INTERVISTA – Riccardo Tesi e la sua Banditaliana: folklore nostrano per La Controra di Musicultura

Riccardo Tesi è un artista che ha esplorato la musica attraverso la sperimentazione di generi, sonorità internazionali, utilizzando strumenti appartenenti alla più radicata tradizione musicale italiana, come l’organetto diatonico, antico antenato della fisarmonica. Con la Banditaliana, Tesi porta in scena una sintesi felice di quella che è la migliore tradizione artistica del centro Italia, unita all’esperienza di chi la musica l’ha vissuta in tutte le sue sfaccettature.

Cosa pensi di Musicultura, manifestazione che ha come obiettivo quello di dar voce alle nuove leve del cantautorato italiano?

Musicultura è un festival ormai famosissimo ed un buon trampolino di lancio per la canzone d’autore, genere che, in questo momento, fa anche fatica ad avere un mercato suo, soprattutto se è di qualità. Ben venga, quindi, una manifestazione del genere che, tra l’altro, è organizzata benissimo e ha una bella visibilità. Nel tempo, la rassegna ha portato alla ribalta numerosi talenti.

Io ero molto legato a Gianmaria Testa, mio grandissimo amico, che ci ha lasciato da poco e che, proprio partendo da questa manifestazione, ha iniziato a farsi conoscere al grande pubblico.

Come affrontate, in quanto band, i numerosi concerti che fate in giro per l’Italia?

L’attenzione al suono è fondamentale; cerchiamo di proporre la nostra musica al meglio; siamo meticolosi, per poter offrire un ottimo prodotto. Amiamo il nostro lavoro e cerchiamo di farlo nel miglior modo possibile.  Starà poi al pubblico giudicare, a posteriori, se lo spettacolo è piaciuto o meno.

INTERVISTA – Alessandro Carrera racconta Bob Dylan a La Controra di Musicultura

“Non basterebbe una vita per raccontare l’estro artistico di Bob Dylan: se non canta, scrive canzoni; se non scrive canzoni, dipinge e se non dipinge, fa qualche strana scultura”: così Alessandro Carrera parla dell’artista vincitore del Premio Nobel della letteratura 2016. Il viaggio dello scrittore e traduttore dei testi di Dylan ha inizio molti anni fa; negli anni ha ricoperto l’incarico di docente di Letteratura italiana e Culture del Mondo alla University of Houston e si è distinto soprattutto per i tanti riconoscimenti che gli sono stati assegnati: il Premio Montale per la poesia nel 1993, il Premio Loaria per il racconto nel 1998 e il Premio Bertolucci per la critica letteraria nel 2006. La redazione Sciuscià incontrato Carrera in occasione dell’evento de La Controra, di cui è stato protagonista a La Controra.

Bob Dylan è conosciuto al grande pubblico come il musicista che, con il suo stile innovativo, portò la canzone di protesta ad affacciarsi nel panorama musicale. Secondo lei, l’artista è più musicista o più poeta?

La commissione di Stoccolma ha conferito il Nobel a Dylan per le innovazioni che il cantautore ha portato nella tradizione della musica americana. E’ chiaro che le canzoni dell’artista sono da considerarsi poesie.

“Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l’impressione di avere fermato il tempo” scrivi in La Voce di Bob Dylan. Qual è la canzone dell’artista che incarna maggiormente questa definizione? Perché?

Mi viene in mente una canzone del 1975 che si intitola Tangled Up in Blue, in cui Dylan ha cercato una forma di composizione insolita: è un brano di 7 strofe, in cui viene raccontata una storia lineare; analizzando i suoi versi, si nota che non c’è una vera e propria successione cronologica dei fatti. Questa scelta intenzionale ha avuto come obiettivo era quello di scrivere un brano che somigliasse a un quadro, non si avverte la sensazione che il tempo scorra tra la prima strofa e l’ultima.

Da Time Out of Mind in poi, notiamo un’inversione di tendenza stilistica nella scrittura testuale che, lei stesso, definisce “alto manierismo”. Che cosa intende con l’espressione e quali sono i tratti salienti di questa nuova fase artistica dell’autore?

Dal punto di vista musicale, Dylan usa molto poco lo stile rock e pone le sue basi stilistiche principalmente nel blues, nella ballata e nella canzone leggera da salotto. Dal punto di vista testuale, da Time Out of Mind in poi, invece di scrivere canzoni che raccontano fatti, il cantautore ha iniziato a costruire delle architetture intorno a delle parole; è il caso, questo, di Mississipi, il cui testo si costruisce totalmente intorno al titolo della stessa.

Che ruolo riveste, nell’industria culturale americana degli anni ‘60, la figura di Bob Dylan?

L’importanza di Bob Dylan sta nell’aver cambiato il panorama musicale come, prima di lui, avevano fatto i Beatles, i Rolling Stones e Jimi Hendrix; fu il primo a introdurre il folk revival e, passando successivamente alla musica rock, dimostrò come il genere rappresentasse un contenitore fluido, dove poter immergere contenuti molto complessi. In questo senso, il cantautore americano ha spianato la strada a tutte le rivoluzioni musicali, che sarebbero poi avvenute a partire dagli anni ’60 in poi.

INTERVISTA – “Non mi è costato nulla fare l’eroe”: Carlo Nordio si racconta a La Controra di Musicultura

“La pensione è il momento più bello della vita perché mi permette di dedicare il mio tempo alle passioni più grandi che ho”: si conclude così l’intervista con Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia che coltiva con dedizione la sua passione più grande: la giustizia. In occasione de La Controra, l’ex magistrato ha presentato il libro “Crainquebille, il venerdì santo del diritto”, opera di Anatole France, da lui curata.

Ha ricoperto per lungo tempo lo stesso ruolo: ciò è curioso, in un ambiente attento alle promozioni di carriera: qual è il motivo della sua scelte, così controcorrente?

 La mia scelta controcorrente è legata al desiderio di dire sempre quello che penso; non ho mai rinunciato a manifestare le mie idee per altri tipi di vantaggi. Mi sono sempre trovato bene alla procura di Venezia e non ho mai ambito a diventare procuratore generale o procuratore capo.

Nella prefazione di “Crainquebille, il venerdì santo del diritto”, scrive che “ll concetto di giustizia si afferma solo nel calvario delle sue sconfitte, nel ricorrente venerdì santo del diritto, senza il quale non ci sarebbe la pasqua dell’equità”. Crede che la nostra società sia pervasa da ingiustizia? Qual è la sua idea di giustizia?

 La giustizia umana è fallibile, non sarà mai perfetta. Il compito di noi magistrati è cercare di limitare i rischi di un potere giudiziario ingiusto, lavorando sulle due doti del magistrato, oltre a quelle tecniche: il buon senso e l’umiltà. Queste abilità non le impari sui libri o alle scuole superiori della magistratura, ma nella vita di tutti i giorni, che ci rende consapevole dei nostri limiti e dei rischi del lavorare in un ambiente così delicato, come la giustizia. Infine, il consiglio che mi sono sempre sentito di dare ai giovani è di mollare ogni testo di diritto e cominciare a leggere una tragedia di Shakespeare, che ha molto più da insegnarci.

 Ci spiegherebbe la scelta di dedicare “Crainquebille, il venerdì santo del diritto” a Marco Pannella?

 Ho avuto un rapporto di grande affetto con Marco Pannella; sono stato tra i pochi privilegiati ad avere la possibilità di salutarlo nel suo ultimo mese di vita, in Via della Panetteria. Un episodio che ci lega particolarmente è che a suo tempo mi ha querelato, a causa di una dichiarazione nel mio libro sulla giustizia: avevo scritto che tutti i partiti si erano finanziati in modo illegale, non solo quelli colpiti da tangentopoli. Ovviamente mi riferivo ai cinque partiti di governo e a quello di opposizione, il PCI e non pensavo minimamente ai radicali. Dopo l’equivoco è stato chiarito.

Stiamo vivendo un momento politico difficile, in cui c’è sfiducia nella classe politica e nella rappresentanza. Qual è la sua opinione a riguardo? Come immagina la politica tra 10 anni?

La politica italiana è in piena trasformazione. Non riesco ad immaginarla tra sei mesi, così come tra dieci anni. Mi auguro però la sua permanenza nella comunità europea, a dispetto di chi vorrebbe farci uscire dall’Euro, e la realizzazione di una nuova legge elettorale, che permetta di sapere chi ha vinto, già il giorno dopo le elezioni.

Continuerà ad occuparsi di giustizia, adesso che è in pensione?  

 La pensione è il momento più bello della vita perché mi consente di dedicarmi alle passioni più grandi che ho: la lettura, lo sport, in particolare il nuoto e la scrittura.

INTERVISTA – Ellade Bandini conquista il pubblico de La Controra di Musicultura 2017, tra aneddoti e canzoni

Tecnica, originalità e improvvisazione sono gli elementi che lo contraddistinguono: il rinomato batterista Ellade Bandini, ospite de La Controra mercoledì 20 giugno, ha regalato al pubblico di Musicultura aneddoti e performances incantevoli. Un professionista di un certo peso, che ha lavorato a più di 800 incisioni musicali con numerosi artisti del cantautorato italiano: da Guccini a De André, dai Nomadi a Vecchioni, passando per il Jazz con Lee Konitz, Danilo Rea e tanti altri. Per mezzo della batteria, Bandini ha dato alla musica anima e corpo, suonando col solo scopo di divertirsi e divertire.

Ecco l’intervista ad uno dei più grandi del batterismo italiano, curata da  Sciuscià.

L’artista, nell’immaginario popolare, è visto come genio e sregolatezza. Lei come si definisce?

Mi definisco un batterista da turismo, non sono da competizione: non voglio giungere in fretta ai traguardi; ci arrivo molto lentamente, tranquillamente, in modo naturale, come un turista. Suono per piacere, senza cercare la competizione. Non ho mai avuto la fissa di arrivare per forza in alto, senza prima aver visto e vissuto quello che c’è alla base di una carriera.

Con Ares Tavolazzi e con Vince Tempera – anche lui ospite qui a Musicultura -, nel 1969 ha dato vita ai The Pleasure Machine. Di quell’esperienza, cosa le rimane?

Eravamo tre giovani che si incontravano nei momenti liberi, in cui si adoperavano per produrre qualcosa, scrivendo e arrangiando dei brani. Ricordo quei giorni come l’inizio di questa mia lunga e meravigliosa esperienza musicale. Ancora oggi, quando suono, sento la stessa energia che provavo allora.

Fabrizio De André lo voleva al suo fianco e, da perfezionista, non ammetteva improvvisazioni; com’è nato il vostro incontro?

È avvenuto per caso. De André faceva fatica a seguire il tempo del suo batterista e non riusciva ad incastrare alla perfezione le parole coi suoni; a pochissimi giorni dall’inizio del tour di “Creuza de mä”, decise di sostituire il batterista. In quel periodo stavamo terminando i concerti con Guccini; incontrai per caso Mauro Pagani, che mi chiese se volevo suonare con De André: risposi con un sì deciso. Dovevo darmi da fare e cercare di essere adatto, perché Fabrizio teneva molto alla precisione, senza contare che nelle discussioni voleva avere sempre ragione (ride, n.d.r.). Alla fine l’esperienza andò benissimo, in un periodo in cui ero molto tranquillo e sicuro di me.

Ha partecipato all’album dei Nomadi “Ma noi no”, l’ultimo con Augusto Daolio: che ricordo ha di lui?

L’ho conosciuto molto tempo prima dell’incisione del disco. Nel ’73, Tempera, Tavolazzi ed io accompagnavamo negli Usa Alberto Anelli; c’erano anche i Nomadi: siamo rimasti tutti insieme per due settimane. Penso di non essermi mai divertito così tanto con una persona. Augusto era una persona incredibile, divertente e molto intelligente. Sul palco era un monumento, una figura importantissima ed una persona speciale.

Come cambia il contributo della batteria nel genere pop rispetto a quello jazz?

Da giovane ho avuto la grande fortuna di iniziare a suonare nelle sale da ballo. Dovevo farmi piacere ogni cosa e suonare di tutto; in fondo mi piacevano moltissimi tipi di musica, anche il valzer romagnolo. Aspettavo con entusiasmo la possibilità di suonare un pezzo di James Brown o di rock ‘n’ roll, ma mi adattavo ad ogni genere. Il jazz mi è servito soprattutto per il mondo del cantautorato, e viceversa. Il bello della canzone d’autore è che non ti mette in competizione con gli artisti di musica pop, in quanto quest’ultima prevede un utilizzo della batteria piuttosto metodico e uguale a se stesso; nel cantautorato, invece, puoi improvvisare, inventare, sperimentare delle tecniche nuove.

INTERVISTA – Ron ai vincitori di Musicultura 2017: “Ora è il il momento di mostrare l’anima”

E’ Ron uno dei noti personaggi della musica d’autore che, domenica 25 giugno, ha calcato il palco dello Sferisterio in qualità di ospite d’eccezione della finalissima della XXVIII edizione di Musicultura.

Un nome storico, quello di Rosalinio Cellammare, che ha segnato gli anni d’oro della musica leggera del nostro paese; la sua ultima esibizione al Festival risale al 2006, occasione in cui ha cantato Non abbiamo bisogno di parole.  Dopo un attento soundcheck, in un caldo pomeriggio d’estate, la redazione di Sciuscià ha avuto la possibilità di fare qualche domanda al cantautore.

Si è esibito sul palco di Musicultura per la prima volta nel 2000, quando ancora il Festival si chiamava Premio Città di Recanati; poi, nel 2006. C’è un ricordo che lo lega a Musicultura?

Macerata è sempre un bel vedere: una città che conserva il fascino dell’antico e che allo stesso tempo trasmette tantissimo anche a quelli che, come me, la vivono solo di passaggio. Ho capito, sin da subito, che Musicultura è un festival organizzato molto bene e che riserva grande serietà e rispetto nei confronti di tutti, concorrenti ed ospiti. Ricordo uno scambio di battute tra me e Baglioni, a proposito della qualità del concorso, e anche lui era d’accordo con me.

Noi, ad esempio, ricordiamo bene la sua esibizione allo Sferisterio, occasione in cui ha cantato Non abbiamo bisogno di parole. Gli otto vincitori di Musicultura, invece, di parole ne hanno sempre bisogno da un professionista del suo calibro: quali dedicherebbe proprio a loro, così come a chi decide di intraprendere la carriera musicale?

Quando si tratta di parole da dedicare ai giovani ho sempre un po’ di timore, perchè potrebbero rivelarsi consigli pericolosi per alcuni di loro. Comunque io credo che per gli otto vincitori sia arrivato ora il momento di mostrare la loro anima e tutto il talento che hanno, soprattutto quello della scrittura. Con il tempo mi sono reso conto che all’estero praticamente tutti gli artisti sono autori dei propri brani, cosa che accade meno in Italia; ciò mi dispiace, perché credo che sia importante mantenere vivo il cantautorato.

Oltre ad essere interprete, ha anche scritto numerosi successi come Attenti al lupo, cantata da Lucio Dalla. Quale parte del lavoro di musicista preferisce?

L’aspetto più bello e soprattutto più divertente è stare sul palco e fare concerti in giro per l’Italia. Quando mi esibisco mi sento me stesso, sono rilassato e tranquillo; immagino i miei live come dei regali che mi faccio da solo per sentirmi bene. Dovendo scegliere tra essere interprete o compositore, adesso preferisco cantare dei pezzi, mentre all’inizio della mia carriera puntavo molto di più sulla scrittura e sulla composizione.

Durante la sua carriera ha avuto la possibilità di prendere parte alla realizzazione di diversi lungometraggi, soprattutto durante la fine degli anni ’70. Cosa le ha lasciato, artisticamente e umanamente parlando, questa esperienza nel mondo del cinema?

Il mondo del cinema mi ha regalato tante belle cose. Ho avuto la fortuna di recitare con registi importanti, come Monicelli, Montaldo o Magni. Sul set ho vissuto esperienze molto forti, che hanno arricchito il mio bagaglio personale. Tra i vari progetti, ricordo in particolare “In nome del Papa Re”, diretto da Luigi Magni, appunto. In quell’occasione ho recitato al fianco di Nino Manfredi; fu  un’esperienza ricca di emozioni.

All’interno delle sue canzoni si legge spesso una forte componente sociale, come ad esempio nel brano L’uomo delle stelle. Secondo lei, qual è il vero potere della musica? Cos’è in grado di generare in chi ne fruisce, rispetto alle altre forme d’arte?

Penso che la musica abbia un grande valore aggiunto, che è quello della leggerezza. Attraverso una canzone, anche un argomento percepito come troppo impegnativo o problematico, può essere alleggerito e reso più comprensibile. Trovo che questo sia un aspetto meraviglioso.

INTERVISTA – “Il soul è la musica degli outsiders”: Alberto Castelli presenta “Soul Books” a La Controra di Musicultura

A ripercorrere le tappe più importanti e i retroscena delle storie dei più grandi artisti che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, hanno lasciato un segno nella storia del soul, è stato Alberto Castelli, direttore della collana di libri “Soul Books”, nonché autore del volume “Otis Redding. La musica è viva”; il conduttore di famosi programmi per Radio Rai – ad esempio, Sterenotte, Radio 1 Musica e Battiti, I Concerti di Suoni & Ultrasuoni -, è stato ospite dell’evento organizzato nell’ambito de La Controra, intitolato “Soul Books – I colori della musica dell’anima attraverso la vita dei suoi protagonisti”, alle 21:15, a Palazzo Ciccolini. “Riprendendo il pensiero hegeliano, se il gospel fosse la tesi e il blues fosse l’antitesi, allora il soul sarebbe la sintesi che unifica ed eleva le opposizioni precedenti”: queste le parole con cui Castelli ha dato il via all’evento, di cui è stato protagonista. Alla nostra redazione ha raccontato questo e molto altro ancora.

Nella collana “Soul Books”, di cui è direttore, sono stati disegnati personaggi della musica soul utilizzando parole semplici, dirette, immediate: compito non semplice, considerata la vastità dei racconti di cui sono protagonisti i più grandi dellablack music. Come si è svolto il lavoro e com’è stato collaborare con illustri nomi del giornalismo italiano?

Innanzitutto abbiamo deciso di focalizzarci su dieci artisti, raccontati in dieci libri. Il periodo storico che abbiamo scelto è quello compreso tra gli anni ’60 – vero cuore della stagione musicale soul – e ’70. Successivamente abbiamo ipotizzato degli accoppiamenti tra gli artisti e gli eventuali autori; il risultato finale è stato un successo: gli scrittori hanno trovato un feeling con il personaggio raccontato. Si è pensato da subito a libri agili, leggeri e con un linguaggio molto diretto, esattamente come è la musica di cui parlano gli scrittori; a caratterizzare il progetto sono due elementi inamovibili: la spontaneità e l’emotività.

Cronache e leggende, dunque, in questi volumi monografici: quanto è importante conoscere il contesto storico per cogliere il vero significato del genere soul?

È fondamentale, perché questa musica riflette esattamente ciò che accadeva in America in quel periodo. Il soul si potrebbe definire come la colonna sonora ideale delle grandi lotte per i diritti civili; sarebbe impossibile isolarla dal suo contesto. È un genere che ha anticipato eventi che sarebbero accaduti solo in futuro, ma soprattutto ha accompagnato in diretta quel presente.

La soul music ha avuto una forte funzione sociale, così come politica e culturale; al giorno d’oggi, in quali artisti sono riscontrabili questi aspetti?

Ovviamente parliamo di un genere che ha raggiunto l’apice in quel determinato periodo storico; la cosa bella della musica afroamericana è che il passato non viene mai dimenticato, ma viene sempre riaffrontato e reinterpretato. Pensiamo per esempio agli artisti del rap e dell’hip hop – ossia protagonisti del suono nero contemporaneo -, che usano spesso i campionamenti, ovvero riprendono le canzoni del passato, per poi riutilizzarle. È anche per questo motivo che la musica soul è stata tramandata da una generazione all’altra. Al giorno d’oggi sicuramente alcuni degli artisti che rappresentano meglio questo periodo storico sono D’Angelo e Erykah Badu. Partendo dal gospel, considerata la musica di Dio, e dal blues, la musica del diavolo, si è arrivati al soul, che ha poi plasmato tutti gli altri generi, come il rock, l’hip hop e il funk; questa percorso artistico ha origine con i dieci maestri raccontati nella collana “Soul books”.

Rimanendo in tema dell’evento de La Controra di cui lei ne è protagonista, quali sono i colori della musica dell’anima di Alberto Castelli?

Ovviamente il nero può rappresentare il soul sotto vari aspetti; però personalmente il primo colore che associo a questo genere è il rosso, perché rappresenta la passione e l’emozione che solo questi grandi artisti nella collana “Soul Books” sono riusciti a trasmettere, attraverso un suono che arriva diretto all’anima.

E i colori di Musicultura?

Parto dalla premessa che Musicultura è una manifestazione affascinante, che si è sempre più consolidata, con il passare del tempo. Molto spesso vari concorsi musicali risultano ambigui; qui, invece, la serietà, la passione e il rispetto per la musica sono i punti di forza che caratterizzano il Festival di qualità. Personalmente ho seguito Musicultura sotto diverse vesti professionali: infatti gli “Acustimantico”, che hanno vinto la XIV edizione della rassegna, erano un mio gruppo; inoltre, quando nel 2005 Cristicchi si è aggiudicato il premio del Vincitore Assoluto con “Studentessa universitaria”, io lavoravo a Radio1, che trasmetteva le varie fasi della manifestazione.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura, Michele Bovi svela la storia inedita della musica italiana

Ad inaugurare i pomeriggi de La Controra al Cortile del Palazzo Municipale è stato Michele Bovi, che ha raccontato le sue Note segrete: Eroi, spie e banditi della musica italiana; all’incontro, lo scrittore e giornalista ha ripercorso gli anni d’oro della storia della musica italiana, che si sono malauguratamente intrecciati con la criminalità organizzata e i servizi segreti dello nostro Stato.

Poco prima dell’evento, Bovi ha rilasciato un’intervista alla nostra redazione.

Da dove nasce l’idea di questo racconto?

Sono un giornalista e mi sono occupato di musica sempre attraverso dei percorsi paralleli, ma mai direttamente, come recensore di cantanti o giudice di talent. Poco tempo fa ho realizzato per Rai 1 cinque puntate di uno speciale che si chiamava “Segreti Pop”, trattando principalmente di due argomenti: i contatti con la criminalità e la monitorizzazione dei servizi di sicurezza sulla musica italiana; da questi special è nato poi un libro.

Rimanendo in tema, il suo è un libro puntuale e ricco di documenti inediti che presenta un nuovo universo musicale composto da note segrete: quanto è durata e come ha impostato la lavorazione di quest’opera, data la quantità di materiale che vi è all’interno?

Per il programma televisivo ho impiegato circa 3 mesi di lavoro e altri 12 mesi per perfezionare il libro che è inoltre molto illustrato e ricco di immagini inedite.

Molti sono i programmi di successo che la accreditano come il massimo esperto di musica e videoclip e tra i tanti citiamo il programma televisivo “TechetecheTè”: nei filmati vengono ripercorsi oltre 60 anni di storia della televisione italiana. Come sono cambiati l’intrattenimento e lo spettacolo del piccolo schermo? Cosa ne rimane della “classe” della vecchia televisione italiana?

C’era un’altra televisione, dove non esisteva concorrenza; all’epoca la Rai si poteva permettere anche di trattare maggiormente approfondimenti musicali, proprio come voi. L’intento era proprio quello di acculturare il pubblico. Oggi si rincorre l’audience e, di conseguenza, bisogna rinunciare a qualche contenuto culturalmente più alto.

Coltiva da anni la passione per la musica; sono noti infatti i suoi trascorsi da sassofonista. Quando ha iniziato a suonare?

Ho iniziato a sei anni, suonando prima il clarinetto e poi la chitarra. Successivamente mi sono anche iscritto al conservatorio Santa Cecilia di Roma, specializzandomi nel contrabbasso; poi è nata la passione per il pianoforte complementare. Quello che più definirei come il mio strumento è il sassofono: a diciassette anni ero nel complesso di spalla della tournée di Jimi Hendrix.

Secondo lei qual è la nota segreta di Musicultura?

Voi avete la fortuna di non rincorrere nessuno e di non subire la concorrenza; conosco Musicultura perché venni nel 2006, insieme ad un ragazzo di 80 anni, Clem Sacco, che allora era un personaggio totalmente sconosciuto. Musicultura consente di osare nella cultura musicale: ha infatti permesso a Clem di salire sul palco; un artista che, da quel momento in poi, è diventato una leggenda del rock proto demenziale. Quindi ringrazio il Festival.

INTERVISTA – “La mia penna è molto più bella di me” : Barbara Alberti a La Controra di Musicultura

Barbara Alberti è stata la protagonista dell’ultimo appuntamento de La Controra, che si è tenuto domenica 25 giugno; in occasione dell’evento intitolato “Le parole che non ti ho detto” – ideato e condotto da Vincenzo Galluzzo – si è così lasciata andare ai ricordi dei momenti vissuti durante la sua carriera.

“Cara Marta, dopo la tua morte hanno scritto che eri la regina dei salotti. Non è vero: eri la regina e basta”: la lettera che la giornalista, scrittrice, nonché sceneggiatrice e volto noto della televisione italiana, ha letto al pubblico di Palazzo Conventati è dedicata all’amica Marta Marzotto, venuta a mancare nel luglio del 2016; racconta dunque di una “Sheerazade vestita da tigre”, che nel nostro tempo aveva trovato la sua belle èpoque, in cui vivere e sognare. La scrittrice umbra ha voluto ricordare la generosità e la “pazzia” fuori dal comune che caratterizzavano la Marzotto e di quei suoi tre uomini che teneva legati a sé, come la calamita con il ferro, grazie al suo fascino sconfinato. “Peccato che io non creda, altrimenti ti avrei rivista in paradiso”, ha scritto la Alberti che, a proposito del suo contrastato rapporto con la Chiesa, ha confessato: “Sono di formazione cattolica, ma una volta che non ho creduto più in dio sono diventata religiosa”.

Ecco cosa, inoltre, ha raccontato alla nostra redazione.

Lei è spesso ed orgogliosamente controcorrente rispetto agli standard della società. Da dove trae forza la sua ribellione?

Sono nata in un’altra epoca, in un tempo crudele, quello del dopoguerra, e non in un mondo virtuale come l’odierno. La bontà allora non si chiamava buonismo, il sesso te lo dovevi guadagnare a mano armata e non era un obbligo sociale. Oggi tutti questi finti lussi e libertà ci schiacciano: sotto ogni aspetto ha vinto il capitale e stiamo vivendo in un mondo di schiavi. Lei dice controcorrente? Ma io mi aggrappo al ramo, ho paura! Ho paura per i miei figli, per i miei nipoti, per gli amici e per me stessa. Mi aggrappo perché ho terrore di questo mondo così assassino, crudele e molto noioso. Tutto ciò mi sta avvelenando – non le sigarette che fumo [ride n.d.r.]; ora dico questo, ma in realtà sono contagiata da ciò che mi è attorno.

Il suo ultimo libro, “Riprendetevi la faccia”, è un esercito fatto di parole, che si schiera contro la dittatura dell’eterna giovinezza, l’ansia femminile di invecchiare, la chirurgia estetica come unica via di fuga. Qual è il suo rapporto con la vecchiaia?

La vecchiaia femminile è diventata un tabù: è come se le donne non avessero più diritto di invecchiare. Io non faccio alcuna retorica sulla bellezza dell’anzianità: fa schifo, è una maledizione biblica, è la porta della morte. Tuttavia ricordo le mie nonne, che invecchiavano senza fare storie: sapevano di vivere una stagione, così come una condizione della vita umana. Posso capire che uno può essere distrutto dall’idea della deperibilità, ma non che ci si debba lasciar “intortare” da quello che oggi è il modello di bellezza pubblicitario o televisivo, come se la vecchiaia possa non giungere più; e invece sì, che arriva!

Questo, secondo lei, accade perché nella trasmissione dei valori dai tempi delle sue nonne alle nuove generazioni di ventenni con il botulino c’è in qualche modo un anello mancante?

Oggigiorno le passioni vengono chiamate con il nome di malattie; in questo frangente, tutto è medicalizzato. I genitori parlano ai ragazzini come fossero degli psicologi e non genitori; si avverte sempre questa “fottitura” della vulgata psicoanalitica-psicologica. Così, se lei adesso vuole andare a letto con un bel tipo di 50 anni, la gente inizia a dire che lei sta ricercando un padre, anche se non è vero: lei vuole l’amore, l’imprevisto, il desiderio, l’imperscrutabile. La morte dell’immaginazione fa molto male all’uomo.

Nella sua biografia ufficiale si legge che i protagonisti dei suoi romanzi “lanciano tutti la stessa sfida: trovare la più invisibile tra le felicità”. Lei ha trovato la sua felicità?

La felicità è una cosa troppo grande per la condizione umana. Viene e poi va. Sono felice di stare al mondo, nonostante tutto. Poi ho questo giocattolo fantastico che è la scrittura, che non costa nulla. Mi metto a tavolino con un foglietto ed ho tutte le vite che riesco a scrivere. La mia penna è molto più bella di me. Non so se la mia felicità consista nell’avere un tozzo di pane, un tetto, la famiglia che sta bene ed un pezzo di carta. Nonostante ciò, tutto questo si avvicina molto al concetto che ho della serenità.

Spesso si ha la sensazione che anche la letteratura oggi abbia perso qualità. Se le chiedessi di dirmi un libro che, invece, l’ha colpita?

Ho letto un libro di Fiamma Satta, intitolato “Io e lei. Confessioni della sclerosi multipla”. La scrittrice fa parlare la sua malattia: la protagonista è quindi una carogna bestiale, una nemica del genere umano. L’autrice ha esorcizzato la sclerosi multipla, prendendosi così una rivincita grandiosa. È meraviglioso vedere come tutto può essere rovesciato attraverso l’immaginazione.

A La Controra, la vita in un tratto di matita: a tu per tu con Staino

Disegnatore satirico, vignettista, regista, nonno. Sergio Staino racconta la sua vita al pubblico del La Controra, sabato 24 giugno, al cortile del Palazzo Municipale. E’ dalle grandi sfide che arrivano le soddisfazioni più grandi: questo l’insegnamento più grande che l’artista ha regalato al pubblico di Musicultura. Dopo qualche autografo, l’ex direttore de L’Unità ha rilasciato un’intervista alla redazione di Sciuscià.

Negli ultimi anni, soprattutto sul web, la satira ha ricevuto aspre critiche dagli utenti. Qual è il vero fine della satira?

La comunicazione satirica può essere usata a scopi propagandistici, ma è una tipologia che a me interessa meno, perché ha come fine l’umiliazione o lo svilimento. La satira che preferisco è quella che denuncia le ipocrisie oppure quella che cerca di scovare le magagne e le cose che non funzionano all’interno di situazioni dove tutto appare forte e sicuro. Io credo poi che uno Stato che accetti una libera satira, sia un buono Stato, o che comunque sia una nazione che ha poco da nascondere. Infatti non è un caso che in tutte le situazioni liberticide la prima ad essere uccisa sia proprio la satira, che però non scompare mai del tutto, grazie al carattere vivo delle sue barzellette. Quest’ultime, soprattutto nei paesi fascisti e comunisti, andrebbero trascritte e raccolte in volumi, perché sono delle creazioni satiriche di grande valore.

Oltre al livello umano e personale, la malattia ha influenzato il suo sviluppo artistico?

Non solo mi ha influenzato ma è stato l’inizio della mia attività artistica. Fino a quel momento avevo fatto un disegno molto impersonale, fin troppo facile; era come se non avessi trovato una strada per raccontare il mondo attraverso il disegno. La malattia mi ha costretto a concentrami tanto e a dovermi sforzare per conquistare millimetro per millimetro cose che prima avevo a portata di mano. Tutto questo però ha arricchito il mio segno: di un disegno comune ne ha fatto uno particolare, che è il disegno di Staino.

Oltre che disegnatore e giornalista ha anche diretto dei film: cosa significa il cinema per lei? È stata una parentesi aperta e chiusa tra gli anni 80 e 90 o pensa di tornare dietro la macchina da presa in futuro?

Posso fin da subito dirti che non tornerò a dirigere film, in quanto gli occhi mi hanno fregato veramente molto in questo campo. Quando ero alle mie prime esperienze di regista ho iniziato ad avere dei problemi, ma sono riuscito a continuare. Nel momento in cui non riuscivo più a vedere le espressioni degli attori o le inquadrature, però, ho deciso di abbandonare tutto. Ciononostante sento che la mia vera personalità sia chiusa all’interno del disegno. Nel corso della mia vita ho fatto tantissime cose diverse: ho diretto film e spettacoli teatrali, ho seguito la direzione artistica di “Estate Fiorentina”, sono stato direttore di periodici, ho fondato un giornale satirico. E’ proprio facendo tutte queste cose che ho capito l’importanza del disegno. Quando disegno qualcosa io so benissimo cosa ho appena fatto e se mi piace la difendo a morte. In tutti gli altri campi, invece, ho sempre avuto il bisogno di ascoltare il giudizio degli altri per sapere se erano cose abbastanza belle o meno. Questo mi ha fatto capire quale fosse la mia vera e unica strada, il disegno.

Musicultura dà spazio ai giovani e alla loro creatività: che consiglio darebbe a uno di loro per quanto riguarda un’ipotetica carriera nel mondo della musica?

La prima cosa da fare è imparare a ricercare le emozioni che ci circondano. Il problema dei giovani, che poi fu anche un mio problema, è che spesso sentono la frenesia di dover far qualcosa, perdendo così di vista quello sta loro attorno, quello che la gente dice e fa, le contraddizioni del mondo esterno. Ma in realtà è da questo che l’idea esce fuori. Se invece ci si chiude in una stanza a pensare a cosa poter fare, non succederà mai niente. Io lo vedo tuttora oggi: quando le mie vignette sono frutto di un’emozione interna rispetto a qualcosa di esterno, piacciono sempre di più. Il lettore lo sente quando dietro c’è della verità.

INTERVISTA – Alla bottega del cantautore de La Controra, gli artigiani della musica: Giovanni Truppi e Paolo Benvegnù

Giovanni Truppi, artista che esplora la musica attraverso la sperimentazione e l’introspezione, e Paolo Benvegnù, ex-leader della band alternative-rock “Scisma”, nonché cantautore molto apprezzato dal pubblico e dalla critica musicale, hanno rilasciato questa intervista alla nostra redazione, poco prima della loro esibizione, venerdì 23 giugno, al Cortile del Palazzo Municipale di Macerata; durante l’appuntamento, i due artisti hanno discusso con John Vignola sull’importanza della parola nella musica, declinata in chiavi diverse, e che assume sembianze sempre nuove, senza mai però perdere di qualità artistica.

Giovanni, nelle tue canzoni la narrativa usa spesso i toni della quotidianità e i tuoi testi risultano molto colloquiali, seppur introspettivi, e mai banali; questo si va a contrapporre alla tendenza diffusa nel nuovo cantautorato italiano di cercare forme testuali più criptiche ed ermetiche. Qual è il tuo rapporto con la parola?

La parola per me è molto importante. Sono completamente d’accordo con l’affermazione riguardo al cantautorato italiano: ci sono entrambe queste tendenze tra le persone che fanno musica adesso. Per quanto mi riguarda, la parola è la parte più difficile della composizione di una canzone e mi impegno sempre per far emergere questa dimensione colloquiale.

Paolo, tu sei passato dal lavorare con una band, gli Scisma, alla carriera di cantautore solista, che sin da subito ha ricevuto il plauso della critica. Cosa è cambiato tra queste due dimensioni? Che fine fa l’individualità di un musicista quando si scrive in una band?

In tutta franchezza, non mi sento tanto diverso. Anche con gli Scisma in realtà lavoravo ai pezzi: scrivevo buona parte dei testi e partecipavo alla creazione collettiva della musica. La stessa cosa la applico al mio percorso da solista, ma logicamente, in un gruppo che si chiama come una persona, aspetto anche bizzarramente curioso, le dinamiche cambiano. Per certi versi non è cambiato nulla; cambiano le persone che mi ruotano intorno e ovviamente cambia la musica che gira intorno a queste persone.

Perché, a vostro parere, Musicultura ha invitato proprio voi per rappresentare due generazioni di cantautorato?

Giovanni Truppi: questo bisognerebbe chiederlo a Musicultura! [ride, n.d.r.] Credo (e mi auguro) che sia perché ci sia una stima nei confronti del lavoro sia mio che di Paolo, che seguo da sempre e che, sin da quando ho iniziato a fare musica Paolo, per me è una delle figure delle quali mi sarebbe piaciuto ricalcare il percorso

Paolo Benvegnù: sono rimasto molto stupito Apprezzo molto questa manifestazione, vi ho anche preso parte con gli Scisma nel 97. Ho preso quest’invito come un segnale molto positivo; sono tanti anni che cerco di scrivere canzoni con pochi compromessi, anzi, con assolutamente nessun compromesso. Il riconoscimento di essere chiamato insieme ad un “gigante” come Giovanni Truppi è bellissimo e arriva come una bellissima sorpresa.

Oltre a far parte di due generazioni diverse, venite anche da parti d’Italia molto distanti tra loro: Paolo, tu sei lombardo, mentre tu, Giovanni, sei napoletano. Quali sono le scene più vivaci della musica italiana oggi?

Giovanni Truppi: non credo tantissimo nelle scene e non le osservo molto. Mi sembra però che a Roma ci siano moltissimi artisti che ascoltiamo in questo momento. Sebbene anche in altre parti d’Italia ci sia comunque movimento, credo che a Roma si ritrovino molti dei musicisti di oggi. Come me, che sono napoletano ma vivo a Roma.

Paolo Benvegnù: per mia esperienza, una scena vivacissima culturalmente e non solamente dal punto di vista strettamente musicale è Prato, che ha una grande rinascita sia tra chi fa e chi ascolta musica. Prato, non Firenze, è la città che vedo più in ascesa, per ciò che interessa a me ovviamente. È inutile dire che ultimamente da Roma vengono fuori prodotti molto popolari ma a me interessano relativamente. Anche il sud dell’Italia è una parte molto importante: sono sempre molto attento a ciò che viene da lì perché il tipo di suggestione di partenza è assolutamente diverso, più ricco. Mi riferisco alla vicinanza del territorio alla vita quotidiana. Mi aspetto che da lì verranno fuori delle cose importanti nei prossimi anni.