Il suono dell’intuizione: intervista a Franco Godi

Dai jingle ai dischi d’oro, Franco Godi ha scritto la colonna sonora di chi ha avuto il coraggio di osare per primo. “Mr. Jingle” per caso, talent scout per vocazione, è stato il primo a credere nel raitaliano, quando ancora nessuno scommetteva su di esso. Ha portato l’ironia nell’animazione accanto a Bozzetto e la sensibilità nell’autorialità insieme a Olmi. Oggi continua a scommettere sui giovani, ma senza fare sconti: «Basta sp cuse, è il momento di prendersi la scena». Il suo è un intuito che brucia la tecnica, un fiuto che anticipa le mode. Godi non si è limitato a raccontare la musica: l’ha intercettata, trasformata, rilanciata. Sempre con mezzo passo d’anticipo.

Ha debuttato incidendo negli studi di Renato Carosone e nel 1962 ha firmato il jingle Bertolli, diventando Mr Jingle. Quanto le ha insegnato quella sfida di sintetizzare emozione e ritmo in pochi secondi?

Sono nato con il desiderio di sintetizzare la musica che, certo, si sviluppa, ma alla base deve esserci un’idea chiara, racchiusa in poche note. È da lì che parte tutto. Lo facevano anche Bach, Beethoven, Brahms: scrivevano melodie semplici, quasi “orecchiabili”, che poi si trasformavano in grandi sinfonie. Non voglio fare paragoni altisonanti ma, ecco, questa è stata la chiave che mi ha permesso di andare avanti, di costruire la mia musica.

Lei ha iniziato come compositore e produttore per se stesso, poi è diventato scopritore di talenti e promotore di nuovi artisti, soprattutto nel rap italiano. Come si è avvicinato a questo ruolo da “talent scout”?

In realtà, più che cercarli, nei talenti mi ci sono sempre un po’ imbattuto. Quando incontro qualcuno che fa fatica a emergere, ma ha qualcosa da dire, tendo subito a sposare il suo progetto. È un qualcosa che sento come spontaneo.

E come è nato tutto?

Tutto è iniziato con la nascita di Best Sound. Per molti anni, fino al 1990, l’etichetta è stata lo spazio per la mia musica: sigle televisive, cartoni animati, produzioni per la TV. Poi, nel 1990 ho conosciuto gli Articolo 3. Da lì si è aperto un nuovo percorso, con Gemelli Diversi, Neffa, Fedez, Tricarico, Zilla, e ho sempre continuato a lavorare con artisti che sentivo vicini per intuizione e visione.

In fondo anche Musicultura è una fucina di giovani talenti, un po’ come lo è stata Best Sound per il rap italiano. Cosa la affascina oggi di questi spazi che danno voce a nuove scritture e nuovi suoni?

Penso che sia una fortuna che esistano. I giovani artisti, sempre più spesso, si sentono vincolati artisticamente dalle case discografiche, che li spingono in una direzione piuttosto che in un’altra.  Spazi come Musicultura, invece, danno loro la possibilità di esprimersi liberamente e senza vincoli. Trovo poi molto bello il fatto che ci siano otto vincitori, perché nella musica sono tendenzialmente contrario alle gare. Sanremo, infatti, insegna: l’ultimo Vasco Rossi poi è diventato quello che è diventato.

L’hanno definita “artigiano del suono” e ha citato tra i tuoi maestri Quincy Jones e Trovajoli. Quanto conta, per lei, l’intuizione rispetto alla tecnica per far nascere una musica che emoziona?

Conta moltissimo. Perché altrimenti basterebbe studiare tanto, essere bravi musicisti e tutti ce la farebbero. Invece no, è come l’amore: o scatta, o non scatta. O c’è, o non c’è. Tra i miei modelli, ci sono stati Quincy Jones, Travajoli, ma soprattutto Burt Bacharach: è stato lui a riempirmi il cuore di belle note. E da quelle emozioni sono nate alcune delle cose migliori che ho scritto.


 

Nutrire il futuro, con parole che durano

In un presente iperconnesso, dove tutto scorre veloce e spesso si consuma prima ancora di essere compreso, c’è chi sceglie di rallentare per raccontare. Giorgia Pagliuca, divulgatrice, attivista e ricercatrice, si muove tra social, scuole, piazze e libri portando avanti una narrazione della sostenibilità che è tanto scientifica quanto personale, tanto concreta quanto emotiva. Arriva a Musicultura, nel cuore de La Controra, per parlare di cibo, giustizia ambientale e linguaggi accessibili. Ma soprattutto per mostrare che il cambiamento si nutre di presenza, ascolto e storie ben raccontate. Con ironia, consapevolezza e una voce capace di attraversare più pubblici, Giorgia ci invita a rimettere al centro il valore delle parole, delle relazioni e del gesto quotidiano. Anche quando non richiesto.

Con il progetto MUSICULTURAmbiente, La Controra le dedica uno spazio di riflessione e dialogo, in collaborazione con Cosmari, in un evento condotto da Marco Ciarulli, Presidente della Legambiente Marche. Poco prima, si è raccontata così alla Redazione Sciuscià.

Sui social ti definisci “dispensatrice di consigli non richiesti”, una formula ironica ma efficace. Che tipo di rapporto crea questa scelta con chi ti segue, e come riesci a mantenere credibilità trattando temi scientifici in modo così diretto?

Dipende un po’ da chi approda sul mio profilo, perché non tutti sono disposti ad accogliere i miei consigli non richiesti. Però devo dire che, nel tempo, ho incontrato tante persone realmente interessate al tema. Cerco sempre di usare anche una dose di autoironia, così da evitare una comunicazione unidirezionale e renderla più interattiva, sicuramente anche intersezionale. Porto avanti questo approccio sia nei miei progetti di ricerca offline, sia nella mia comunicazione online. Parlando di sostenibilità, poi, i punti di ingresso sono moltissimi e molto diversi: questo mi permette di spaziare e di parlare a soggettività differenti, con linguaggi e toni diversi.

Nel tuo libro Aggiustiamo il mondo racconti il cambiamento ecologico anche da un punto di vista emotivo e personale. Quando sei su un palco o in uno spazio pubblico, come cambia il tuo modo di comunicare rispetto alla narrazione che costruisci online?

Per me la narrazione è situata: cambia a seconda del contesto e del pubblico che ho di fronte. Non uso lo stesso linguaggio con chiunque. Mi è capitato di fare una lezione in una scuola primaria, e lì il linguaggio era completamente diverso. È stata una bella sfida, perché a volte, quando parlo in pubblico, dimentico che non tutti hanno la mia stessa formazione. Spiegare con parole semplici a una bambina di sei anni cos’è il cambiamento climatico è un’esperienza che auguro a chiunque: ti obbliga a ripensare il tuo modo di comunicare e ad adattarlo alla persona che hai davanti.

Hai partecipato come facilitatrice a progetti come Green_EuRoPe per formare giovani influencer green. Quanto è importante, per te, accompagnare la comunicazione digitale con una presenza attiva e costante nei territori?

È fondamentale. Se la divulgazione rimane confinata all’online, si perde il contatto umano. Le persone, se ti percepiscono solo attraverso uno schermo, difficilmente mantengono l’attenzione necessaria per affrontare certi argomenti. Ecco perché cerco sempre di realizzare eventi il più possibile slegati dal digitale — che resta comunque importante — ma in cui si possa creare un confronto diretto, faccia a faccia. In questi spazi si può approfondire, non rimanere in superficie. Quando si lavora solo online, spesso si è vincolati a una soglia d’attenzione sempre più bassa: i primi secondi sono tutto. E questo, insieme alla difficoltà nel contestualizzare le informazioni, apre la strada anche a dinamiche tossiche come l’odio digitale.

Il tuo intervento a La Controra ruota attorno all’idea di dare istruzioni per nutrire il futuro. Quanto a questo argomento, qual è la prima consapevolezza che speri di attivare in chi ti ascolta?

Spero che si cominci a dare il giusto valore al cibo, che è anche un modo per dare valore alle persone. Viviamo in un paese che, purtroppo, è ancora esportatore di caporalato e di forme di schiavismo non pienamente riconosciute dal punto di vista giuridico. Molte filiere alimentari si basano sullo sfruttamento di persone e minoranze. Per questo, il messaggio che vorrei far passare è semplice ma cruciale: non sprecare il cibo, ma soprattutto acquistarlo attraverso esercizi locali, controllati, con un rapporto diretto con i produttori. Riconoscere il valore del cibo significa riconoscere il valore di chi lo produce.

Musicultura crea un ponte tra cultura musicale e impegno civile. Tu che unisci divulgazione, scrittura e attivismo, in che modo credi che l’arte – in ogni sua forma – possa amplificare il messaggio della sostenibilità?

L’arte ha un ruolo fondamentale. È uno degli strumenti più potenti per avvicinare le persone. Non arriva a tutti allo stesso modo, ma è un linguaggio che ti permette di allargare il pubblico. Parlare di musica significa parlare anche di cultura, di cibo, di spreco. E questo è un potere che, spesso, la ricerca scientifica non ha, perché utilizza un linguaggio troppo distante dalla quotidianità. L’arte, invece, riesce a veicolare narrazioni fondamentali in modo diretto, impattante, emotivamente coinvolgente.


 

Con Treccani, “Le parole nelle canzoni”: Pop X e Camurri a La Controra

Musicultura è da sempre il Festival della Canzone Popolare e d’Autore, un luogo in cui parole e musica si intrecciano in un dialogo continuo. Anche gli appuntamenti de La Controra raccolgono e amplificano questo legame, dando voce a suoni, storie e significati. A testimoniarlo è stato l’incontro Le parole delle canzoni, realizzato in collaborazione con Treccani, che ha visto a Palazzo Buonaccorsi due protagonisti apparentemente lontani, ma sorprendentemente affini: Edoardo Camurri, giornalista e divulgatore culturale, e Davide Panizza, anima del progetto musicale Pop X.

L’incontro, carico di energia e riflessione, ha dato il via alla quarta giornata de La Controra con un dialogo profondo e ironico sul valore delle parole nella musica. Camurri, con la sua capacità affilata di osservare e raccontare, ha guidato il pubblico all’interno dell’universo linguistico e creativo di Pop X, sottolineandone l’originalità espressiva e la capacità di sorprendere. «Pop X è un’esperienza che non rassicura, che ti costringe a uscire dalle attese. È una lingua che apre il vaso di Pandora dell’Italia di oggi» ha dichiarato commentando il brano Carablia, scritto poco prima dei tragici fatti di Macerata nel 2018, e divenuto a posteriori un pezzo quasi profetico nel descrivere un clima sociale e culturale teso. Davide Panizza, dal canto suo, ha raccontato il suo processo creativo come istintivo e libero da qualsiasi costrizione formale: «Non scrivo – ha dichiarato – per piacere o per soddisfare un’estetica precisa: inseguo ciò che mi piace, senza pensare a cosa si aspetta chi ascolta. Voglio deludere le aspettative». Dichiarazione, questa, che trova conferma nei suoi testi, veloci, frammentati, provocatori, spesso costruiti come giochi di parole che nascondono significati più profondi. Durante l’incontro si è riflettuto anche sul ruolo della leggerezza nella scrittura musicale. A partire dal brano Ape Maia, tratto dall’ultimo disco Balla coi Lupi nella Stalla, Panizza ha spiegato di aver sentito il bisogno di allontanarsi da concetti troppo pesanti, per abbracciare una scrittura più spontanea, quasi ludica, ma comunque capace di trasmettere un messaggio: «Non volevo più rifarmi a quella perfezione patinata delle sigle dei cartoni animati: l’ho fatto a modo mio, con ironia». La conversazione ha toccato anche brani come Paiazo e Il mio cuore è occupato – in cui si mescolano esperienze personali, memorie collettive e riflessioni esistenziali – secondo Camurri esplicativi dell’unicità del linguaggio di Pop X: «Non ha paura di niente. Con parole semplici riesce a dire l’essenziale. È poesia».

A fare da filo conduttore all’incontro, il concetto di “archivio creativo”: per il giornalista, la sua musica si configura come un flusso ininterrotto di idee e di vita, un luogo senza finalità prestabilite in cui convivono generi, stili, intuizioni. «L’espressione artistica, come l’erba, cresce spontaneamente. Appare, si allontana, ma alla fine la ritrovi sempre», ha concluso. Le parole delle canzoni ha così restituito un’immagine viva e stratificata del legame tra parole e musica: un legame che non sempre va spiegato, ma sentito, intuito, attraversato. Come nel caso di Pop X, che con le sue melodie irriverenti e la sua scrittura sincera, riesce a trasformare anche l’assurdo in verità emotiva.


 

«Cosa posso portare, se non me stesso?»: Cocciante ospite allo Sferisterio

Cosa resta di vero nella musica, quando tutto sembra costruito per colpire?

In un’epoca in cui la spontaneità rischia di essere sopraffatta dall’ossessione per l’apparenza e dalla caccia alla visibilità, l’autenticità artistica diventa un atto rivoluzionario. È in questo contesto che Riccardo Cocciante si racconta: con la forza silenziosa e intensa di chi ha sempre preferito la sostanza all’impressione. Classe 1946, emigrato da bambino dal Vietnam alla Roma degli anni ’60, Cocciante è un artista che ha attraversato generazioni, stili e rivoluzioni culturali senza mai perdere la sua voce interiore; con una sensibilità segnata dalle radici miste e da un’infanzia sospesa tra mondi diversi, ha scelto fin da subito di camminare controcorrente. Canta ciò che sente, non ciò che conviene. Respinge mode passeggere, rifiuta imitazioni, si tiene lontano dai riflettori della banalità. Da oltre mezzo secolo porta avanti la sua idea di musica come linguaggio dell’anima, non come prodotto da confezionare.

E forse, in fondo, è proprio questa la sua lezione più grande: che la musica, quando nasce dall’anima, non ha bisogno di filtri per toccare il cuore.

Se fosse oggi un artista emergente, cosa crede che le piacerebbe portare su un palco come quello di Musicultura?

Cosa posso portare, se non me stesso? Non mi sono mai rinnegato da quando ho cominciato. Non ho mai cercato di seguire le mode, e forse è proprio per questo che, in un certo senso, sono ancora attuale. Cerco semplicemente di restare fedele a ciò in cui ho sempre creduto: essere sinceri con se stessi ed esprimersi liberamente, senza imitare gli altri né cercare scorciatoie per entrare nel sistema o adattarsi a ciò che va di moda.

Infatti in unintervista a TV Sorrisi e Canzoni lei ha dichiarato: «Oggi c’è troppa attenzione al look, sei sul palco perché hai unanima […] una canzone deve valere per ciò che è». Secondo lei, cosa si è perso nella musica di oggi rispetto a quella di quando ha iniziato? E, al contrario, cosa si è guadagnato?

Ai miei tempi la musica era un vero e proprio artigianato. Oggi, invece, mi sembra sia diventata troppo industriale. Si pensa troppo al successo immediato. Per me, il successo è qualcosa che si conquista con il valore, non un obiettivo da inseguire a tutti i costi. Quando si cerca di ottenere un successo a tavolino, si rischia di essere opportunisti — e purtroppo succede spesso. Io, al contrario, amo quando i giovani artisti mi propongono qualcosa di completamente nuovo, capace persino di sconvolgermi. È questo che considero una vera novità: una proposta originale, che non ripeta ciò che abbiamo già sentito in passato. Oggi vedo una corsa continua al successo, e in parte lo capisco, perché agli artisti non è più concessa la possibilità di sbagliare. Ma all’inizio un artista ha bisogno di tempo per capire chi è, dove si trova, cosa vuole esprimere. Noi, un tempo, avevamo questa libertà; oggi invece le etichette discografiche la concedono sempre meno: se non fai subito un successo, vieni scartato. Io credo, invece, che l’artista debba avere il tempo di maturare. Serve intuito per riconoscere il talento, e una volta individuato, bisogna investirci, lavorarci insieme, andare avanti. Ma purtroppo questo accade sempre più raramente.

Lei ha sempre dato grande spazio alla melodia e alla voce umana. In un’epoca dominata da beat elettronici e intelligenza artificiale, che ruolo vede ancora per la voce imperfetta, viva, umana?

Credo sia fondamentale creare una fusione tra uomo e tecnologia. Ho sempre amato la tecnica, fin da quando, anni fa, uscirono i primi sintetizzatori: fui tra i primi a sperimentarli. Questa fusione tra uomo e macchina è necessaria. Non possiamo fare a meno della tecnologia, ma nemmeno la tecnologia può fare a meno di noi, degli esseri umani, con tutte le nostre imperfezioni. E proprio l’imperfezione, a volte, è ciò che rende un’opera vera e autentica. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola di esagerare con la tecnica, come accade quando si abusa dell’autotune. Va bene usarlo come effetto creativo, ma non per nascondere i difetti. Ai giovani dico: andate avanti, sperimentate, ma ricordate sempre che l’elemento umano è ciò che rende la musica — e l’arte — davvero unica e bella.

Nel corso della sua carriera ha scritto per e con grandissimi artisti. C’è una collaborazione mancata, un artista che avrebbe voluto incontrare artisticamente, ma che non ha mai avuto occasione?

Ho avuto il piacere di conoscere Mina e di collaborare con lei, ma non ho mai incontrato Battisti, eppure l’ho sempre amato moltissimo. Nel corso della mia carriera ho incontrato tanti grandi artisti, che considero colleghi, non rivali. Ho lavorato con Venditti, ho fatto concerti con lui, con De Gregori e molti altri. La cosa più bella, secondo me, è che ognuno di noi è diverso. Non c’è competizione, perché ognuno ha la propria identità, il proprio spazio. L’Italia ha artisti straordinari, ma anche all’estero ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti francesi eccezionali. Quello che ho sempre apprezzato è proprio questo: non c’è nessuno che mi somigli, così come io non somiglio a nessun altro. Alla fine, siamo come isole. E restiamo isole.

Notre-Dame de Paris sta per tornare in scena in Italia a oltre venticinque anni dal suo debutto. Quali emozioni prova nel vedere quest’opera ancora così viva e attuale?

Sono emozionato, perché davvero non avrei mai immaginato tutto questo, quando abbiamo iniziato. Come dicevo prima, non si cerca il successo: si cerca l’autenticità. Abbiamo scritto quest’opera — io e l’autore francese — con amore, con sincerità, senza l’intento di stupire o di portare in scena qualcosa di straordinario. L’abbiamo fatto con verità. E credo che il pubblico lo percepisca. Sente che nella scrittura c’è qualcosa di profondamente artistico e autentico. Il nostro intento era offrire una lettura di Notre Dame de Paris attuale, ma che contenesse anche il passato e persino un’idea di futuro. Notre Dame de Paris non ha tempo: lo si capisce anche dagli arrangiamenti, dove convivono elementi moderni, come la chitarra elettrica, con strumenti antichi, come le percussioni di due secoli fa o il liuto. È un intreccio di epoche, un dialogo tra passato e presente. Forse è proprio questo uno dei segreti del suo successo. Ma c’è anche la forza della rappresentazione: ballerini straordinari, coreografie splendide. E poi c’è una fusione particolare tra persone molto diverse. Io e l’autore veniamo da mondi opposti, il regista da un altro ancora, legato all’underground. Il coreografo viene dalla danza classico-moderna. Insomma, sensibilità e stili diversissimi che si sono uniti e alla fine è successo qualcosa di inaspettato. Io lo chiamo il ‘miracolo Notre Dame de Paris’, perché sarebbe potuto non succedere nulla, e invece è successo tutto. Il pubblico se n’è accorto, si è affezionato, non l’ha più lasciato. Tanto che oggi, possiamo dirlo, Notre Dame de Paris è diventato un classico.


 

Ma chi c’è allo Sferisterio? Buonasera, io sono Tricarico 

Buonasera, io sono Tricarico non è solo il titolo di uno dei suoi recenti spettacoli, l’ouverture di un’esibizione o un semplice saluto al pubblico, ma una dichiarazione d’identità, umana prima ancora che artistica. Nella sua arte, Tricarico non si limita a esibirsi in maniera chirurgica e asettica, ma costruisce un racconto di sé, intimo e frammentato, come un diario aperto scritto però non solo a parole ma con un inchiostro magico che diventa musica, pianoforte, flauto, letture, pittura. Anche silenzi. La sua lirica ha una grande radice autobiografica e poetica che attraversa la sua esperienza di vita, da bambino a padre, da giovane artista a uomo consapevole, trasformando la vulnerabilità in forza e la memoria in narrazione. È un percorso che parte dal dolore e si compie nella sua elaborazione, nella capacità di guardare indietro, nei “boschi” interiori dove si celano ferite che hanno il germe della rinascita. Tricarico non racconta per esibizione, ma per necessità: la musica diventa così linguaggio per esprimere l’indicibile, la pittura un salvagente e un trampolino, l’arte un mondo parallelo nato dalla complessità del reale. Questa l’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià.

Il suo spettacolo Buonasera, io sono Tricarico non è un semplice concerto, ma un vero e proprio concept show: musica, letture, riflessioni personali, flauto, pianoforte e appunti condivisi e simbolici della sua vita. È uno spettacolo sull’uomo, forse più che sull’artista. Com’è nato questo progetto così essenziale ma anche intimo e diretto?

Nasce da tanti anni di scrittura, di canzoni. Era da molto tempo che pensavo e ripensavo; è la fine di un lungo percorso che parte da un bambino, Francesco, che diventa ragazzo, poi uomo e padre. Insomma, nasce tutto da un’esperienza biografica e, grazie alla musica e alle parole, ho potuto raccontare questa avventura, questo percorso di formazione.

Nei suoi lavori, da Io sono Francesco a Il Bosco delle Fragole, si delinea appunto un percorso di crescita interiore che parte dal dolore e dalla perdita di punti di riferimento nell’infanzia, fino alla riscoperta di emozioni autentiche. Il Bosco delle Fragole si ispira al Posto delle Fragole di Bergman, un luogo simbolico dove l’atto di cogliere fragole rappresenta il ritrovare sentimenti profondi. Crede che quel bambino abbia trovato nel “bosco” un rifugio poetico oppure che questo cambiamento rappresenti la naturale evoluzione di chi è cresciuto?

Riguardo a ciò che dicevi sul dolore, trovo che il fatto che faccia crescere sia una retorica. Forse, una retorica vera. Il Bosco delle fragole non si ispira direttamente a Bergman; tuttavia, è attraversando – senza rimanerci imprigionati – luoghi bui e oscuri, i boschi e i misteri che, alla fine, si evolve, si capisce qualcosa di sé che altrimenti non si capirebbe, se non passando proprio attraverso il dolore, attraverso le “selve oscure”.

La sua espressione artistica non si limita al cantautorato, ma si estende anche alla pittura, come nel progetto Don’t Stop the Paint. A tal proposito ha affermato: ‹‹Dove finisce l’Arte, finisce la Vita. La parola ferma, il colore e le linee ondulatorie no››. In che modo per lei il flusso libero della pittura, che non si blocca né si ferma, rappresenta anche il modo di vivere la vita senza limitarla, raccontandola attraverso il movimento e l’energia dell’arte?

L’arte è stata una grande possibilità per permettere, laddove la vita era molto difficile, di trovare una realtà immaginata, parallela, che consentisse inizialmente di sopravvivere, per poi diventare una grande chance di poter fare della vita ciò che si voleva. Inizialmente, però, era soprattutto una via di fuga per creare un mondo alternativo laddove il reale era troppo complesso. Poi la via di fuga è diventata un modo per riagganciarsi alla vita.

Il cantautorato, per la sua natura intimista, richiede che l’artista esprima il proprio io in modo autentico, creando un legame sincero tra testo e musica. Può raccontarci come si sviluppa il suo processo creativo e in che modo sceglie le parole capaci di tradurre in musica le sue emozioni più profonde?

Le parole sono complesse. Credo che nel cantautorato, come in tutte le forme d’arte più alte, servano onestà, ricerca e verità, affinché l’opera rimanga e non sia solo intrattenimento. Per questo servono le parole giuste per quello che si vuole raccontare. Sono importanti, vanno scelte attentamente. La semplicità è difficile da trovare: occorrono cura e attenzione, come un piccolo alchimista, come un artigiano che trova la parola giusta per dire quello che vuol dire.

Durante la sua partecipazione al Premio Tenco 2024 ha presentato un “requiem della canzone d’autore”, denunciando la progressiva perdita di contenuti nella musica contemporanea, che, pur mantenendo a volte un carattere provocatorio, risulta comunque “innocua” e spesso influenzata da algoritmi che premiano l’omogeneità digitale più che l’autenticità. Potrebbe approfondire la sua opinione sulla situazione attuale della canzone d’autore in Italia e sul ruolo che manifestazioni come Musicultura rivestono nel preservare e valorizzare questa tradizione?

Sicuramente la musica attuale rispecchia il periodo che viviamo. Oramai da molti anni si è molto ridotta la sfera di proposte della discografia e forse questo dipende appunto da questo momento un po’ desolante, un po’ triste, molto violento, molto preoccupato che la musica finisce per rappresentare. Eppure, penso che in tutto questo ci siano comunque una grande poesia e una notevole capacità di scrittura che magari adesso non sono in primo piano, ma continuano a esserci. Ci sono sicuramente tanti giovani che stanno scrivendo cose meravigliose proprio ora, laddove non c’è un grande riscontro di mercato. E quelle cose sono belle perché non le si sta scrivendo con un fine, perché il fine in questo momento è altro. Ma siccome le cose cambiano, e produzioni che ora non si immaginano come meritevoli di attenzione possono tornare a essere interesse di tutti, credo che presto verranno alla luce canzoni e artisti molto ispirati e poetici.


 

Sette note per contenere l’anima: Capossela a Musicultura

Dopo dieci anni, Vinicio Capossela torna sul palco dello Sferisterio di Macerata per Musicultura. Cantautore, narratore, rabdomante di suoni e parole, non ha mai scritto canzoni per riempire il tempo, ma per allargarlo. La sua musica è piena di personaggi fuori dal tempo, paesaggi che si portano dietro come bagagli e miti che non servono a scappare dal presente, ma a guardarlo con occhi più larghi. In un’epoca che corre veloce, il suo ritorno è una pausa preziosa: una fenditura in cui infilarsi per ascoltare con più attenzione, per rallentare, per ricordare che la canzone può ancora essere un luogo in cui abitare davvero.

Torna dopo dieci anni sul palco di Musicultura, un festival che da sempre celebra la canzone d’autore mettendo al centro la parola come strumento di ricerca e di racconto. In un panorama musicale spesso dominato dalla velocità e dall’effimero, cosa significa per lei ritrovarsi in questo spazio di ascolto così attento e carico di memoria?

Lo Sferisterio, dove si svolge questo festival, oltre che uno spazio che ricorda i suoi antichi trascorsi sportivi – qui si giocava spesso alla palla col bracciale – è un luogo importante per la musica. Platone ne La Repubblica diceva che la ginnastica e la musica sono le due discipline. fondamentali per essere buoni cittadini e in questo luogo si praticano entrambe. Mi sento di ritrovare una casa con molte colonne contro le quali sbattere la testa.

La sua scrittura ha sempre avuto una forza letteraria molto marcata. Le parole sembrano non solo accompagnare la musica, ma a volte addirittura precederla, guidarla. Come si intrecciano nel suo processo creativo la musica e la scrittura?

La musica serve a dare una struttura alle parole. A volte si dice che la canzone somiglia alla poesia, ed è vero, ma ha delle necessità diverse, che sono legate alla musica: le parole devono stare su una melodia, devono piegarsi al ritmo, al tempo musicale. La musica è un po’ come un recipiente dentro cui si cerca di raccogliere la grande marmaglia che è l’anima. Di parole ce ne sono infinite, mentre di note ce ne sono solo sette: allora è la musica che mette un argine, una forma, e in quella forma le parole devono trovare il loro posto.

Nei suoi lavori si avverte spesso il desiderio di rifugiarsi in epoche passate, miti e storie antiche. Ma oggi viviamo in tempi frenetici, pieni di urgenze e crisi. Come vive questa tensione tra il bisogno di radicarsi altrove e la necessità di parlare al presente?

Il mito è qualcosa che ci colloca in una dimensione più ampia e universale. Si può essere partecipi del proprio presente e, allo stesso tempo, usare delle allegorie per dargli un respiro più ampio. Perché, anche se la realtà a volte è terribile, piena di stimoli continui, ricorrere alla letteratura o al mito può diventare un modo per limitare queste sollecitazioni: una pausa, per quanto breve, in un tempo dove tutto è istantaneo, soprattutto nei social. Secondo me, è più interessante trasporre le cose in un’altra dimensione — più duratura — senza però sottrarsi all’attualità.

Nella sua musica si viaggia molto per luoghi, epoche e culture, dalla Grecia antica ai porti del Mediterraneo, dal folclore dell’entroterra al ballo di frontiera. C’è un luogo reale o simbolico che oggi sente particolarmente vicino, che la ispira o che rappresenta per lei un punto di ritorno o partenza?

Indicarne uno sarebbe far torto a molti altri. La musica, secondo me, è spesso legata ai luoghi, e proprio per questo è un buon modo di viaggiare: si possono scrivere canzoni portandosi dietro dei paesaggi. Io ne ho diversi a me cari, alcuni già citati nella domanda. Sono appena tornato, ad esempio, da Buenos Aires, un luogo che amo molto, dove c’è un altro tipo di musica, un altro respiro. Col passare degli anni i luoghi restano più o meno gli stessi, ma ognuno lascia un segno, come un cane che ha nascosto l’osso in diversi punti. I miei luoghi sono questi: le città urbane, la Grecia del Rebetiko, l’entroterra. Insomma, tutte dimensioni che evocano una loro musica. Dedicarsi a una sola di esse sarebbe come privarsi di qualcosa.


 

Fabrizio Biggio alla conduzione di Musicultura: “Voglio che sia una festa”

Volto noto della comicità italiana, ma anche conduttore, autore e ora pure scrittore per ragazzi: Fabrizio Biggio è uno di quei personaggi che sfuggono alle etichette e ai confini tradizionali dello spettacolo. La sua carriera poliedrica ha attraversato con disinvoltura televisione, radio, cinema e teatro, portando sempre con sé una cifra stilistica riconoscibile e originale. Dal grande successo come icona generazionale con I soliti idioti, Biggio ha saputo reinventarsi, diventando una presenza familiare e apprezzata nel panorama radiotelevisivo italiano, in particolare nel mattino di Viva Rai2! accanto a Fiorello, con cui ha instaurato un rapporto di complicità e spontaneità.

La sua comicità, sempre in equilibrio tra umorismo irriverente e viva curiosità, gli ha permesso di affrontare temi delicati con leggerezza ma sempre con grande acume, conquistando così un pubblico trasversale e fedele. Oggi, dopo anni di intensa attività e numerosi successi, Fabrizio Biggio si prepara a tornare sul palco con una nuova sfida: condurre le serate finali di Musicultura 2025 allo Sferisterio di Macerata, insieme a Carolina Di Domenico. Un appuntamento importante che segna non solo il suo ritorno alla conduzione di grandi eventi culturali, ma anche un’occasione per mostrare ancora una volta la sua versatilità e il suo talento poliedrico.

Prima di ingaggiarsi in questa nuova avventura, Biggio si è raccontato in questa intervista alla redazione di Sciuscià.

Ha iniziato la sua carriera televisiva negli anni ’90 con programmi come La Zanzara in Classe e MTV Mad, per poi diventare un volto noto ai molti grazie a I soliti idioti, condurre trasmissioni radiofoniche e televisive come Stracult, Viva Rai2! accanto a Fiorello, fino ad arrivare al teatro e ad eventi come il Concerto del Primo Maggio e i David di Donatello. Guardando indietro a questo percorso così variegato, come riesce a mantenere la sua identità artistica muovendosi tra televisione, radio, cinema e teatro?

L’artista è una persona che sente un bisogno impellente di raccontare qualcosa al mondo, spesso una propria visione della realtà. Io ho una mia visione del mondo e, in tutti i lavori che ho fatto, questa è sempre emersa. Quando sei onesto e non fai le cose solo perché “funzionano”, allora viene fuori una tua poetica. Bisogna sapersi ascoltare e capire davvero cosa si vuole raccontare.

Il progetto I soliti idioti ha avuto un impatto significativo sul pubblico e sulla scena comica italiana. Quello stile di comicità le appartiene ancora o nel tempo sente di essere cambiato?

Quella comicità lì ce l’ho ancora dentro, ma è vero che cerco un’evoluzione: sento l’esigenza di non fare sempre la stessa cosa. Lavorando con Fiorello ho scoperto altre strade comiche, un tipo di comicità un po’ meno dissacrante e più diretta. Quindi sì, sento il desiderio di esplorare, migliorarmi sempre e cambiare. Come un pittore che attraversa il periodo blu, il periodo rosa e così via, è vero che ci si annoia se si resta sempre uguali a se stessi. Io sono legato a quel tipo di comicità espressa ne I Soliti Idioti, che ci è venuta naturale, ma un’evoluzione è sempre ben gradita.

Negli ultimi anni la abbiamo vista sempre più spesso nei panni di conduttore: che tipo di libertà – o magari di responsabilità – le dà stare al timone di un programma rispetto al ruolo da comico o attore?

Io preferisco fare l’attore, perché recitare per me è un gioco. La conduzione, invece, mi diverte, ma è molto più faticosa: richiede una grande concentrazione e la capacità di improvvisare, dato che non sai mai cosa può succedere, soprattutto durante le dirette. Ricordo di aver chiesto un consiglio a Pippo Baudo su come essere un buon conduttore, e lui mi rispose che devi saper ascoltare. Ascoltando, infatti, puoi cogliere spunti che poi riutilizzi, magari in chiave comica. Questo ascolto continuo è fondamentale, ma anche molto impegnativo.

È con Carolina Di Domenico che condurrà le serate finali di Musicultura: come vi state preparando per salire sul palco dello Sferisterio e che tipo di intesa pensa si creerà?

Per quanto riguarda la preparazione, stiamo incontrando tutti i vincitori, chiacchierando con loro per creare più fluidità e sentirci più a nostro agio anche durante la conduzione. Cerchiamo sempre di non farci sopraffare dall’emozione di essere sul palco di Musicultura, che è sicuramente molto intenso. Per il resto, io e Carolina siamo amici, ma non abbiamo mai lavorato insieme, quindi scopriremo lì che tipo di intesa si creerà. Sono curioso, ma sono sicuro che ci sarà una buona sintonia; nella vita già c’è un ottimo rapporto, e questo aiuta molto: se nella vita si scherza e si ride, poi sul palco sicuramente arriva la magia.

Musicultura rappresenta oggi una realtà ben radicata nel panorama musicale italiano. Qual è il contributo che intende portare a questa storica manifestazione, giunta alla sua 36ª edizione?

Ho dei predecessori illustri e cerco di non pensarci troppo. Io porterò la mia leggerezza e il buon umore: voglio che Musicultura sia una vera festa, in cui il pubblico si senta coinvolto in prima persona, perché è lui il protagonista indiscusso, dato che sceglie il vincitore assoluto del Festival. Sì, insieme a Carolina cercherò di rendere questa manifestazione un momento di festa.


 

Cantautrici: s’il vous plaît, halte aux clichés!

Nella settimana de La Controra 2025, il Cortile del Palazzo Comunale ha ospitato l’incontro Cantautrici: s’il vous plaît, halte aux clichés!, un momento di confronto sul rapporto tra musica e stereotipi di genere, tra parole, note e sguardi femminili. Protagoniste dell’incontro Anna Castiglia e Roberta Giallo, in dialogo con John Vignola. Anche Danila Satragno, impossibilitata a essere presente, ha voluto comunque portare il suo contributo, intervenendo in collegamento telefonico per salutare il pubblico e ribadire l’importanza di abbattere i luoghi comuni ancora radicati nel mondo della musica.

L’atmosfera era quella di una conversazione aperta e partecipata, in cui il dialogo si è intrecciato con riflessioni profonde. John Vignola ha sollevato una questione ancora oggi centrale: è difficile mettere sullo stesso piano l’opera artistica di una donna e quella di un uomo, perché i meccanismi di selezione sono spesso filtrati da sguardi maschili, quando non apertamente maschilisti.

A questo proposito, Roberta Giallo ha espresso il suo punto di vista, parlando del controverso rapporto tra arte e fisicità femminile: «Non potrei dire a un’artista che usare il suo corpo come modello per affermarsi sia qualcosa di sbagliato». L’ospite ha poi raccontato un aneddoto su Édith Piaf: quando il compositore che avrebbe dovuto lavorare a La Vie en Rose si rifiutò, lei decise di andare altrove. Una scelta che incarna il desiderio delle donne di emanciparsi dall’ombra maschilista e conquistare la propria indipendenza: «Mi colpì l’idea – ha detto Giallo – che la donna, da allieva, diventasse maestra, assumendosi tutti i rischi che ciò comporta».

Perché la donna in musica rischia spesso di essere semplificata o sminuita. A Roberta Giallo è stato domandato se, nel suo percorso, si fosse mai trovata a fare i conti con la necessità di aderire a queste aspettative riduttive: «Mi sono posta questa domanda, ma ho capito che anche la semplicità può essere una forma espressiva autentica. Nel mio repertorio c’è spazio per brani che non sono necessariamente complessi o virtuosistici, ma che riescono comunque a comunicare e arrivare a tutti. Certo, non amo molto questa parola, “semplice”, perché tende a essere usata come etichetta, ma credo che possa avere un valore profondo.»

È intervenuta poi Anna Castiglia, parlando della competizione femminile nel mondo musicale. «Perché c’è questa rivalità? Non perché sia una delle caratteristiche genetiche della donna, ma perché gli spazi che ci vengono concessi sono ancora troppo pochi. Di conseguenza, tutte tendono ad accanirsi su quegli stessi, e chi riesce a emergere finisce spesso per essere odiata. Se le opportunità fossero più ampie, ci sarebbe meno competizione. Per questo credo che cooperare sia un esercizio importante: ci allena a superare quella tensione che, volenti o nolenti, ci portiamo dentro».

Questa riflessione si concretizza nel collettivo Canta Fino a Dieci, nato a Torino da cinque cantautrici transfemministe. «Per me far parte di questo collettivo è un vero esercizio: mi aiuta a ridimensionare l’ego – spiega Castiglia –  e a mettere in discussione l’idea, ancora troppo diffusa, che tra donne debba esserci antagonismo. Insieme alle altre ragazze cerco ogni giorno di costruire qualcosa, puntando sulla collaborazione anziché sul confronto continuo». Roberta Giallo aggiunge: «ho incontrato donne ostili, non preparate alla collaborazione, ma anche donne che mi hanno capita, mi hanno apprezzata, mi hanno aiutata».

John Vignola ha poi osservato come spesso le case discografiche spremano gli artisti, indipendentemente dal genere, fino all’osso, creando nel pubblico l’aspettativa che un artista debba produrre costantemente, senza mai fermarsi. «Non dico che l’andare avanti a tutti i costi ed essere tenaci sia sbagliato – ha affermato Castiglia – ma riconosco che è qualcosa che ho interiorizzato e mi è stato trasmesso culturalmente. Però si può, e si deve, lavorare per decostruire questi meccanismi ».

Alla fine dell’incontro Roberta Giallo ha espresso un desiderio: «Voglio che oggi o domani possa esistere una tradizione di donne che abbiano lasciato un segno nella musica. Non solo per l’estetica della voce o per la presenza scenica, ma perché hanno saputo veicolare le loro parole, le loro idee, attraverso le canzoni.». Anna Castiglia ha poi aggiunto: «Cominciate a fare caso se nei festival, nei programmi televisivi o nel mondo dell’intrattenimento trovate davvero un ambiente paritario. E, se non lo è, fatelo notare anche a chi vi sta intorno. Per me, la comunicazione viene prima di tutto: parlate di questi temi, anche se vi dicono che state esagerando».

Salutando il pubblico, John Vignola ha lanciato una riflessione provocatoria ma essenziale: perché alcune frasi, come “le donne sono migliori degli uomini”, sembrano meno sessiste di altre? La vera sfida – suggerisce – è riconoscere che anche un’apparente benevolenza può celare uno squilibrio di fondo, e che ogni affermazione merita sempre uno sguardo critico e attento.


 

Alla scoperta della verità, parola per parola: intervista a Edoardo Camurri

«La verità è un coinvolgimento esistenziale profondo per noi esseri umani», afferma Edoardo Camurri. Non è, dunque, solo una questione filosofica o astratta: la verità è sentimento, momento, presenza. È il coraggio di sporcarsi le mani. E la lingua, in questo percorso, è lo strumento con cui l’essere umano la cerca: un mezzo potente che può opprimere o liberare. In attesa dell’uscita del suo nuovo libro La vita che brucia, a settembre nelle librerie, Camurri — giornalista, scrittore e speaker radiofonico — racconta cosa significhi per lui cultura e come vive il processo di scrittura. Lo fa nel suo primo ingresso a Musicultura, nel Cortile di Palazzo Buonaccorsi, nell’ambito degli eventi de La Controra.

A settembre uscirà La vita che brucia, appena un anno dopo Introduzione alla realtà, che ha colpito per il suo stile psichedelico e intimista. Il nuovo libro mantiene una continuità narrativa o rappresenta un cambio di rotta? Quali “spiriti” hanno accompagnato questa nuova scrittura, come accennava nell’intervista a Minima&Moravia?

Che bello, questa è la prima intervista su La vita che brucia: in un certo senso è un battesimo. Non voglio anticipare troppo, ma qualcosa ti dico . Gli spiriti che hanno protetto il primo gattone (riferimento a Introduzione alla realtà, ndr.) sono gli stessi che proteggeranno anche questo secondo gattone. In Introduzione alla realtà, invitavo me stesso, le lettrici e i lettori a immergersi nel cuore della realtà e, come scrivo nel libro, a incontrare l’albero del Thauma, quindi la sua origine. Ecco, adesso si fa il passo ulteriore.

Quindi è un proseguimento?

Direi piuttosto un approfondimento, nel senso che si entra davvero dentro il Thauma. Non è più soltanto un’esortazione, ma una vera e propria azione. La porta d’ingresso che ho scelto è la sofferenza universale che accomuna tutti gli esseri viventi. In questo viaggio dentro la realtà, attraversando la soglia della sofferenza, c’è un grande bisogno di spiriti che ci accompagnino e proteggano. Nel mio caso, lo spirito che ha guidato e sostenuto questo cammino è stato soprattutto quello del ragionamento, del pensiero critico. Il libro è, in fondo, un grande elogio al pensiero e alla filosofia, visti come forze capaci di sostenerci e guidarci attraverso le difficoltà e il dolore.

Restando in ambito di filosofia e cultura, lei definisce spesso quest’ultima come strumento e non fine, come una connessione. Citando il suo amato Epitteto: «Non sono le cose a turbare gli uomini, ma le loro opinioni sulle cose». Oggi, con l’accesso massivo a informazioni manipolate e fake news, quanto questa connessione culturale è minacciata?

È una domanda complessa. Il problema di distinguere il vero dal falso non è affatto una novità, e il dibattito che la tecnologia oggi ci pone non è che un capitolo di una questione che attraversa tutta la storia umana. Anzi, riconoscere la verità, interrogarsi sul suo significato e non confondere l’inganno con la realtà è uno dei temi fondamentali del nostro essere umani. Queste questioni vanno affrontate con approccio filosofico, con attenzione e senza paura di “sporcarsi le mani”. Servono anche un’intelligenza critica che sappia smascherare le falsità, ma soprattutto una profonda connessione con l’esperienza, la vita e il cuore. Questo insegnano la storia e la filosofia sapienziale: la verità non è solo un concetto astratto, ma un’esperienza che coinvolge sentimenti, speranze, paure e desideri. Non dobbiamo mai dimenticarlo, perché altrimenti rischiamo di pensare alla verità come a un oggetto da misurare o da calcolare, qualcosa di distante da noi; in realtà è un coinvolgimento esistenziale profondo, qualcosa che dobbiamo imparare ad abitare nella nostra quotidianità. E infine, non è detto che la falsità sia priva di qualche verità, così come la verità può contenere qualche elemento di falsità. Proprio in questo equilibrio sottile si gioca la complessità del riconoscere ciò che è reale.

La prof.ssa Bolzoni nel suo programma ironizzava sui censori che “forniscono liste di letture interessanti”. Quali sono state le letture fondamentali che hanno nutrito il suo pensiero e portato alla nascita di Introduzione alla realtà ed in generale al suo metodo?

Questa è stata una frase molto bella di Lina Bolzoni, e sono completamente d’accordo: le liste dei libri censurati sono sempre le più interessanti. Nella mia lista per Introduzione alla realtà ce ne sono veramente migliaia. Fare un elenco è molto complicato, posso dire, però, quelli che  per me sono degli autori imprescindibili, e che infatti compaiono nel mio libro: Joyce, Elsa Morante, soprattutto con Il mondo salvato dei ragazzini, Giorgio Colli. Poi ancora, i grandi maestri dell’antica Grecia e dell’India, la tradizione ebraica, cassidica, Nietzsche. Tutto sommato, gli autori che a me interessano e che amo hanno un elemento in comune: sono scrittori del grande sì, che hanno come istinto e come predisposizione esistenziale l’affermazione e che fanno di tutto per non dire no. Preferiscono il sì al no, preferiscono che ci sia qualcosa piuttosto che nulla.

Prima parlavamo di un battesimo e questo è il suo battesimo a Musicultura, il primo ingresso al nostro festival: cosa l’ha colpita e che emozione le ha lasciato?

Mi sembra tutto molto bello, piacevole e allegro. Sono davvero contento di aver presentato Introduzione alla realtà e, soprattutto, di avere l’occasione (nell’incontro Le Parole delle Canzoni del, 20 giugno, ndr.)  di chiacchierare con un grande amico: Davide Panizza, in arte Pop X, che per me è un genio assoluto. Lo considero il più grande cantautore italiano vivente. L’idea che Musicultura e Macerata abbiano fatto incontrare il gattone con Pop X mi riempie di gioia e mi sembra un segno bellissimo.

Nell’intervista per MOW parlava del rischio di damnatio memoriae per chi rifiuta le strutture che modellano la realtà, inclusa la lingua. Ma la lingua è anche poesia, amore, creazione. Come vive questa doppia natura della lingua chi, come lei, la usa per scrivere e raccontare?

Questo è un grande tema. Perché la lingua è sempre una struttura di potere e nello stesso tempo è anche una struttura di liberazione dal potere stesso. Ricordiamo che, per esempio, Joyce scrisse in inglese, quindi utilizzò la lingua dei conquistatori della sua Irlanda per poter liberare l’Irlanda stessa. Quindi, certo, si cammina sempre un po’ sul filo del rasoio. Quello che ho un po’ imparato dai grandi scrittori e pensatori è che una delle qualità fondamentali del lavoro intellettuale dovrebbe essere la capacità di accorgersi dei luoghi comuni, delle frasi fatte. Non necessariamente per rifiutarli, ma per prenderne consapevolezza. È questo che conta: avere coscienza di ciò che si dice, soprattutto quando si ha a che fare con la lingua, che può essere tanto uno strumento di oppressione quanto uno strumento di liberazione. Il compito, allora, è abitare la lingua con attenzione, starci dentro davvero. Allo stesso tempo, bisogna abbracciare, amare, gettarsi a capofitto nelle opere dei grandi maestri che attraverso la loro lingua e le loro opere hanno conquistato spazi che noi persone normali non saremmo in grado di calpestare. Credo che il nostro compito sia quello di abitarli con fiducia, sapendo che non corriamo alcun pericolo, perché qualcuno, più grande di noi, ci è già passato prima, rendendo possibile per tutti l’accesso a quel linguaggio, a quello stile. Abitare quegli spazi diventa allora un atto di libertà e di gioia: una forma di riconoscenza verso le grandi opere, gli artisti, i poeti, i filosofi che li hanno conquistati per noi. E quando ci muoviamo dentro quelle parole, quelle visioni, siamo salvi.


 

Afa estiva? Ci pensa Refresh

Refresh, ovvero: una rinfrescata d’estate, un ritorno agli artisti che ci hanno emozionato e un nuovo slancio per la musica dal vivo nel cuore di Macerata. Dal 17 al 19 giugno, Piazza Vittorio Veneto è stata palco una rassegna che ha ospitato tre serate di concerti live a ingresso gratuito, con protagonisti alcuni degli artisti vincitori delle passate edizioni del concorso. L’iniziativa, realizzata con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE nell’ambito del programma Per Chi Crea”, è nata con l’obiettivo di dar vita a un nuovo spazio di ascolto e incontro tra pubblico e artisti, restituendo centralità ai talenti emersi da Musicultura.

La prima serata si è aperta con un tuffo – che refresh sarebbe, altrimenti?- nel passato grazie agli Yosh Whale, vincitori assoluti dell’edizione 2022. La band, che in quell’anno ha conquistato anche il premio per il miglior testo e il premio NuovoIMAIE, è tornata sul palco con la sua musica che, come ha raccontato in un’intervista, «È come un buon vino bianco»: fresca, avvolgente e capace di sorprendere a ogni sorso.

La seconda serata ha segnato il ritorno dei The Snookers, a solo un anno dalla loro finalissima allo Sferisterio. Sul palco hanno portato l’energia del loro secondo album, che – come raccontano loro stessi – ha rappresentato un punto di svolta, «un momento in cui ci siamo sentiti di andare nella direzione giusta».  Con la loro esibizione intensa ed emotiva, ma anche allegra e frizzante, hanno confermato la maturità raggiunta e il legame ancora vivo con il pubblico di Musicultura.

La rassegna si è chiusa con una doppia performance: a concludere questi tre giorni di musica sono stati Nico Arezzo e Anna Castiglia, entrambi finalisti nella passata edizione di Musicultura. L’esibizione del primo è stata un crescendo di emozioni, arricchita da un gioco di luci calde che avvolgevano il palco e si intrecciavano perfettamente con l’espressività della voce dell’artista. In uno dei momenti più coinvolgenti della serata, poco prima di concludere la sua performance, Nico ha sorpreso il pubblico invitando sul palco Anna Castiglia per interpretare insieme Nicareddu, il brano con cui aveva conquistato la vittoria a Musicultura l’anno precedente. Due voci, due anime e una stessa terra d’origine – la Sicilia – a unirle.

Anna Castiglia, invece, dopo aver conquistato nel 2024 la vittoria assoluta di Musicultura, è tornata a Macerata con l’energia brillante e ironica che la contraddistingue. Le sue canzoni, capaci di raccontare la vita con occhi lucidi e penna affilata, hanno sottolineato ancora una volta l’urgenza espressiva che l’ha fatta amare dal pubblico e dalla critica. Durante la sua performance, il Direttore artistico del Festival, Ezio Nannipieri, è salito sul palco per condividere con il pubblico un augurio sentito: che Refresh possa tornare anche nei prossimi anni, diventando un appuntamento fisso dell’estate maceratese. Del resto, la rassegna ha saputo trasformare una piazza in luogo dove la musica diventa memoria e promessa, celebrando giovani artisti, raccontando storie di ritorni e nuove partenze, sottolineando come il legame tra Musicultura e i suoi protagonisti sia fatto di emozioni che non si esauriscono con la vittoria, ma si trasformano e si rafforzano nel tempo.