INTERVISTA – “La musica e l’ironia ci salveranno la vita”: Giangilberto Monti a La Controra

Chansonnier, amante del mondo teatrale e scrittore: Giangilberto Monti arriva a Macerata, in occasione de La Controra di Musicultura. Lui, autore di molte canzoni per artisti del calibro di Anna Oxa, Ricky Gianco e Mia Martini, ha lavorato anche per tanto tempo con Dario Fo e Franca Rame. Da questa collaborazione è poi nato il suo libro “E sempre allegri bisogna stare”, di cui ne ha parlato domenica 25 giugno, al Cortile del Palazzo Municipale.

Vi raccontiamo, di seguito, com’è andato l’incontro tra lo scrittore e la nostra redazione, da cui ne è scaturita un’intervista.

In “Romanzo Musicale di Fine Millennio” racconta con ironia sia la progressiva sparizione del vinile, sia il mondo culturale nella Milano degli anni ’70. I tempi sono cambiati: in che modo? Eppure molti artisti scelgono ancora di pubblicare album in vinile.

I tempi si sono trasformati perché il mondo discografico non è più quello di di una volta e perché non esiste più il disco. Prima il panorama musicale aveva un carattere industriale, mentre adesso è diventato un po’ come l’artigianato; questo da una parte è un bene, poiché permette a molti giovani esordienti di tentare la carriera artistica, dall’altra è un disastro per il mondo che ruota intorno a questo ambiente, intriso di difficoltà a livello lavorativo, che tendono a moltiplicarsi.

Com’è stato lavorare con Dario Fo? Ci può raccontare di un momento che ha condiviso con il Maestro?

Lavorare con Fo è stato utilissimo, perché allora mischiavo la recitazione alla musica; ho imparato, anche grazie a lui, un’arte. Il mio primo provino l’ho fatto a casa sua: lui era a due metri da me, seduto sul divano; mi diceva: “Dai, canta, visto che fai il cantante”. Non sapevo cosa fare, tanto che mi ha cacciato via subito (ride, n.d.r.). Alcuni mesi dopo mi sono ripresentato per un altro provino e mi ha preso a lavorare con lui. È stato un po’ come aver fatto l’università del teatro con Dario e Franca, che mi hanno insegnato tante cose.

C’è una canzone di Dario Fo a cui è più legato?

Agli inizi degli anni ’80 Dario mi concesse l’opportunità di suonare una canzone inedita, La Fine della Festa, incisa nell’album “Opinioni da clown”; la impararai, ma riuscii a registrarla solo 30 anni dopo, perché prima non avevo attirato l’attenzione di nessun discografico.

Ha ripreso alcuni brani incisi da Petrolini; che ruolo assume la canzone in una commedia teatrale?

E’ importante sapere che quando si fa riferimento al cabaret e al rapporto tra comicità e musica, si deve pensare che queste due espressioni non sono mai state divise. Ai primi del ‘900, un artista comico maneggiava in modo paritetico la canzone e la battuta, così come il racconto comico. Questa dinamica, in Italia, ha funzionato fino agli anni ’60: con la nascita della televisione e gli spettacoli dei cabarettisti, che sono diventati dei monologanti, si è perso l’aspetto musicale, ma la commedia è stata sempre vicina alla musica. Basti ricordare che la canzone d’autore e il cabaret nacquero insieme nel 1881 allo Chat noir di Parigi.

Lei è tra i tanti artisti che hanno fatto della musica una piazza di ironia e satira. Pensa che la canzone dei nostri giorni abbia abbandonato la via della protesta mascherata?

In realtà penso che ancora oggi ci siano delle sacche di resistenza umana. Porto ad esempio due fatti: il vincitore del Festival di Sanremo di questa edizione mi ha divertito molto, perché ha cantato una storia reale. Francesco Gabbani mi sembra vero, non un artista costruito a tavolino. Per quel che mi riguarda, ho inciso una canzone inedita, Matrimoni e Funerali, che comparirà in un album realizzato dai Powerillusi, che stanno lavorando ad un progetto discografico di raccolta di 30 anni di musica demenziale. La musica e l’ironia ci salvaranno la vita.

INTERVISTA – “Volevo fare la rockstar, ma poi sono diventato poeta”: Guido Catalano a Musicultura

La missione di Guido Catalano è sicuramente ambiziosa, quanto interessante: vuole rendere il mondo della poesia alla portata di tutti. La sua viene chiamata “poesia performativa”, l’unione, cioè, tra versi liberi e spettacolo. Guido Catalano, con i reading nei diversi locali italiani e attraverso i suoi profili social, dove vanta un certo seguito, è riuscito a farsi conoscere anche dal pubblico generalista. Il suo ultimo romanzo è uscito quest’anno e s’intitola “Ogni volta che mi baci muore un nazista”; è raccolta di poesie che lo ha portato anche qui, nel cuore delle Marche.

Guido Catalano si è esibito per il pubblico de La Controra, domenica 25 giugno, in Piazza Cesare Battisti, in attesa di salire, poi, sul palco dello Sferisterio per la finalissima di Musicultura 2017. Quanto segue è quello che emerso dalla chiacchierata tra il poeta e la redazione di Sciuscià.

Il tuo successo è nato attraverso i social network, i reading in giro per vari locali italiani e anche grazie ai poetry slam. Cosa ne pensi di quest’ultimo tipo di evento che sta emergendo in Italia?

Amo il poetry slam. Ho iniziato ad occuparmene circa quindici anni fa, organizzandone diversi a Torino e a Milano. Trovo che sia un ottimo modo per i giovani e per tutte le persone che hanno iniziato da poco per farsi largo soprattutto nel mondo della cosiddetta “poesia performativa”. Tra l’altro, grazie al poetry slam ho avuto la possibilità di conoscere dei miei colleghi, con i quali continuo tuttora sono amico; la poetry slam ha, come suo punto a favore, il fatto che risenta forte di una componente sociale.

Tra i temi più trattati all’interno delle tue poesie spicca l’amore, che spesso però si ritrova in meccanismi d’incomunicabilità. Come possiamo curare questo morbo tipico della società odierna? Sono davvero cambiate le relazioni amorose oggi?

Sicuramente le relazioni di oggi sono molto diverse da quelle di ieri, soprattutto grazie alla tecnologia, che ha i suoi effetti positivi e quelli negativi: possiamo comunicare in modi e in tempi che prima erano impensabili, ma allo stesso tempo abbiamo l’occasione di rimanere sempre in contatto, ma con il rischio di vederci sempre meno di persona. Io sono favorevole all’utilizzo dei social, ad esempio, all’interno delle dinamiche amorose, come il corteggiamento, ma sempre nell’ottica dell’incontro. Il miglior modo per superare questa incomunicabilità è proprio il vedersi fisicamente, secondo me.

Oltre ad avere molto seguito, hai anche ricevuto diverse critiche. In che modo reagisci ai commenti negativi? Ti hanno mai fatto pensare di smettere di scrivere?

Al contrario, mi danno energia. Esistono, secondo me, due tipi di commenti negativi: da una parte c’è la critica costruttiva, che va accettata perché serve a migliorarsi, mentre dall’altra, soprattutto nel mondo dei social, c’è l’insulto dei cosiddetti haters. Io ne ho abbastanza di questi, ne sono consapevole, ma spesso li accolgo con ironia. Sono arrivato a pensare che se non ricevi dei commenti negativi dal pubblico, significa che sei conosciuto solamente da famigliari, amici e conoscenti, che continueranno a dirti che sei bravissimo, sempre e comunque. Quando inizi ad uscire da questa cerchia, in mare aperto, le cose cambiano. Inoltre io faccio una cosa insolita: prendo la poesia e la rendo spettacolo, usando un registro comico o ironico. Non è un’arte per tutti.

Tra i molti commenti nel tuo blog per Il Fatto Quotidiano, un utente ha scritto: “Guido Catalano parla di noi con noi”. Questa frase potrebbe sintetizzare il fine delle tue poesie?

Direi proprio di sì e posso dirti che mi sento anche fortunato per questo motivo. Secondo me, per chi scrive è fondamentale riuscire ad identificare il proprio pubblico con le storie che racconta. Io poi parlo sempre di storie personali, che mi riguardano in prima persona; sapere di esser riuscito a far identificare i lettori nel senso dei miei racconti, per me è un ottimo traguardo.

Musicultura è il Festival della canzone popolare: che rapporto hai con la musica d’autore? Ti supporta nella scrittura delle tue poesie?

La musica è fondamentale per me. Io volevo fare la rockstar, non il poeta. Anzi, le mie prime poesie erano inizialmente testi di canzoni, che poi sono cambiati con il passare del tempo. Ho sempre collaborato con i musicisti e strumentisti. Ad esempio, il mio primo reading, che ho fatto diciassette anni fa, era accompagnato da un’esibizione di musica live. Trovo che la canzone d’autore sia poi una fonte d’ispirazione preziosa: i testi di brani italiani sono sempre stati degli ottimi spunti per le mie composizioni, come ad esempio Margherita di Riccardo Cocciante.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura, “L’amore non finisce mai” con Dacia Maraini

In occasione dell’evento “L’amore non finisce mai”, tenutosi a Palazzo Conventati sabato 24 giugno, Dacia Maraini ha ricordato Giorgio Caproni – tra i primi firmatari del Comitato Artistico di Musicultura -, citandolo nell’esordio della sua “Grande Festa”, con tre versi del poeta scelti come esergo di quello che viene considerato uno dei lavori più intimi della scrittrice: “Quando non sarò più in nessun dove / e in nessun quando, dove / sarò, e in che quando?”. La Maraini, protagonista dell’ultimo appuntamento de La Controra, ha consegnato al pubblico di Musicultura la bellezza dei suoi racconti, accompagnata dalla musica di Jacqueline Maria Ferry e di Eugenio Murrali. Una penna che ha tracciato le grandi questioni del ‘900 e che, ancora oggi, non si tira indietro davanti alle problematiche della quotidianità.

L’attualità, i viaggi, le posizioni degli intellettuali, le amicizie, il rapporto con le persone amate, con quelle perdute e il suo ruolo all’interno del Comitato Artistico del Festival: sono questi alcuni dei temi trattati dalla scrittrice nell’intervista rilasciata alla nostra redazione Sciuscià.

Attraverso la sua penna è passato il Novecento. Cosa ne pensa del momento storico nel quale stiamo vivendo? 

È un periodo di grande confusione e di nebbia. Non è facile capire cosa stia succedendo; tirano venti di guerra. Questo mi preoccupa perché io la guerra l’ho assaggiata, so di cosa si tratta e non vorrei ricordarne un’altra.

I viaggi sono stati una costante nella sua vita; numerosi quelli in Africa in compagnia di Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini. Quali ricordi conserva con sè? Com’è l’Africa che ha lasciato?

L’Africa degli anni ’70 era tutta un’altra cosa: povera ma più libera e più autonoma. Io credo che questo fanatismo religioso abbia trasformato il continente africano e, per questo, molta gente scappa, fugge dal terrorismo e anche dal fanatismo religioso, così come, naturalmente, dalla fame che, però era già presente al tempo dei miei viaggi.

Il 23 ottobre 1967, in una celebre quanto discussa intervista video per la RAI, Pierpaolo Pasolini incontrò il poeta americano Ezra Pound, si scusò con lui e “riabilitò” la sua figura. Con questo esempio vorrei chiederle se secondo lei, in Italia, coloro che sono socialmente riconosciuti come “intellettuali” facciano in qualche modo fatica ad accettare il “diverso”…

Dipende cosa si intende per “diverso”, che generalmente bisogna sempre rispettare. Ezra Pound è un’altra cosa: un grande poeta. Io ero con Pasolini e Sciascià, in Sicilia, nella giuria del Premio Zafferana e, in questa occasione, abbiamo premiato lo stesso Pound che venne, accetto il riconoscimento e rimase con noi. Di lui si accettava la sua vena poetica, nonostante le sue posizioni prese durante il fascismo. Ad un grande scrittore come poteva essere anche Céline, che fece dell’antisemitismo piuttosto duro, uno non accetta le sue posizioni ma accetta la sua poesia e la sua scrittura.

Appena un mese fa, su “Il Venerdì” de “La Repubblica” Bernardo Bertolucci ha ricordato un momento condiviso con lei. Ponza, 1967. Il regista venne a trovare lei e Alberto Moravia all’hotel Chiaia di Luna e nello stesso giorno avete cenato tutti insieme. C’era anche Michelangelo Antonioni. La storia del cinema e della letteratura intorno ad un tavolo. Che ricordo ha di quella serata?

Noi ci vedevamo spessissimo anche in altri luoghi, non era una cosa così eccezionale. Era una compagnia quotidiana e quindi per me questa occasione non fu un evento particolare. Allora gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti si vedevano molto di più: una comunità con progetti in comune. Tutte cose che oggi non si vedono più.

Nel 2011 viene pubblicato il suo libro “La grande festa”. Un titolo quasi ossimorico rispetto al contenuto: un saluto a tutte quelle persone amate e perdute. Che rapporto ha con l’idea della morte e con coloro che non ci sono più? 

Un buon rapporto con la morte e con i morti è avere un buon rapporto con la memoria. Essi non sono i “mostri” che il cinema internazionale ci propone e guai a considerarli tali.

Lei fa parte e impreziosisce il Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura. Com’è avvenuto l’incontro con il Festival marchigiano?

Concia! Concia, che è una donna straordinaria, si faceva in quattro per questo Festival e, ad un certo punto, mi ha chiesto di aiutarla a “giudicare” questi giovani. Una cosa che ho accettato di buon grado perché credo che bisogna dare ascolto ai giovani che ne hanno bisogno.

Rimando sempre in merito al tuo ruolo all’interno del Festival. Cosa la colpisce a primo impatto e a quale aspetto da più risalto, quando ascolta il CD dei sedici finalisti del concorso?

Ascolto le parole, ma soprattutto la musica. Non voglio vestire solo il ruolo di letterata poiché credo che le parole in una canzone siano importanti ma non sono tutto.

INTERVISTA – Riccardo Tesi e la sua Banditaliana: folklore nostrano per La Controra di Musicultura

Riccardo Tesi è un artista che ha esplorato la musica attraverso la sperimentazione di generi, sonorità internazionali, utilizzando strumenti appartenenti alla più radicata tradizione musicale italiana, come l’organetto diatonico, antico antenato della fisarmonica. Con la Banditaliana, Tesi porta in scena una sintesi felice di quella che è la migliore tradizione artistica del centro Italia, unita all’esperienza di chi la musica l’ha vissuta in tutte le sue sfaccettature.

Cosa pensi di Musicultura, manifestazione che ha come obiettivo quello di dar voce alle nuove leve del cantautorato italiano?

Musicultura è un festival ormai famosissimo ed un buon trampolino di lancio per la canzone d’autore, genere che, in questo momento, fa anche fatica ad avere un mercato suo, soprattutto se è di qualità. Ben venga, quindi, una manifestazione del genere che, tra l’altro, è organizzata benissimo e ha una bella visibilità. Nel tempo, la rassegna ha portato alla ribalta numerosi talenti.

Io ero molto legato a Gianmaria Testa, mio grandissimo amico, che ci ha lasciato da poco e che, proprio partendo da questa manifestazione, ha iniziato a farsi conoscere al grande pubblico.

Come affrontate, in quanto band, i numerosi concerti che fate in giro per l’Italia?

L’attenzione al suono è fondamentale; cerchiamo di proporre la nostra musica al meglio; siamo meticolosi, per poter offrire un ottimo prodotto. Amiamo il nostro lavoro e cerchiamo di farlo nel miglior modo possibile.  Starà poi al pubblico giudicare, a posteriori, se lo spettacolo è piaciuto o meno.

INTERVISTA – Alessandro Carrera racconta Bob Dylan a La Controra di Musicultura

“Non basterebbe una vita per raccontare l’estro artistico di Bob Dylan: se non canta, scrive canzoni; se non scrive canzoni, dipinge e se non dipinge, fa qualche strana scultura”: così Alessandro Carrera parla dell’artista vincitore del Premio Nobel della letteratura 2016. Il viaggio dello scrittore e traduttore dei testi di Dylan ha inizio molti anni fa; negli anni ha ricoperto l’incarico di docente di Letteratura italiana e Culture del Mondo alla University of Houston e si è distinto soprattutto per i tanti riconoscimenti che gli sono stati assegnati: il Premio Montale per la poesia nel 1993, il Premio Loaria per il racconto nel 1998 e il Premio Bertolucci per la critica letteraria nel 2006. La redazione Sciuscià incontrato Carrera in occasione dell’evento de La Controra, di cui è stato protagonista a La Controra.

Bob Dylan è conosciuto al grande pubblico come il musicista che, con il suo stile innovativo, portò la canzone di protesta ad affacciarsi nel panorama musicale. Secondo lei, l’artista è più musicista o più poeta?

La commissione di Stoccolma ha conferito il Nobel a Dylan per le innovazioni che il cantautore ha portato nella tradizione della musica americana. E’ chiaro che le canzoni dell’artista sono da considerarsi poesie.

“Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l’impressione di avere fermato il tempo” scrivi in La Voce di Bob Dylan. Qual è la canzone dell’artista che incarna maggiormente questa definizione? Perché?

Mi viene in mente una canzone del 1975 che si intitola Tangled Up in Blue, in cui Dylan ha cercato una forma di composizione insolita: è un brano di 7 strofe, in cui viene raccontata una storia lineare; analizzando i suoi versi, si nota che non c’è una vera e propria successione cronologica dei fatti. Questa scelta intenzionale ha avuto come obiettivo era quello di scrivere un brano che somigliasse a un quadro, non si avverte la sensazione che il tempo scorra tra la prima strofa e l’ultima.

Da Time Out of Mind in poi, notiamo un’inversione di tendenza stilistica nella scrittura testuale che, lei stesso, definisce “alto manierismo”. Che cosa intende con l’espressione e quali sono i tratti salienti di questa nuova fase artistica dell’autore?

Dal punto di vista musicale, Dylan usa molto poco lo stile rock e pone le sue basi stilistiche principalmente nel blues, nella ballata e nella canzone leggera da salotto. Dal punto di vista testuale, da Time Out of Mind in poi, invece di scrivere canzoni che raccontano fatti, il cantautore ha iniziato a costruire delle architetture intorno a delle parole; è il caso, questo, di Mississipi, il cui testo si costruisce totalmente intorno al titolo della stessa.

Che ruolo riveste, nell’industria culturale americana degli anni ‘60, la figura di Bob Dylan?

L’importanza di Bob Dylan sta nell’aver cambiato il panorama musicale come, prima di lui, avevano fatto i Beatles, i Rolling Stones e Jimi Hendrix; fu il primo a introdurre il folk revival e, passando successivamente alla musica rock, dimostrò come il genere rappresentasse un contenitore fluido, dove poter immergere contenuti molto complessi. In questo senso, il cantautore americano ha spianato la strada a tutte le rivoluzioni musicali, che sarebbero poi avvenute a partire dagli anni ’60 in poi.

INTERVISTA – “Non mi è costato nulla fare l’eroe”: Carlo Nordio si racconta a La Controra di Musicultura

“La pensione è il momento più bello della vita perché mi permette di dedicare il mio tempo alle passioni più grandi che ho”: si conclude così l’intervista con Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia che coltiva con dedizione la sua passione più grande: la giustizia. In occasione de La Controra, l’ex magistrato ha presentato il libro “Crainquebille, il venerdì santo del diritto”, opera di Anatole France, da lui curata.

Ha ricoperto per lungo tempo lo stesso ruolo: ciò è curioso, in un ambiente attento alle promozioni di carriera: qual è il motivo della sua scelte, così controcorrente?

 La mia scelta controcorrente è legata al desiderio di dire sempre quello che penso; non ho mai rinunciato a manifestare le mie idee per altri tipi di vantaggi. Mi sono sempre trovato bene alla procura di Venezia e non ho mai ambito a diventare procuratore generale o procuratore capo.

Nella prefazione di “Crainquebille, il venerdì santo del diritto”, scrive che “ll concetto di giustizia si afferma solo nel calvario delle sue sconfitte, nel ricorrente venerdì santo del diritto, senza il quale non ci sarebbe la pasqua dell’equità”. Crede che la nostra società sia pervasa da ingiustizia? Qual è la sua idea di giustizia?

 La giustizia umana è fallibile, non sarà mai perfetta. Il compito di noi magistrati è cercare di limitare i rischi di un potere giudiziario ingiusto, lavorando sulle due doti del magistrato, oltre a quelle tecniche: il buon senso e l’umiltà. Queste abilità non le impari sui libri o alle scuole superiori della magistratura, ma nella vita di tutti i giorni, che ci rende consapevole dei nostri limiti e dei rischi del lavorare in un ambiente così delicato, come la giustizia. Infine, il consiglio che mi sono sempre sentito di dare ai giovani è di mollare ogni testo di diritto e cominciare a leggere una tragedia di Shakespeare, che ha molto più da insegnarci.

 Ci spiegherebbe la scelta di dedicare “Crainquebille, il venerdì santo del diritto” a Marco Pannella?

 Ho avuto un rapporto di grande affetto con Marco Pannella; sono stato tra i pochi privilegiati ad avere la possibilità di salutarlo nel suo ultimo mese di vita, in Via della Panetteria. Un episodio che ci lega particolarmente è che a suo tempo mi ha querelato, a causa di una dichiarazione nel mio libro sulla giustizia: avevo scritto che tutti i partiti si erano finanziati in modo illegale, non solo quelli colpiti da tangentopoli. Ovviamente mi riferivo ai cinque partiti di governo e a quello di opposizione, il PCI e non pensavo minimamente ai radicali. Dopo l’equivoco è stato chiarito.

Stiamo vivendo un momento politico difficile, in cui c’è sfiducia nella classe politica e nella rappresentanza. Qual è la sua opinione a riguardo? Come immagina la politica tra 10 anni?

La politica italiana è in piena trasformazione. Non riesco ad immaginarla tra sei mesi, così come tra dieci anni. Mi auguro però la sua permanenza nella comunità europea, a dispetto di chi vorrebbe farci uscire dall’Euro, e la realizzazione di una nuova legge elettorale, che permetta di sapere chi ha vinto, già il giorno dopo le elezioni.

Continuerà ad occuparsi di giustizia, adesso che è in pensione?  

 La pensione è il momento più bello della vita perché mi consente di dedicarmi alle passioni più grandi che ho: la lettura, lo sport, in particolare il nuoto e la scrittura.

INTERVISTA – Ellade Bandini conquista il pubblico de La Controra di Musicultura 2017, tra aneddoti e canzoni

Tecnica, originalità e improvvisazione sono gli elementi che lo contraddistinguono: il rinomato batterista Ellade Bandini, ospite de La Controra mercoledì 20 giugno, ha regalato al pubblico di Musicultura aneddoti e performances incantevoli. Un professionista di un certo peso, che ha lavorato a più di 800 incisioni musicali con numerosi artisti del cantautorato italiano: da Guccini a De André, dai Nomadi a Vecchioni, passando per il Jazz con Lee Konitz, Danilo Rea e tanti altri. Per mezzo della batteria, Bandini ha dato alla musica anima e corpo, suonando col solo scopo di divertirsi e divertire.

Ecco l’intervista ad uno dei più grandi del batterismo italiano, curata da  Sciuscià.

L’artista, nell’immaginario popolare, è visto come genio e sregolatezza. Lei come si definisce?

Mi definisco un batterista da turismo, non sono da competizione: non voglio giungere in fretta ai traguardi; ci arrivo molto lentamente, tranquillamente, in modo naturale, come un turista. Suono per piacere, senza cercare la competizione. Non ho mai avuto la fissa di arrivare per forza in alto, senza prima aver visto e vissuto quello che c’è alla base di una carriera.

Con Ares Tavolazzi e con Vince Tempera – anche lui ospite qui a Musicultura -, nel 1969 ha dato vita ai The Pleasure Machine. Di quell’esperienza, cosa le rimane?

Eravamo tre giovani che si incontravano nei momenti liberi, in cui si adoperavano per produrre qualcosa, scrivendo e arrangiando dei brani. Ricordo quei giorni come l’inizio di questa mia lunga e meravigliosa esperienza musicale. Ancora oggi, quando suono, sento la stessa energia che provavo allora.

Fabrizio De André lo voleva al suo fianco e, da perfezionista, non ammetteva improvvisazioni; com’è nato il vostro incontro?

È avvenuto per caso. De André faceva fatica a seguire il tempo del suo batterista e non riusciva ad incastrare alla perfezione le parole coi suoni; a pochissimi giorni dall’inizio del tour di “Creuza de mä”, decise di sostituire il batterista. In quel periodo stavamo terminando i concerti con Guccini; incontrai per caso Mauro Pagani, che mi chiese se volevo suonare con De André: risposi con un sì deciso. Dovevo darmi da fare e cercare di essere adatto, perché Fabrizio teneva molto alla precisione, senza contare che nelle discussioni voleva avere sempre ragione (ride, n.d.r.). Alla fine l’esperienza andò benissimo, in un periodo in cui ero molto tranquillo e sicuro di me.

Ha partecipato all’album dei Nomadi “Ma noi no”, l’ultimo con Augusto Daolio: che ricordo ha di lui?

L’ho conosciuto molto tempo prima dell’incisione del disco. Nel ’73, Tempera, Tavolazzi ed io accompagnavamo negli Usa Alberto Anelli; c’erano anche i Nomadi: siamo rimasti tutti insieme per due settimane. Penso di non essermi mai divertito così tanto con una persona. Augusto era una persona incredibile, divertente e molto intelligente. Sul palco era un monumento, una figura importantissima ed una persona speciale.

Come cambia il contributo della batteria nel genere pop rispetto a quello jazz?

Da giovane ho avuto la grande fortuna di iniziare a suonare nelle sale da ballo. Dovevo farmi piacere ogni cosa e suonare di tutto; in fondo mi piacevano moltissimi tipi di musica, anche il valzer romagnolo. Aspettavo con entusiasmo la possibilità di suonare un pezzo di James Brown o di rock ‘n’ roll, ma mi adattavo ad ogni genere. Il jazz mi è servito soprattutto per il mondo del cantautorato, e viceversa. Il bello della canzone d’autore è che non ti mette in competizione con gli artisti di musica pop, in quanto quest’ultima prevede un utilizzo della batteria piuttosto metodico e uguale a se stesso; nel cantautorato, invece, puoi improvvisare, inventare, sperimentare delle tecniche nuove.

INTERVISTA – Ron ai vincitori di Musicultura 2017: “Ora è il il momento di mostrare l’anima”

E’ Ron uno dei noti personaggi della musica d’autore che, domenica 25 giugno, ha calcato il palco dello Sferisterio in qualità di ospite d’eccezione della finalissima della XXVIII edizione di Musicultura.

Un nome storico, quello di Rosalinio Cellammare, che ha segnato gli anni d’oro della musica leggera del nostro paese; la sua ultima esibizione al Festival risale al 2006, occasione in cui ha cantato Non abbiamo bisogno di parole.  Dopo un attento soundcheck, in un caldo pomeriggio d’estate, la redazione di Sciuscià ha avuto la possibilità di fare qualche domanda al cantautore.

Si è esibito sul palco di Musicultura per la prima volta nel 2000, quando ancora il Festival si chiamava Premio Città di Recanati; poi, nel 2006. C’è un ricordo che lo lega a Musicultura?

Macerata è sempre un bel vedere: una città che conserva il fascino dell’antico e che allo stesso tempo trasmette tantissimo anche a quelli che, come me, la vivono solo di passaggio. Ho capito, sin da subito, che Musicultura è un festival organizzato molto bene e che riserva grande serietà e rispetto nei confronti di tutti, concorrenti ed ospiti. Ricordo uno scambio di battute tra me e Baglioni, a proposito della qualità del concorso, e anche lui era d’accordo con me.

Noi, ad esempio, ricordiamo bene la sua esibizione allo Sferisterio, occasione in cui ha cantato Non abbiamo bisogno di parole. Gli otto vincitori di Musicultura, invece, di parole ne hanno sempre bisogno da un professionista del suo calibro: quali dedicherebbe proprio a loro, così come a chi decide di intraprendere la carriera musicale?

Quando si tratta di parole da dedicare ai giovani ho sempre un po’ di timore, perchè potrebbero rivelarsi consigli pericolosi per alcuni di loro. Comunque io credo che per gli otto vincitori sia arrivato ora il momento di mostrare la loro anima e tutto il talento che hanno, soprattutto quello della scrittura. Con il tempo mi sono reso conto che all’estero praticamente tutti gli artisti sono autori dei propri brani, cosa che accade meno in Italia; ciò mi dispiace, perché credo che sia importante mantenere vivo il cantautorato.

Oltre ad essere interprete, ha anche scritto numerosi successi come Attenti al lupo, cantata da Lucio Dalla. Quale parte del lavoro di musicista preferisce?

L’aspetto più bello e soprattutto più divertente è stare sul palco e fare concerti in giro per l’Italia. Quando mi esibisco mi sento me stesso, sono rilassato e tranquillo; immagino i miei live come dei regali che mi faccio da solo per sentirmi bene. Dovendo scegliere tra essere interprete o compositore, adesso preferisco cantare dei pezzi, mentre all’inizio della mia carriera puntavo molto di più sulla scrittura e sulla composizione.

Durante la sua carriera ha avuto la possibilità di prendere parte alla realizzazione di diversi lungometraggi, soprattutto durante la fine degli anni ’70. Cosa le ha lasciato, artisticamente e umanamente parlando, questa esperienza nel mondo del cinema?

Il mondo del cinema mi ha regalato tante belle cose. Ho avuto la fortuna di recitare con registi importanti, come Monicelli, Montaldo o Magni. Sul set ho vissuto esperienze molto forti, che hanno arricchito il mio bagaglio personale. Tra i vari progetti, ricordo in particolare “In nome del Papa Re”, diretto da Luigi Magni, appunto. In quell’occasione ho recitato al fianco di Nino Manfredi; fu  un’esperienza ricca di emozioni.

All’interno delle sue canzoni si legge spesso una forte componente sociale, come ad esempio nel brano L’uomo delle stelle. Secondo lei, qual è il vero potere della musica? Cos’è in grado di generare in chi ne fruisce, rispetto alle altre forme d’arte?

Penso che la musica abbia un grande valore aggiunto, che è quello della leggerezza. Attraverso una canzone, anche un argomento percepito come troppo impegnativo o problematico, può essere alleggerito e reso più comprensibile. Trovo che questo sia un aspetto meraviglioso.

INTERVISTA – “Il soul è la musica degli outsiders”: Alberto Castelli presenta “Soul Books” a La Controra di Musicultura

A ripercorrere le tappe più importanti e i retroscena delle storie dei più grandi artisti che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, hanno lasciato un segno nella storia del soul, è stato Alberto Castelli, direttore della collana di libri “Soul Books”, nonché autore del volume “Otis Redding. La musica è viva”; il conduttore di famosi programmi per Radio Rai – ad esempio, Sterenotte, Radio 1 Musica e Battiti, I Concerti di Suoni & Ultrasuoni -, è stato ospite dell’evento organizzato nell’ambito de La Controra, intitolato “Soul Books – I colori della musica dell’anima attraverso la vita dei suoi protagonisti”, alle 21:15, a Palazzo Ciccolini. “Riprendendo il pensiero hegeliano, se il gospel fosse la tesi e il blues fosse l’antitesi, allora il soul sarebbe la sintesi che unifica ed eleva le opposizioni precedenti”: queste le parole con cui Castelli ha dato il via all’evento, di cui è stato protagonista. Alla nostra redazione ha raccontato questo e molto altro ancora.

Nella collana “Soul Books”, di cui è direttore, sono stati disegnati personaggi della musica soul utilizzando parole semplici, dirette, immediate: compito non semplice, considerata la vastità dei racconti di cui sono protagonisti i più grandi dellablack music. Come si è svolto il lavoro e com’è stato collaborare con illustri nomi del giornalismo italiano?

Innanzitutto abbiamo deciso di focalizzarci su dieci artisti, raccontati in dieci libri. Il periodo storico che abbiamo scelto è quello compreso tra gli anni ’60 – vero cuore della stagione musicale soul – e ’70. Successivamente abbiamo ipotizzato degli accoppiamenti tra gli artisti e gli eventuali autori; il risultato finale è stato un successo: gli scrittori hanno trovato un feeling con il personaggio raccontato. Si è pensato da subito a libri agili, leggeri e con un linguaggio molto diretto, esattamente come è la musica di cui parlano gli scrittori; a caratterizzare il progetto sono due elementi inamovibili: la spontaneità e l’emotività.

Cronache e leggende, dunque, in questi volumi monografici: quanto è importante conoscere il contesto storico per cogliere il vero significato del genere soul?

È fondamentale, perché questa musica riflette esattamente ciò che accadeva in America in quel periodo. Il soul si potrebbe definire come la colonna sonora ideale delle grandi lotte per i diritti civili; sarebbe impossibile isolarla dal suo contesto. È un genere che ha anticipato eventi che sarebbero accaduti solo in futuro, ma soprattutto ha accompagnato in diretta quel presente.

La soul music ha avuto una forte funzione sociale, così come politica e culturale; al giorno d’oggi, in quali artisti sono riscontrabili questi aspetti?

Ovviamente parliamo di un genere che ha raggiunto l’apice in quel determinato periodo storico; la cosa bella della musica afroamericana è che il passato non viene mai dimenticato, ma viene sempre riaffrontato e reinterpretato. Pensiamo per esempio agli artisti del rap e dell’hip hop – ossia protagonisti del suono nero contemporaneo -, che usano spesso i campionamenti, ovvero riprendono le canzoni del passato, per poi riutilizzarle. È anche per questo motivo che la musica soul è stata tramandata da una generazione all’altra. Al giorno d’oggi sicuramente alcuni degli artisti che rappresentano meglio questo periodo storico sono D’Angelo e Erykah Badu. Partendo dal gospel, considerata la musica di Dio, e dal blues, la musica del diavolo, si è arrivati al soul, che ha poi plasmato tutti gli altri generi, come il rock, l’hip hop e il funk; questa percorso artistico ha origine con i dieci maestri raccontati nella collana “Soul books”.

Rimanendo in tema dell’evento de La Controra di cui lei ne è protagonista, quali sono i colori della musica dell’anima di Alberto Castelli?

Ovviamente il nero può rappresentare il soul sotto vari aspetti; però personalmente il primo colore che associo a questo genere è il rosso, perché rappresenta la passione e l’emozione che solo questi grandi artisti nella collana “Soul Books” sono riusciti a trasmettere, attraverso un suono che arriva diretto all’anima.

E i colori di Musicultura?

Parto dalla premessa che Musicultura è una manifestazione affascinante, che si è sempre più consolidata, con il passare del tempo. Molto spesso vari concorsi musicali risultano ambigui; qui, invece, la serietà, la passione e il rispetto per la musica sono i punti di forza che caratterizzano il Festival di qualità. Personalmente ho seguito Musicultura sotto diverse vesti professionali: infatti gli “Acustimantico”, che hanno vinto la XIV edizione della rassegna, erano un mio gruppo; inoltre, quando nel 2005 Cristicchi si è aggiudicato il premio del Vincitore Assoluto con “Studentessa universitaria”, io lavoravo a Radio1, che trasmetteva le varie fasi della manifestazione.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura, Michele Bovi svela la storia inedita della musica italiana

Ad inaugurare i pomeriggi de La Controra al Cortile del Palazzo Municipale è stato Michele Bovi, che ha raccontato le sue Note segrete: Eroi, spie e banditi della musica italiana; all’incontro, lo scrittore e giornalista ha ripercorso gli anni d’oro della storia della musica italiana, che si sono malauguratamente intrecciati con la criminalità organizzata e i servizi segreti dello nostro Stato.

Poco prima dell’evento, Bovi ha rilasciato un’intervista alla nostra redazione.

Da dove nasce l’idea di questo racconto?

Sono un giornalista e mi sono occupato di musica sempre attraverso dei percorsi paralleli, ma mai direttamente, come recensore di cantanti o giudice di talent. Poco tempo fa ho realizzato per Rai 1 cinque puntate di uno speciale che si chiamava “Segreti Pop”, trattando principalmente di due argomenti: i contatti con la criminalità e la monitorizzazione dei servizi di sicurezza sulla musica italiana; da questi special è nato poi un libro.

Rimanendo in tema, il suo è un libro puntuale e ricco di documenti inediti che presenta un nuovo universo musicale composto da note segrete: quanto è durata e come ha impostato la lavorazione di quest’opera, data la quantità di materiale che vi è all’interno?

Per il programma televisivo ho impiegato circa 3 mesi di lavoro e altri 12 mesi per perfezionare il libro che è inoltre molto illustrato e ricco di immagini inedite.

Molti sono i programmi di successo che la accreditano come il massimo esperto di musica e videoclip e tra i tanti citiamo il programma televisivo “TechetecheTè”: nei filmati vengono ripercorsi oltre 60 anni di storia della televisione italiana. Come sono cambiati l’intrattenimento e lo spettacolo del piccolo schermo? Cosa ne rimane della “classe” della vecchia televisione italiana?

C’era un’altra televisione, dove non esisteva concorrenza; all’epoca la Rai si poteva permettere anche di trattare maggiormente approfondimenti musicali, proprio come voi. L’intento era proprio quello di acculturare il pubblico. Oggi si rincorre l’audience e, di conseguenza, bisogna rinunciare a qualche contenuto culturalmente più alto.

Coltiva da anni la passione per la musica; sono noti infatti i suoi trascorsi da sassofonista. Quando ha iniziato a suonare?

Ho iniziato a sei anni, suonando prima il clarinetto e poi la chitarra. Successivamente mi sono anche iscritto al conservatorio Santa Cecilia di Roma, specializzandomi nel contrabbasso; poi è nata la passione per il pianoforte complementare. Quello che più definirei come il mio strumento è il sassofono: a diciassette anni ero nel complesso di spalla della tournée di Jimi Hendrix.

Secondo lei qual è la nota segreta di Musicultura?

Voi avete la fortuna di non rincorrere nessuno e di non subire la concorrenza; conosco Musicultura perché venni nel 2006, insieme ad un ragazzo di 80 anni, Clem Sacco, che allora era un personaggio totalmente sconosciuto. Musicultura consente di osare nella cultura musicale: ha infatti permesso a Clem di salire sul palco; un artista che, da quel momento in poi, è diventato una leggenda del rock proto demenziale. Quindi ringrazio il Festival.