventato anche il mio. Era un ex musicista di Gino, suonava il basso; adesso invece è diventato il nostro agente.

Quello di oggi è un ritorno, perché più di dieci anni fa si è già esibito sul palco di Musicultura. Ci vuole raccontare com’è stata quella esperienza?

Ogni volta che torno allo Sferisterio provo sempre una bella emozione. Prima di salire sul palco sono assai preso e ansioso. Non so perché mi viene in mente questo aneddoto: ricordo che quando mi sono esibito per la prima volta a Musicultura, con me c’era anche Fiorello; mi lanciò una bottiglietta d’acqua e io non riuscii ad afferrarla al volo. Credo che l’Arena abbia un’atmosfera molto particolare e suggestiva.

INTERVISTA. Ilaria Graziano & Francesco Forni a Musicultura 2018: il racconto della loro musica

Venerdì 15 giugno in Piazza Cesare Battisti, Ilaria Graziano & Francesco Forni si sono esibiti in pubblico per l’evento “Dal blues alla canzone d’autore andata e ritorno”; il duo napoletano, che vanta tre album all’attivo e moltissimi live in Italia e all’estero, in occasione de La Controra di Musicultura ha presentato alcuni brani dell’ultimo disco, “Twinkle Twinkle”.

La storia di Graziano e Forni si è incrociata con quelle di altre persone, di luoghi e di culture differenti; le esperienze dei due artisti hanno così caratterizzato la loro musica, che risente di influssi e sonorità internazionali e che è conosciuta anche per la sua popolarità acquisita lavorando per alcuni film di successo, come L’arte della felicità” di Alessandro Rak e “Gatta Cenerentola”, diretto anch’esso da Rak, insieme a Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone. La redazione di Sciuscià li ha incontrati per un un’intervista.

Ilaria e Francesco, avete intrapreso un percorso professionale in cui sono protagonisti generi differenti e sonorità internazionali. La complicità e il sostegno reciproco giocano un ruolo decisivo nella vostra collaborazione. Mentre lavorate ad un nuovo progetto, in che modo decidete di impostarlo?

Ilaria: Impostiamo tutto il nostro lavoro sulla sintonia, sulla complicità e sulla fiducia che contraddistinguono la nostra collaborazione. Ci approcciamo in modi differenti verso la composizione dei brani, perché scriviamo in modo diverso; l’uno però completa l’altro. Cerchiamo di contaminare le nostre canzoni con l’individualità e l’intimità di ognuno di noi.

Molti dei vostri brani sono parte della colonna sonora di film di successo. Quali sono le necessità di un artista che si approccia alla scrittura di brani, in previsione di una collaborazione cinematografica?

Francesco: Abbiamo lavorato tanto per il cinema e per il teatro, soprattutto separatamente. Ci hanno richiesto dei brani da noi già incisi e presenti nei nostri dischi, che poi sono diventate colonne sonore di film. Nei nostri progetti c’è una forte componente visionaria: quando realizziamo le canzoni, proviamo ad accostare la musica alle immagini. È nata in questo modo, ad esempio, la colonna sonora di “Gatta Cenerentola”.

È uscito da poco il vostro ultimo album concepito in tour, “Twinkle Twinkle”: è un vero e proprio viaggio ricco di suoni e immagini. Qual è stato l’aspetto più divertente nella realizzazione del disco?

I: Per poter realizzare questo disco, ci siamo dovuti fermare durante il tour; poi abbiamo deciso di lavorare in posti sempre diversi, ritrovandoci in luoghi meravigliosi, immersi nella campagna e isolati dal mondo. È stata un’esperienza particolarmente intensa.

F: I nostri tre dischi sono caratterizzati da suoni che si differenziano tra loro; nel terzo album, ad esempio, abbiamo scelto delle sonorità nuove. Durante la fase di scrittura e di creazione dei pezzi, capita spesso di sperimentare un qualcosa di innovativo. In “Twinkle Twinkle” è presente unicamente il pianoforte, perché lo abbiamo trovato nella casa in campagna dove siamo stati ospiti per la sessione di cui parlava Ilaria.

La vostra carriera musicale vi ha portato a esibirvi in tutto il mondo, fino ad arrivare in Canada. Quali emozioni si provano nel sapere che la vostra musica è riuscita ad arrivare oltreoceano?

I: Tutto è nato dal desiderio di scrivere delle canzoni utilizzando linguaggi diversi, quelli che sentiamo più nostri; è stato naturale e semplice creare dei suoni nuovi per le canzoni pubblicate nel nostro disco; un progetto che è stato apprezzato anche a livello internazionale. Chiaramente per noi è emozionante vedere che un pubblico straniero senta e ammiri la musica italiana. Gli stranieri sono attenti all’aspetto melodico della parola, oltre che al suo significato.

F: Scrivere testi in lingue diverse è stato sorprendente, anche perché è stato un utile per relazionarci con altri paesi; il legame vero lo abbiamo avuto scrivendo in italiano. Misurarci con il pubblico è stato per noi formativo. Essere uno straniero all’estero ci ha consentito di vedere il nostro Paese con uno sguardo diverso.

Da 29 anni Musicultura si pone, tra i suoi obiettivi, quello di promuovere nuovi artisti della canzone d’autore; quali sono gli aspetti che vi incuriosiscono maggiormente quando ascoltate giovani proposte artistiche?

I: A prescindere dal genere, quando ascolto dei nuovi artisti cerco la folgorazione e l’identità, che sono sempre più difficili da preservare. Mi emoziona trovare un aspetto della musica che sia innovativo e diverso, rispetto ad altri già sperimentati.

INTERVISTA. Mark Harris, al pianoforte e con i dischi dei grandi artisti a La Controra di Musicultura 2018

Lunedì 11 giugno, in occasione de La Controra, Mark Harris ha intrattenuto il pubblico di Musicultura rivelando le sue testimonianze sulla canzone d’autore italiana.

Durante l’incontro, l’artista americano ha svelato tanti aneddoti sui protagonisti di alcuni degli album omonimi più di successo, gli stessi che hanno rappresentato un punto di svolta e di rinascita per artisti come Finardi, Jannacci, Gaber, De Andrè, solo per citarne alcuni. Harris vanta una brillante carriera: un percorso musicale, il suo, iniziato in America e che negli anni è proseguito in Italia, dove attualmente il musicista vive. È produttore, cantante, arrangiatore e ha lavorato con i più grandi nomi della musica italiana e internazionale; ha rilasciato, alla redazione di Sciuscià, questa intervista.

Ha vissuto tra America e Italia abbracciando la musica nei suoi vari generi; ha collaborato con grandi artisti internazionali, ma anche italiani, tra cui De Andrè, Bennato, Gaber, Jannacci, Daniele e molti altri. Qual è stato il suo primo incontro artistico in Italia?

La prima volta che ho lavorato in Italia è stato con Alan Sorrenti, in sala d’incisione; ci siamo conosciuti grazie ad un amico musicista che era stato chiamato per un progetto a cui poi ho lavorato io. Successivamente ho collaborato con Tony Esposito, nel suo primo disco. Da lì a poco c’è stata la mia esperienza con i Napoli Centrale. Devo dire però che il primo cantante che ho incontrato in Italia è stato Little Tony, nel 1967: da bambino vivevo in una casa sopra ad una trattoria e nei dintorni lui stava girando un film. Gli ho chiesto un autografo, dopo aver saputo chi fosse.

Il percorso di Musicultura, sin dagli esordi, si è intrecciato con quello di Fabrizio De Andrè, primo firmatario del comitato artistico di Garanzia. Avendo lavorato con Faber, vuole raccontarci un momento vissuto insieme? Com’è nata la vostra collaborazione?

Ho conosciuto Fabrizio in occasione della registrazione del retro del 45 giri “Una storia sbagliata” su Pasolini. Sul retro dell’album c’era un pezzo dal titolo Titti. Ci siamo trovati sin da subito. Sono tante le storie da raccontare, sicuramente troppo lunghe.

La musica sta attraversando un periodo in cui è sempre più frequente l’uso dei sintetizzatori e si ricorre ai suoni elettronici. Cosa pensa a tal proposito?

Sono stato uno dei primi a utilizzare i sintetizzatori, lavorando con i computer musical negli anni Ottanta. Già durante gli anni del liceo li usavo per la musica elettronica d’avanguardia. Musica Elettronica Viva era il gruppo formato da Alvin Curran e da diversi compositori americani e faceva cacofonia elettronica; io nel frattempo mi divertivo in mezzo a loro. All’epoca frequentavo anche il sassofonista Maurizio Gianmarco e altri musicisti della scena romana. Mi piace lavorare con i sintetizzatori, però da un po’ di anni preferisco suonare il pianoforte. Non sopporto l’uso improprio di batterie elettroniche e correttori di voce, perché credo che la musica va suonata in diretta.

Riguardo l’attuale scena musicale, c’è un artista emergente che reputa particolarmente interessante? Quali sono i musicisti che sta ascoltando in questo periodo e perché?

Tendo ad ascoltare le cose che mi sono sempre piaciute. Ogni tanto sento qualcosa che m’interessa. Mi piace scoprire su YouTube i brani di giovani artisti, considerando che ci sono tante proposte musicali interessanti. La discografia non sta attraversando un momento felice, soprattutto per ciò che interessa il guadagno. Questo è un discorso che riguarda sia i vecchi, che i nuovi musicisti. C’è anche una parte consistente della cosiddetta “musica finta”, che possiamo definire non nutriente; in ogni caso stiamo vivendo un progresso un progresso in ambito artistico e le cose vanno avanti.

Sono tanti gli artisti che ogni anno si esibiscono sul palco di Musicultura e tutti loro, pur avendo alle spalle carriere differenti, hanno in comune la passione per la musica. Che ruolo ha al giorno d’oggi il mestiere del cantautore?

Il ruolo della canzone d’autore è cambiato molto; credo che la musica di protesta di un certo tipo non sia intrattenimento puro e semplice, anche se potrebbe avere questa funzione. Ci sono alcuni artisti, come Caparezza, che scrivono testi pungenti e belli. Le canzoni, dal punto di vista testuale, non sono cambiate poi così tanto. Anche i rapper trattano temi di protesta e argomenti che però sono meno rilevanti.

INTERVISTA. Giampiero Mughini, ospite a La Controra di Musicultura 2018: “Bisogna migliorarsi”

Giornalista, opinionista e scrittore: Giampiero Mughini è un personaggio eccentrico ed eclettico che riesce a coniugare diversi interessi, come la politica, l’arte e il calcio.

Alla fine degli anni ‘60 Mughini parte dalla sua Sicilia e approda a Parigi dove vive un suo personale ‘68, trama del libro “Era di maggio. Cronache di uno psicodramma”, presentato ieri alla Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.

La redazione di Sciuscià l’ha incontrato per un un’intervista.

Si è autodefinito un “provocatore”. Pensa sia un aspetto intrinseco dell’opinionista? Cosa significa per lei provocare?

No, mi definiscono tale ma io non credo di esserlo; dico cose assolutamente ovvie, che non corrispondono alle idee della maggioranza delle persone, soprattutto la maggioranza dei cretini. Provocare significa scompigliare un po’ le carte in tavola: a chi è abituato a pensare in una certa maniera, io gli mostro il mio modo di vedere le cose, così lui si sforza di capire. Bisogna migliorarsi perché le idee, nel corso della vita, cambiano; poi c’è gente che impara una cosa a vent’anni e ci crede per sempre.

A proposito del suo libro “Un disastro chiamato Seconda Repubblica”, pochi giorni fa abbiamo assistito alla nascita di un governo formato da due forza politiche opposte, che non erano mai arrivate al Colle prima d’ora. Nel dibattito tra chi afferma che sia iniziata una “Terza Repubblica” e chi si vede ancora della Seconda, lei in quale pensiero si riconosce?

In effetti le cose sono cambiate molto dalla Seconda Repubblica, innanzitutto per il fatto che c’è un elemento politico nuovo rappresentato dal Movimento Cinque Stelle; io non ho votato questo partito e non l’avrei mai fatto. In ogni caso penso che si possa parlare di una Terza Repubblica; staremo a vedere cosa ci riserverà il futuro. Gli italiani ora devono essere attenti su ciò che accade nel nostro Paese, che sta attraversando una situazione difficile.

A La Controra ha presentato “Era di maggio. Cronache di uno psicodramma.” A cinquant’anni dal ’68, cosa non abbiamo saputo preservare dello spirito di quelle lotte e rivoluzioni sociali e politiche? In momento storico in cui la libertà di espressione viene sottoposta sempre più alla censura, come sta accadendo in Turchia, in che modo si potrebbe reagire?

Non è esatto metterla così, perché la situazione è troppo cambiata; il Sessantotto è entrato nelle ossa di tutti quelli che ebbero vent’anni in quel momento storico. Noi comunque viviamo in un paradiso, perchè in Russia, in Turchia, in Venezuela, in Iran e in mille altri posti la libertà di espressione è un lusso. In Cina c’è gente condannata ad anni e anni di prigione per aver espresso la propria opinione, per aver scritto un articolo o aver distibuito un volantino. Ognuno di noi è impotente. È importante preservare le libertà che abbiamo in Italia. Naturalmente, cosa molto diversa dalla libertà di espressione, è quellla di insulto, di cui ne sono una testimonianza i contenuti pubblicati sui social network, verso i quali io ho moltissime riserve. Capisco però che le nuove generazioni non riescano a fare a meno delle nuove tecnologie.

A Musicultura i cantautori raccontano, attraverso l’arte della musica e della parola, la società in cui vivono. In che modo un artista si può definire rivoluzionario?

Un artista è sempre rivoluzionario quando fa qualcosa che non è mai stata fatta prima; una canzone, uno spettacolo teatrale o un film costringe il pubblico ad accettare il cambiamento e ad adattarsi. Ognuno apporta un elemento nuovo nel mondo artistico: la rivoluzione deve intendersi in questo senso, come un trasformazione inedita. Un regime non si mostra mai come un’innovazione.

INTERVISTA. A La Controra di Musicultura 2018 Mimmo Locasciulli: una vita tra arte e scienza

Mimmo Locasciulli è medico e cantautore. Era solo un bambino quando si avvicinò alla musica, una passione ereditata dalla sua famiglia. Qualche anno più tardi invece inizia a studiare medicina.

Sono proprio questi due interessi a essere al centro del suo ultimo libro autobiografico, intitolato “Come una macchina volante” e presentato a La Controra di Musicultura assieme al poeta Ennio Cavalli. Tra curiosità personali e riflessioni sulla sua carriera musicali, in questa intervista ripercorriamo il percorso artistico del cantautore abruzzese.

“Come una macchina volante” è una riflessione sui momenti più significativi della prima parte della sua vita. Come mai ha deciso di realizzare un progetto del genere?

Premetto subito che non avevo intenzione di scrivere un’autobiografia; volevo raccontare quali sono stati i passaggi determinanti che mi hanno portato a desiderare di perseguire la carriera scientifica e di fare il musicista, fin da bambino, da quando in casa arrivò un pianoforte. La mia famiglia, di generazione in generazione, ha coltivato questi interessi; così sono cresciuto con la passione per la musica e per la scienza.

La musica e la medicina sono quindi le sue più grandi passioni: qual è la canzone che ha su di lei un effetto “curativo”?

La musica mi aiuta moltissimo. Io spesso canto per me, più che per il pubblico. Ad esempio, durante i concerti ho una scaletta di 25 pezzi, di cui 15 sono previsti, già stabiliti, mentre i restanti vengono improvvisati al momento. I miei musicisti questo già lo sanno: quando comincio con delle note, loro vanno avanti e mi seguono. I miei brani e quelli degli altri hanno dunque su di me un effetto curativo.

Probabilmente la sua cifra artistica è la sperimentazione. Tra tutti i generi musicali a cui si è avvicinato, qual è quello che sente più vicino?

Tutti quanti. Ho studiato la musica classica, che amo tuttora; ho avuto sconfinamenti nel blues e nel rock. Mi piace anche il folk, la canzone d’autore. Poi ho lavorato ad alcuni progetti anche con Frankie hi-nrg mc, che è un rapper incredibile. Sono attratto da ogni forma musicale. Per me i generi musicali possono essere belli o brutti: i primi sono quelli che ti lasciano qualcosa dentro, che ti fanno ricordare, amare, detestare, che suscitano quindi delle sensazioni. Non amo invece la musica di sottofondo, ad esempio quella che mettono negli ascensori, nei supermercati, perché è detestabile.

Stiamo assistendo ad una fase della discografia in cui la promozione della musica avviene tramite piattaforme social e talent. Musicultura vuole da sempre rafforzare la relazione diretta tra l’ascoltatore e il cantautore. Qual è il ruolo dello spettacolo live? E il pubblico come vive il rapporto con l’artista?

Ho sempre pubblicato dischi per avere poi la possibilità di fare dei concerti. Il bello del lavorare ad un album non avviene in sala di registrazione, che è un momento pieno di attese e di cose noiose; è proprio incontrando il pubblico che arriva la liberazione. L’importante è essere consapevoli del valore dell’esibizione dal vivo di fronte ad una platea che è lì per te. Le persone ti ascoltano e al tempo stesso ti danno la giusta carica: è questo un aspetto bello del mio mestiere, ovvero il confronto con la gente e le risposte che questa riesce a darti.

Ha una lunga carriera alle spalle, nel 2016 ha celebrato i 40 anni di carriera con il disco “Piccoli cambiamenti”. Ci spiega il perché di questo titolo?

Nel corso della mia vita sono stato testimone di tante trasformazioni in ambito musicale, politico e sociale. Dai Beatles in poi la scena artistica ha cambiato fisionomia. Il rock e il punk hanno definito una visione del mondo che era più simile alla realtà; prima invece le canzoni erano edulcorate. La musica ha aiutato, sempre di più in tutti questi anni, a capire come andavano le cose; ha dunque rappresentato, nella sua storia, importanti cambiamenti storico-politici. Oggi purtroppo un brano viene concepito per la sua fruizione e per il proprio consumo. La mia storia musicale invece non è fatta di grandi ma di piccole evoluzioni, che non hanno mai stravolto la mia riconoscibilità artistica. È per questo motivo che ho deciso di dedicare questo disco ai piccoli cambiamenti che ho vissuto. È stato un po’ come festeggiare un compleanno insieme ai miei amici, dal momento che con me hanno collaborato colleghi che da una vita mi sono vicini, come Luciano Ligabue, Francesco De Gregori, Enrico Ruggeri e altri.