Musicultura 2017 in diretta televisiva su Rai 1 e radiofonica su Radio1 Rai

Tutte firmate Rai perché il 25 giugno Rai1 proporrà in diretta la kermesse di Macerata condotta da Fabrizio Frizzi, Radio1 garantirà il suo puntuale supporto a cui si aggiungeranno i ‘social’. “Rai1 apre le porte a Macerata e alla musica popolare e d’autore contemporanea – afferma Andrea Fabiano, Direttore di Rai1 – e lo fa con la passione e l’impegno che da sempre ci spingono a lavorare nell’ottica e nello spirito del Servizio Pubblico. A tutti i partecipanti auguro grande fortuna. Ai telespettatori va l’invito a godere di una serata di bella musica, davvero particolare”. Gli fa eco Andrea Montanari, Direttore di Radio1: ”Anche quest’anno siamo partner di Musicultura, una ‘relazione speciale’ che dura da ben 17 anni. Il primo canale della radio pubblica ha accompagnato giorno per giorno la presentazione degli 8 finalisti, con l’ascolto dei singoli brani all’interno del programma “Radio1 Music Club”, insieme a interviste agli organizzatori e a una serata-evento presso la Sala A di Via Asiago in cui gli stessi finalisti si sono esibiti Live”. Il Presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli è netto: “Non posso che esprimere la doppia soddisfazione per la decisione presa da Rai 1 di effettuare la  diretta di Musicultura, la prima per il riconoscimento verso la manifestazione che ha brillato nel corso dei suoi 28 anni per la  professionalità e correttezza, la seconda perché  questo grande catalizzatore di diffusione che è la televisione, unita a Radio1,  sottolineerà ancora di più la creatività la bellezza e la vitalità della nostra regione.”. E la città di Macerata per Musicultura indosserà il vestito più bello: “Saliamo orgogliosamente a bordo della rete ammiraglia Rai – spiega il Sindaco Romano Carancini – con un nuovo orizzonte: la fiducia verso il futuro e la bellezza della nostra Città che diventa di tutti, su tutte le piattaforme anche con il prezioso supporto di Radio1.” A chiudere, Piero Cesanelli, il Direttore Artistico di Musicultura: “Avere la possibilità di esibirci di fronte  ad un pubblico ancor più numeroso e una grande conquista. Siamo grati a Rai 1 come lo siamo a Radio 1 che ci ‘diffonde’ con grande partecipazione da 17 anni . Musicultura non cambierà le sue finalità valorizzando la genialità compositiva e interpretativa ed onorando la grande tradizione popolare.”

The Stars from the Commitments e Arisa a Lunaria 2017

Il programma completo:

13 luglio FABRIZIO MORO

19 luglio JACK SAVORETTI

27 luglio THE STARS FROM COMMITMENTS

3 agosto ARISA

 

Recanati, Piazza Leopardi (21.30)
Ingresso libero (eccetto data del 19 luglio)

Lunaria, la rassegna estiva ideata e curata da Musicultura e sostenuta dal Comune di Recanati, aggiunge altri due tasselli al cartellone dell’edizione 2017 che si aggiungono ai nomi già annunciati di Fabrizio Moro (giovedì 13 luglio) e di Jack Savoretti (mercoledì 19): The Stars from the Commitments in programma giovedì 27 luglio e Arisa, il cui concerto è atteso per il 3 agosto.

Il 27 luglio Piazza Leopardi farà da scenario ad uno show unico: i protagonisti del leggendario film musicale The Commitments, candidato nell’anno della sua uscita sugli schermi a due premi Oscar e diventato negli anni un vero e proprio cult, raggiungeranno la città leopardiana per uno spettacolo trascinante all’insegna della musica soul.

Lunaria 2017 sarà chiusa dal concerto di Arisa attesa a Recanati giovedì 3 agosto.

Da giovane promessa, la cantante lucana è diventata nel giro di pochissimi anni una piccola certezza nell’olimpo della canzone italiana: un talento cristallino, una voce indiscutibile, da sempre al servizio di brani mai banali che le hanno fatto scalare le classifiche di vendita e vincere le kermesse canore come il Festival di Sanremo.

La particolarità delle proposte artistiche ha da sempre contraddistinto Lunaria come un appuntamento lontano dai classici circuiti dei concerti estivi.

L’ingresso è libero per tutti gli appuntamenti in programma escluso quello in programma il 19 luglio con Jack Savoretti per il quale sono in vendita i biglietti su vivaticket.it, ticketone.com e presso le biglietterie regionali del circuito Amat.

Alessandro Sipolo fra i vincitori di Musicultura 2017

L’artista bresciano pubblica nel 2013 l’album d’esordio “Eppur bisogna andare”, prodotto da Giorgio Cordini, storico chitarrista di Fabrizio De Andrè. Grazie a questo progetto Alessandro si aggiudica il premio Beppe Gentile 2014 come “Migliore Opera Prima”. Nel 2015 esce “Eresie”, il suo secondo disco, impreziosito dalla partecipazione di Taketo Gohara, Alessandro “Finaz” Finazzo (Bandabardò), Ellade Bandini.

L’artista subentra a Simona Severini, esclusa ai sensi del Regolamento in vigore.

Con Alessandro Sipolo gli otto vincitori di Musicultura 2017 sono Lucio Corsi, Nico Gulino, Lovain, Bob Messini, Mirkoeilcane, Francesco Papageorgiou e Francesca Sarasso.

Musicultura 2017: annunciati i vincitori

Sono i vincitori della 28° edizione del concorso, tutti autori delle canzoni che interpretano e la direzione artistica li annuncia al termine di una lunga selezione con audizioni  live iniziata lo scorso anno.

Lucio Corsi di Grosseto con Altalena boy, Nico Gulino di Catania con La musica non passa, Lovain di Taranto con 1, 2, 3, Bob Messini di Bologna con Statistica, Mirkoeilcane di Roma con Per fortuna, Francesco Papageorgiou di Parma con Amo la vita da farmi male, Francesca Sarasso di Vercelli con Non c’incontriamo mai e Simona Severini di Milano con Piccola Elsa.

Tre donne, cinque uomini, la più giovane ha 20 anni, il più “adulto” quasi 60. Otto scommesse artistiche capaci di raccontarsi e raccontare la vita in forma canzone, senza retorica.

Due di loro – Lovain e Nico Gulino – sono entrati nella rosa dei vincitori selezionati dal pubblico al termine di una votazione online durata quasi un mese e che ha coinvolto oltre 40.000 utenti Facebook.

Altri cinque vincitori – Bob Messini, Mirkoeilcane, Francesco Papageorgiou, Francesca Sarasso, Simona Severini, – sono stati invece scelti dal prestigioso Comitato Artistico di Garanzia del concorso, del quale nel 1990 furono fra i primi firmatari Giorgio Caproni e Fabrizio De André e che per questa 28° edizione è composto da Enzo Avitabile, Claudio Baglioni, Luca Carboni, Ennio Cavalli, Carmen Consoli, Simone Cristicchi, Teresa De Sio, Niccolò Fabi, Tiziano Ferro, Max Gazzè, Giorgia, Lo Stato Sociale, Dacia Maraini, Gino Paoli, Enrico Ruggeri, Paola Turci, Roberto Vecchioni, Antonello Venditti, Sandro Veronesi, Federico Zampaglione, Stefano Zecchi.

La scelta spettante a Musicultura è ricaduta su Lucio Corsi, primo tra gli esclusi nella graduatoria del Comitato Artistico.

Per tutto il mese di maggio il CD compilation del concorso distribuito nei negozi di dischi e nei principali digitale stores è stato trasmesso in rotazione radiofonica su Rai Radio 1  all’interno di Music Club, la trasmissione curata e condotta da John Vignola.

Non mancheranno sorprese in note nelle serate finali di Musicultura il 22, 23 e il 25 giugno, l’Arena Sferisterio di Macerata sarà il palcoscenico più bello per alcuni tra i big della canzone italiana e internazionale tra cui Giorgia, Ermal Metal, Enrico Ruggeri con i Decibel, Teresa De Sio,  Barcelona Gipsy balKan Orchestra. Il vincitore assoluto del concorso verrà decretato nella serata finale del 25 giugno direttamente  dal pubblico presente all’Arena Sferisterio  a cui andranno i € 20.000  del Premio UBI – Banca.

Giorgia, Teresa De Sio, Decibel, Ermal Meta ospiti della 28° edizione di Musicultura

Giorgia sarà tra gli ospiti delle serate finali della XXVIII edizione del Festival Musicultura il 22, 23 e 25 giugno all’Arena Sferisterio di Macerata. La Direzione Artistica del Festival ha sciolto le riserve sui nomi dei primi ospiti che saranno protagonisti anche sulle frequenze di Rai Radio1, l’emittente ufficiale dell’appuntamento marchigiano.

“Giorgia ci fa un regalo bellissimo, – dice il Direttore artistico Piero Cesanelli -: manca da un po’ di anni dal palco del festival, ma in realtà lei è di casa a Musicultura, ogni anno ascolta con scrupolo, sensibilità ed entusiasmo le canzoni in concorso, come  membro del comitato artistico di garanzia”

L’artista romana torna a Macerata in un anno di grazia della sua carriera: Oronero, il suo ultimo disco, oltre a contenere uno dei singoli più trasmessi dalle radio nazionali, è stato certificato disco di platino per il 2017 e la tournée che l’ha portata in giro per tutta Italia ha registrato ovunque il tutto esaurito. L’appuntamento con il pubblico di Musicultura cadrà venerdì 23 giugno quando la magia della sua voce sarà accompagnata da un pianoforte e da una chitarra in un inedito set acustico.

Oltre a Giorgia, un’altra esponente femminile di spicco della canzone italiana si aggiunge al cast di Musicultura 2017, Teresa De Sio. Giovedì 22 giugno la cantante napoletana ridarà vita e voce ad alcuni classici della discografia del grande Pino Daniele, tratti dal suo ultimo lavoro discografico, “Teresa canta Pino”, uno degli omaggi più autentici e sentiti al cantautore recentemente scomparso.

Enrico Ruggeri, invece, andrà in scena con i suoi Decibel, il gruppo con cui fece il suo esordio esattamente 40 anni fa. Un ritorno alle origini, senza nostalgia ma all’insegna della musica suonata e di canzoni che sono diventate delle pietre miliari, come Contessa e Polvere. Risponde “presente” all’appello anche Ermal Meta, allo Sferisterio il 22 giugno: a Musicultura non poteva sfuggire la freschezza di una giovane penna della canzone che negli ultimi anni ha anche dimostrato un’autenticità interpretativa che lo ha consegnato ad un meritato successo.

Sempre giovedì 22 giugno sarà la volta della “Barcelona Gipsy balKan Orchestra”, un piccolo concentrato dell’Europa che suona con musicisti ucraini, francesi, serbi, italiani spagnoli, che hanno fatto della musica balcanica un oggetto di instancabile e appassionata esplorazione e di Barcellona la propria patria d’adozione.

I biglietti per le tre serate all’Arena Sferisterio sono ancora disponibili presso la Biglietteria dei Teatri di Macerata, in tutte le biglietterie marchigiane del circuito AMAT e su vivaticket.it

Nel frattempo il concorso è entrato nella sua fase cruciale: le canzoni finaliste continuano in questi giorni ad essere protagoniste della programmazione di Radio1 Rai, su Music Club, presentate da John Vignola. Contemporaneamente la votazione online del pubblico, a cui era affidata la selezione di due degli otto vincitori, si è conclusa con la partecipazione di oltre 40.000 votanti.

Lovain e Nico Gulino hanno raccolto il maggior numero di preferenze accedendo così di diritto alle serate conclusive in programma all’Arena Sferisterio dove verrà assegnato il premio UBI – Banca del valore di 20.000 euro.

La rosa definitiva degli otto vincitori sarà completata da altre sei proposte ad oggi al vaglio prestigioso Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura.

INTERVISTA – L’Indie “made in Marche” di ieri e di oggi a La Controra di Musicultura. Sul palco si incontrano Umberto Maria Giardini ed i Lettera 22

Due differenti voci della musica alternativa italiana alle prese con un racconto sui rapporti fra gli esseri umani.

Umberto Maria Giardini, prima noto con il nome d’arte di Moltheni, ha dal 2012 recuperato il suo vero nome e avviato un originale progetto da solista. Un ritorno alle origini per lui – è nato a Sant’Elpidio a Mare, in provincia di Fermo –, intima e commossa infatti è l’atmosfera che si respira agli Antichi Forni durante la prima serata de La Controra. Con un’acuta ricerca all’insegna dell’incomunicabilità, il cantautore rilegge la sua ricca e variegata produzione da “La dieta dell’Imperatrice” fino a “Protestantesima”, in una suggestiva esibizione con la sola chitarra elettrica che accompagna però l’altro suo potentissimo strumento, la voce. I Lettera 22 invece, gruppo nato a Recanati nel 2010, si è aggiudicato nel 2012 il titolo di vincitore della XXII edizione di Musicultura. Con due album all’attivo, dei quali il secondo ha visto la direzione di Paolo Benvegnù, la band, oggi in una fase di fervida creatività, sceglie ancora il palcoscenico del Festival quale banco di prova per la sua musica. Propone quindi brani inediti che si intrecciano coi già collaudati a formare un vivido racconto della vita di provincia, intessuto di colori ed immagini iconiche e indelebili.

Il risultato è una serata di scoperte e riscoperte che scontorna e definisce il fulcro di un’attitudine, quella marchigiana, da sempre contrassegno di buona musica, originalmente e autenticamente ispirata. Prima del concerto, i Lettera 22 raccontano alla redazione di “Sciuscià” qualcosa di questo progetto, ma anche di altri ancora da realizzare: un fiume di parole favorito dalla cornice del Festival che innesca in loro un’esplosione di ricordi ed emozioni.

Come nasce la collaborazione con Umberto Maria Giardini, che stasera proporrete al pubblico de La controra nell’evento dal nome “Umani e affetti”?

Si tratta di un’opera unica, non immaginata come evento musicale ripetibile ed ideata appositamente per Musicultura. Abbiamo triangolato le distanze geografiche, essendo Umberto Maria Giardini marchigiano come noi. Sono due modi di interpretare un approccio musicale indipendente, fuori dagli schemi, che hanno la stessa base regionale. Hanno storie, vissuti e livelli diversi perché mentre noi siamo emergenti, Umberto Maria Giardini ha una lunga carriera musicale alle spalle. L’idea era quella di riuscire a mettere insieme un filo conduttore. Ci siamo accorti che i nostri testi parlano molto spesso di rapporti umani e la sensibilità di Umberto ha l’umanità nelle sue corde. Ci siamo divertiti ad immaginare cosa potesse succedere in un cortile, che – causa pioggia – diventa un luogo ancora più carbonaro come un seminterrato con gli archi a volta, raccontando storie di umani e di affetti. Aspettiamo di vedere come andrà stasera, a seconda anche della risposta del pubblico, per valutare se questa collaborazione possa avere un seguito.

Come avete già precisato,anche voi provenite dalle Marche. Cosa vi ha dato il vostro territorio, cosa significano le Marche per voi e per la vostra musica?

Fare musica nella provincia non è sicuramente facile. Ed è anche più vero, più sincero, meno filtrato dalle dinamiche interne alla musica. In una grande città c’è un’enorme concorrenza in termini numerici, ma c’è anche una grande omologazione: basta che una band abbia un minimo di successo e molti tenteranno di somigliarle. Certo, la provincia non è un luogo fisico, ma dell’immaginazione, perché non esiste più concretamente – basta che tu abbia una connessione wireless e sei in ogni luogo nello stesso tempo –; essa, più di ogni altra cosa, preserva e favorisce l’idea che il rapporto umano è quello che presiede alla costruzione della canzone. Ciò che invece manca è un polo d’attrazione: di band ce ne sono moltissime e nelle Marche si suona veramente dappertutto, ci sono le scene più diverse e più interessanti – a Castelfidardo, ad esempio, c’è un collettivo che si chiama “Castelfidardo Hardcore Crew” che fa hardcore nella patria della fisarmonica!
Mancano forse i giusti contenitori, che nelle grandi città ci sono. Fortuna Musicultura!

Cosa pensate di condividere con Giardini? Cosa invece vi differenzia?

Sono entrambi approcci musicali non filtrati dalla necessità di diventare piacevoli per l’ascoltatore, seguendo una ricetta che i discografici in genere vogliono vedere applicata, come se a presiedere l’arte – che poi il nostro è piuttosto “artigianato” – ci fosse una formula, un modello. Il bello della sensibilità artistica di Umberto è che è viscerale, incontaminata, non violata dall’eccesso di civiltà, dalle manie, dall’affettazione. È nuda e stasera lo sarà veramente perché suona chitarra e voce. Molto probabilmente quello che suoniamo è figlio di un desiderio di ricerca di un’identità che lui ha individuato e ha ben chiara, mentre noi stiamo tentando di far collimare quattro idee artistiche che a volte differiscono in modo totale, perché – sembrerà una sciocchezza alfanumerica – lui è un individuo che dialoga con le sue profondità dell’anima, noi siamo quattro persone. Una band può in questo senso essere una famiglia, un pessimo rapporto di coppia, una disputa che non si risolverà mai. Questo, quando un gruppo diventa famoso. Ancor peggio quando si tratta di quattro trovatelli che cercano di far collimare il desiderio di far musica con la propria vita. Ciò che ascolterete stasera è figlio di tante battaglie all’ultimo sangue, ma anche – perché c’è anche quello – di amori a prima vista.

Come definireste il genere musicale a cui la vostra musica afferisce?

Coniando un neologismo inesistente – ovviamente non mi prenderanno mai nemmeno come stagista in una rivista musicale (ride, n.d.r.) – direi “Post-pop neorealista”. Raccontiamo cose che ci sono molto vicine, ma il nostro è un pop consapevole del fatto che il pop è morto. Non nel senso nobile di scrivere una bella canzone, ma nel senso di mitologia culturale: non c’è più un brano che identifica una generazione; quando c’è, si sente dietro la mano del burattinaio.

Il mondo evolve in fretta, tra qualche decennio potrebbe rimanere ben poco del panorama musicale odierno e di quello del passato, per noi oggi di riferimento. Se poteste salvare dall’oblio una sola delle vostre canzoni, quale sarebbe?

Continentale, singolo tratto dal nostro ultimo disco “Le nostre domeniche”. È un brano che parla dell’attesa di una primavera immaginaria. Ognuno ha la sua.

Se doveste salvarne una di Giardini, invece?

Splendido amore, che al di là della quasi ovvietà del titolo, ha tutto quello che dovrebbe avere una canzone d’amore. Negli ultimi cinquanta anni si è scritto solo d’amore in Italia, un Paese pieno d’odio. La maggior parte dei brani sono da buttare, mentre questo è uno dei pochi non banali e che commuove quando lo si ascolta.

Qual è, se c’è, il punto di svolta, il giro di boa, che pensate abbia cambiato la vostra carriera?

Sicuramente la collaborazione con Paolo Benvegnù, sia per quanto riguarda la scrittura che l’approccio vocale: ci ha insegnato come scavare negli abissi per la stesura di una canzone, come tirare fuori la voce nel modo giusto per esprimere determinate cose; poi, non meno importante, è il rapporto umano che con lui si è creato.

Cosa avete in cantiere al momento? Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Stiamo scrivendo tanta musica nuova, che proponiamo di volta in volta, come faremo anche stasera.  Con l’entrata nel gruppo di Matteo che ha sostituito Arianna, stiamo vivendo una seconda giovinezza in questo senso. Quando le band si trovano ad affrontare un abbandono è sempre un evento lacerante, in questo caso invece è stato il “click” che ha cambiato il nostro approccio, anche a livello di sensibilità. Fare musica nuova per noi adesso è come respirare e mangiare. Per una band che non ha contratto né agenzia, è difficile poi programmare un disco. I mecenati non esistono più chiaramente, ma sarebbe bello che qualcuno ascoltandoci potesse dire: “questo è un gruppo che meriterebbe di andare avanti”.

Cosa rappresenta Musicultura per voi?

A ripensare allo Sferisterio ancora ho i brividi. L’esperienza di Musicultura ti mette alla prova come band, perché ci si trova a dover prendere necessariamente delle decisioni. Come quando una coppia va a convivere: dal momento che nessuno più se ne torna a casa sua a dormire, se ci tieni lo devi dimostrare, devi chiarire delle cose, devi essere onesto. È un livellatore per tutti i concorrenti e ancor di più se sei originario del posto, perché c’è come un’aspettativa generale, sia che tu partecipi che non partecipi al Festival. Inoltre, è un marchio di garanzia anche quando vai a suonare altrove. Nella nostra biografia, Musicultura rimane al primo posto!

INTERVISTA – Diego Carè torna a Musicultura: a La Controra «io vojo canta’ come so parla’»

L’ultimo giorno de La Controra è stato animato dalla chitarra di Diego Carè, accompagnato dai suoi musicisti Piero Belardinelli (fisarmonica e voce), Fausto Ulissi (chitarra e mandolino) e Mauro Paggi (percussioni). Il percorso musicale di Carè, polistrumentista marchigiano tra i dodici vincitori della VI Edizione dell’allora Premio Città di Recanati, costituisce un esempio importante dei valori di arte e cultura di cui il Festival si fa promotore da ormai ventisette anni.

Nella musica di Diego Carè si fondono i temi tipici della canzone popolare (la vita e l’amore, ad esempio), interpretati in modo del tutto originale attraverso l’uso del dialetto, che conferisce alle note e alle parole un raro senso di leggerezza e fantasia.

Nel 1995 hai partecipato alla VI Edizione del Premio Città di Recanati, di cui sei stato uno dei vincitori. Quale sensazione si prova nel prendere nuovamente parte al Festival dopo così tanti anni?

Poter partecipare a quell’edizione del Festival ha rappresentato per me un’esperienza importantissima perché, oggi come allora, Musicultura costituisce uno dei pochi, se non l’unico concorso musicale in cui l’espressività cantautorale riesce a emergere in modo completo e genuino. Al contrario di Sanremo, dove occorre avere già delle produzioni alle spalle, a Musicultura puoi presentare qualcosa di assolutamente personale, che è nato dalle tue viscere e, se piace, vieni contattato. Quindi, essere chiamato dopo così tanto tempo a completare la già ricca cornice della settimana de La Controra è una nuova spinta a continuare il mio lavoro.

In che modo il Festival si è rivelato determinante – se così è stato – per la tua successiva carriera artistica?

Sì, quel premio si è rivelato fondamentale perché mi confermato che ciò che stavo facendo era giusto e, soprattutto, perché mi ha dato lo stimolo per andare avanti.

“Pagni e ricordi” è un album che si contraddistingue per l’impronta prettamente folkloristica dei testi come della musica. Oggi, quella della canzone popolare è una scelta coraggiosa e assolutamente anticonvenzionale vista la necessità delle industrie della musica di produrre dischi il più possibile commerciabili. Non credi?

In realtà, la commerciabilità di un disco non rappresenta la mia preoccupazione principale. Cerco sempre di fare quel che più mi piace utilizzando spesso anche il dialetto. D’altronde, nella mia canzone Io vojo canta’ affermo proprio questo: “Io vojo canta’ come so parla’ ”.

Saper suonare più strumenti significa disporre di una conoscenza del suono e, in generale, di una visione della musica piuttosto completa. Se, però, dovessi scegliere il tuo strumento “di fiducia”, quello che più ti caratterizza e attraverso cui riesci a esprimere meglio i tuoi sentimenti, quale sarebbe?

La chitarra è sicuramente lo strumento con cui ho più confidenza, perché tutto è iniziato proprio strimpellando la mia chitarra acustica. Inoltre, si tratta di uno strumento veloce e che posso portare facilmente con me, ovunque vada – tant’è vero che ne tengo una nella mia camera e una in macchina.

INTERVISTA – «A Musicultura ho mostrato le coordinate in cui mi trovo attualmente»: Simone Cristicchi racconta al Festival i suoi dieci anni da “cantattore”

Simone Cristicchi, tra gli ospiti di Musicultura 2016, si è esibito durante la serata conclusiva del Festival, portando sul palco dello Sferisterio il suo mondo teatrale. Ha dato un’anticipazione de Il secondo figlio di Dio, ultima fatica teatrale che debutterà il prossimo 23 luglio. Ma non solo: l’artista ha anche duettato con Chiara Dello Iacovo e si è lasciato andare ad una simpatica intervista-doppia con Nino Frassica. Il giorno successivo, poi, a Palazzo Conventati ha raccontato i suoi “10 anni da cantattore”, in una coinvolgente performance fatta di canzoni e racconti: ha riproposto i suoi brani più conosciuti, ha parlato del suo teatro, della sua amicizia con Frassica, dimostrando tutta la sua modestia quando, timoroso che il pubblico in fondo al cortile non lo vedesse bene, ha deciso di sedersi sullo sgabello più alto.

«Rispetto a tanti altri cantanti, credo di avere una marcia funebre in più», scherza Cristicchi, che ha chiuso la settimana de La Controra, accompagnando con la sua chitarra le voci del pubblico sulle canzoni di Sergio Endrigo, grande punto di riferimento del “cantattore”. Proprio in occasione del suo spettacolo a La Controra, Cristicchi, fresco di esibizione all’Arena Sferisterio, ha rilasciato un’intervista per la redazione di “Sciuscià”.

Che emozione è stata salire sul palco dello Sferisterio dopo sette anni dall’ultima volta?

È stato emozionante, perché ho portato sul palco il mio percorso attuale, che è quello del teatro e del musical civile. Il pubblico di Macerata credo abbia seguito questo mio percorso, partito come narratore di storie in forma di canzone, con Studentessa universitaria, la mia “prima pelle”, e continuato con il Coro dei Minatori di Santa Fiora, con cui abbiamo portato la musica popolare sul palcoscenico. Ieri sera ci sono stati 18 minuti di vero e proprio teatro in cui credo che il pubblico abbia visto la coordinata esatta dove io mi trovo attualmente.

Da qualche tempo ormai ti cimenti con grande poliedricità nel mondo del teatro. Simone Cristicchi è un attore rubato alla musica o un cantante rubato alla recitazione?

Mi piace definirmi “cantattore”, perché non mi reputo un attore vero e proprio, racconto storie a mio modo, con una mia cifra stilistica. Non ho mai fatto un’accademia o una scuola di teatro, però ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri: Alessandro Benvenuti e Antonio Calenda, due grandi registi che mi hanno fatto crescere molto come interprete e raccontatore di storie.

In Magazzino 18 parli della tragedia delle foibe come di “una pagina strappata dal grande libro della storia”. Come hai recuperato questa pagina?

Sono partito da Trieste, una città di confine che è stata protagonista dell’esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel dopoguerra. Nella città di Trieste esiste un luogo che si chiama “Magazzino numero 18” e si trova nel Porto Vecchio. Questo magazzino è una sorta di simbolo della tragedia italiana che racconto perché racchiude gli oggetti della vita quotidiana di chi veniva via da quella regione, che poi passò alla Jugoslavia. Faccio sempre questo esempio: è come se le Marche o l’Umbria un giorno diventassero Jugoslavia, ci sarebbe un esodo di massa e si riverserebbero migliaia di vite. Sono partito da questi oggetti fisici, portatori di storie, ed ho iniziato una lunga ricerca per mettere insieme i pezzi di questo mosaico.

Ed infatti dietro ogni tua idea si percepisce un lungo lavoro di ricerca, fatto di testimonianze dirette e di un immergersi in tematiche che visibilmente ti stanno a cuore: ricostruire un mosaico, appunto. Questo lavoro ti ha portato a fare una musica in qualche modo “diversa”, che ti ha permesso di spiccare nel panorama musicale italiano. Come vedi il mondo artistico e musicale dei talent-show sempre più omologato alle logiche commerciali?

Io non disdegno i talent-show, ma mi dispiace che qualcuno possa esprimersi musicalmente come artista soltanto attraverso quegli spazi, oggi. Non esistono altri spazi e quindi anche i cantautori, che scrivono e dedicano anima e corpo a raccontare delle storie, si vedono costretti a partecipare a questi carrozzoni in cui vengono inglobati, masticati, digeriti e poi sputati. Questo è il pericolo di quel meccanismo. Sarebbe bello fare un talent-show di cantautori, no?

Dal teatro alla musica hai trattato importanti temi sociali e dato voce a chi una voce non ce l’ha. Questa è una “vocazione” che hai da sempre o è nata in seguito ad un particolare episodio o in un determinato momento della tua vita?

Io fin da bambino andavo per mercatini. Andavo a cercare gli oggetti antichi, roba da collezione, proprio perché ho sempre nutrito una passione per il passato, per la memoria. Quello che ho fatto con i miei spettacoli è stata la stessa cosa. È stata una sorta di antiquariato, come se fossi un restauratore della memoria: prendo una storia vecchia, la tiro fuori dagli sgabuzzini del passato e la aggiusto dandole una ripulita, una spolverata! (ride, n.d.r.) Questa è la mia passione, perché credo che siamo esseri fatti di memoria: senza di essa non siamo niente.

Da vincitore di Musicultura nel 2005, quali caratteristiche dovrebbero avere secondo te una canzone ed un artista per vincere il Festival? Che consigli ti senti di dare al vincitoreassoluto di Musicultura XXVII?

È una combinazione di tanti elementi, tra i quali anche la fortuna – che è un qualcosa di non razionalizzabile. Il consiglio che posso dare è cercare la propria unicità, sempre, non per sbalordire o fare gli strani, ma per mettere in mostra la propria anima, che è quella che parla attraverso il nostro corpo.

INTERVISTA – «A noi ‘sto mondo c’ha fatto male, capito?»: Ninetto Davoli si racconta a La Controra di Musicultura

Dalla visita alla casa di Totò, alla spesa per il mercato con Moravia, ai viaggi in Africa e India in compagnia di Pasolini e la Maraini, fino all’improbabile giro per la periferia romana a bordo della sua vecchia auto modificata, assieme a Maria Callas: la sua vita è un continuo colpo di scena a partire dal 1964, quando incontra il grande regista. È una specie di dovere artistico, e forse anche etico, quello che sembra spingere Ninetto Davoli a diffondere per parole e risate un pezzo di storia italiana.

Sul suo invito a Musicultura, ha infatti detto: «l’ho accettato per venire in rappresentanza di un certo mondo cinematografico; per raccontare ciò che ho fatto e con chi l’ho fatto. Fino a quarant’anni fa Pier Paolo purtroppo non era capito: un uomo più odiato che amato, uno che è stato cacciato dal suo stesso partito, quello comunista. Ora è diverso, c’è curiosità, ci sono giovani assetati di conoscenza su Pasolini: forse perché viviamo una realtà che lui aveva previsto. Siamo invasi dal superfluo».

Secondo il parere di chi, come lei, fa parte del mondo del cinema da più di cinquant’anni, a che punto è arrivata l’arte cinematografica in Italia?

Sono molto critico su questo argomento. In Italia manca cultura e non i soldi per farla, come spesso si sente dire: la verità è che i soldi vengono spesi male.  Per questo motivo e per altri, pensando al cinema italiano odierno mi viene in mente quello che mi disse Paolo Stoppa sul set di Casotto: «Ah Ninè, ma secondo te quando uno muore, poi resuscita?» Per quelli che come me sono legati a un certo modo di fare cinema, questo di oggi non può avere lo stesso nome: è proprio un’altra cosa.

In quel 1964, dalle parti del quartiere detto “dell’Acqua Santa”, sopra una piccola altura conobbe per la prima volta Pier Paolo Pasolini. Da lì in poi la sua vita non sarebbe più stata quella del giovane falegname che aiuta il padre a portare un po’ di soldi a casa. Se quell’incontro non ci fosse stato, se Pasolini non gli avesse imposto la mano sulla testa ricciuta, se non fosse diventato un attore, chi sarebbe oggi Ninetto Davoli?

Magari sarei diventato un grande professionista della falegnameria, un restauratore, ma lo penso perché questo era all’inizio il mio lavoro. Certo, nel corso della vita avrei potuto comunque cambiarlo, chi mi avrebbe garantito all’epoca che avrei avuto speranze per il mio futuro? Oggi i piccoli negozi artigiani chiudono tutti e io ero un artigiano, prendevo qualcosina a settimana da portare a casa. Forse non avrei avuto la possibilità di fare quel lavoro per tutta la vita, forse avrei cambiato comunque. Ad ogni modo, è andata bene così!

La sfiora, o magari già esiste, l’idea di scrivere un libro su Pasolini? Ci possiamo aspettare qualcosa?

Aaah, tu vòi sapè troppo! (ride, n.d.r.) Pensi che non ci stia pensando? Che non lo stia già facendo? Vi potete aspettare qualcosa, sì, non nel breve periodo però. Le cose sono tante, la ricerca è grossa e gli eventi sono numerosi. Ma quando sarà il momento, lo saprete.

INTERVISTA – «Vogliamo dare forza a chi si trova a fronteggiare questi stessi problemi»: Cesare Bocci e Daniela Spada raccontano il loro “Pesce d’aprile” a La Controra

Lui è Cesare Bocci, l’attore che dà il volto al vicecommissario Mimì Augello nella fiction Montalbano, e lei, Daniela Spada, una grafica e fondatrice di una scuola di cucina. Non sono una coppia come le altre: travolti dalla “guerra mondiale”, come la chiamano loro, hanno avuto la forza di rialzarsi e combattere, finché non hanno avuto la meglio sul destino.

La “guerra mondiale”, per loro, non è stato altro che l’ictus post-parto che ha colpito Daniela a una settimana dalla nascita della primogenita Mia, costringendola a letto per mesi, certa che non avrebbe più riacquistato l’uso delle gambe. Invece di lasciarsi inghiottire dalla disperazione, Daniela ha preferito non perdersi d’animo e lottare per tornare a fare quel che faceva prima: un percorso mai facile e spesso doloroso, in cui l’instancabile sostegno del “Principe Azzurro Mononeuron” –  così ha ribattezzato affettuosamente il compagno – si è rivelato fondamentale.

È dunque una storia di rinascita e, soprattutto, di speranza, quella che Cesare Bocci e Daniela Spada hanno affidato a Pesce d’aprile, il libro scritto a quattro mani e presentato in occasione de La Controra di Musicultura.

La capacità di reagire ad un evento drammatico costituisce il tema centrale di Pesce d’Aprile, che, a partire dal titolo, tratta con insolita leggerezza la malattia. Abbracciare con umorismo questo “scherzo del destino” è stata per voi una scelta razionale o, piuttosto, una reazione istintiva, quasi di sopravvivenza?

Cesare: È stata una scelta irrazionale, istintiva, perché così è la vita: quando si vede qualcuno scivolare su una buccia di banana, involontariamente scappa da ridere e, allo stesso modo, in alcuni momenti drammatici ci è venuto da ridere. Quando Daniela ha scritto il primo post che avrebbe poi dato il nome a “Pesce d’aprile” ha raccontato del dramma che le era capitato in maniera estremamente ironica e divertente.

Daniela: Affrontare un dramma di questo genere dà una forza inaspettata. Certo, lui lo sa, ci sono stati momenti duri, ma bisogna trovare la forza che spesso, contrariamente a quanto si pensi, si nasconde proprio nella leggerezza.

Sono passati sedici anni dall’incidente che ha portato alla genesi del libro. Quando vi siete resi conto di essere maturi per tornare con la mente a quei ricordi dolorosi, al punto di volerne fare un romanzo?

Cesare: Quando ci siamo sentiti pronti per scrivere il libro? Quando ce l’hanno chiesto! (ride, n.d.r.) Prima di allora avevamo vissuto questa malattia come una storia privata, sebbene condivisa con la nostra cerchia di amici e parenti. Mai avremmo pensato di far trapelare la nostra storia al pubblico, benché tutti ci esprimessero la loro ammirazione per quel che eravamo riusciti a fare. È stato solo negli ultimi due, tre anni che ci hanno chiesto di parlarne e, dopo esserci consigliati per qualche tempo, ci siamo finalmente chiesti: perché non farlo? La storia che raccontiamo è quella di una grande battaglia fatta per riuscire a vivere e abbiamo ottenuto un risultato: siamo qui e viviamo. Ora c’è da continuare a lottare, però siamo qui e viviamo. Per di più, raccontarla attraverso di me, che sono un personaggio pubblico, avrebbe permesso di raggiungere più persone.

È stato quindi non tanto per voi quanto per gli altri che avete preso la decisione di scrivere il romanzo?

Daniela: Esattamente, proprio per quello. Non per “autoincensarci”, anche se su di noi ha avuto indubbiamente uno scopo terapeutico.

Cesare: Alla fine è servito molto anche a noi, ma inizialmente ci eravamo detti che, fosse servito anche a una sola persona a trovare un po’ di forza nel nostro racconto, ne sarebbe valsa la pena. Poi, ci siamo resi conti che non solo una, ma addirittura tre, ne avrebbero beneficiato: una sarebbe stato il potenziale lettore del libro, e gli altri due siamo stati noi.

Daniela, la comparsa della malattia ti ha costretto a re- inventarti, dal lavoro alle abitudini familiari. Che idea ti sei fatta della forza che l’uomo riesce a mettere in campo quando è posto di fronte a una sfida?

Daniela: È tanta, anche se c’è da dire che ho avuto dalla mia parte il fatto di avere una figlia, e, si sa, per i figli le madri fanno i salti mortali. Io non posso fare i salti mortali ma ho fatto delle cose che sperano che siano utili a lei.

Cesare, fatta eccezione per i primi tempi, non hai mai smesso di lavorare, confermandoti come uno dei volti più noti del panorama televisivo, oltre che teatrale. Come sono cambiati i tuoi rapporti con gli impegni lavorativi?

Cesare: Questa esperienza sicuramente mi ha fatto maturare come uomo e, di conseguenza, come professionista. Me ne sono reso conto quando mi sono visto molto più tranquillo ad affrontare la “battaglia del set”, dopo aver combattuto insieme una “guerra mondiale”. Ero più rilassato, pur riconoscendo la serietà e l’impegno che richiede il lavoro sul set, specialmente se fatto con dei professionisti. In fondo, se anche si sbaglia una battuta, non muore nessuno – se non nella fiction! Non ho più l’ansia di far bene, ho il dovere di far bene, che è diverso. Non c’è dubbio che quest’esperienza mi abbia dato più solidità anche sotto questo aspetto.