INTERVISTA – Marco Ciriello: l’anima del calcio come strumento per comprendere la realtà

Marco Ciriello , scrittore e giornalista, presenta a Musicultura il suo ultimo romanzo Per favore non dite niente, liberamente ispirato alla storia di Cesare Prandelli. Protagonista è Marco, ex calciatore diventato allenatore, che lascia la panchina per assistere la moglie Carla malata di cancro, immergendosi a fondo nella parte sommersa della sua vita, tralasciando il chiasso dei giornali e della tifoseria, che diventa solo un rumore di sottofondo. Cesare Prandelli, attuale allenatore della Nazionale, nel 2004 lasciò la direzione tecnica della Roma a causa della grave malattia della moglie Manuela, dichiarando: «Era lei la mia priorità. Molti si sorpresero […] Il calcio a volte ha paura della normalità».

Per favore non dite niente è una storia raccontata al maschile declinata al femminile, con una donna che istruisce alla dolcezza e alla delicatezza il suo compagno. Quanto una persona può imparare ed apprendere da colui o colei che le sta accanto?

Sicuramente molto, nella vita di coppia si ha una sorta di scambio: si sceglie di vivere con altre persone per avere un mondo che non è il nostro e per crearne un altro insieme, con l’apporto di due culture, esperienze ed educazioni sentimentali differenti.

Questo è sicuramente un romanzo sul dolore, di cui ciascuno può avere esperienza nella propria vita, come la morte per cancro di una persona che ti sta accanto. Pensi che la vera anima di uno sport nazionale come il calcio possa istruire i giovani all’affrontare il dolore e la realtà?

In realtà può istruire, e ciò dipende dagli educatori, dagli allenatori, dalle squadre, ma principalmente dalle famiglie di provenienza. Nel calcio ci sono stati moltissimi dolori, alcuni affrontati bene, altri male, tra tutti ricordo Morosini, calciatore morto sul campo di cui la storia e l’esempio non sono stati ancora ben recepiti.

Nel romanzo Carla si ammala e Marco sceglie di dedicarsi solo a lei. Questo non può che ricordare una storia vera, quella del commissario tecnico della Nazionale italiana, Cesare Prandelli, e infatti ne è liberamente ispirata. Quanto veramente c’è di Prandelli nel tuo romanzo?

Innanzittuto c’è il linguaggio di Prandelli, la sua medietà e delicatezza sia nell’affrontare la storia con la moglie, sia nell’allenare che nell’accogliere i calciatori. Pensiamo ad esempio al rapporto quasi paterno che cerca di instaurare con Balotelli.
Prandelli sembra aver trovato il linguaggio per far diventare i suoi ragazzi calciatori e nello stesso tempo uomini.

E’ nota la storia della diffida firmata dall’ufficio legale della federcalcio, forse più del tema di cui si occupa il romanzo. Come hai affermato, la lettera della Figc è la chiara dimostrazione che il libro non è stato letto nemmeno da Prandelli. Come è stato interpretato, secondo te, ciò che è solo un atto d’amore per il calcio, per lo sport e per una storia che ha colpito tutti?

E’ stata interpretata male, come del resto fa sempre il potere in Italia. La Figc è un potere, quello del calcio, che prima ti da un calcio in faccia e poi ti chiede cosa volevi.
Penso che non leggendo il libro e diffidandolo, abbiano fatto indubbiamente una brutta figura, Prandelli compreso. Non hanno capito il messaggio, rimanendo lontanissimi dal linguaggio della letteratura e delle narrazione dell’occidente. Penso che col tempo, e leggendo il libro, si capirà che questa è una storia qualunque che ha dato vita ad un libro pieno di delicatezza, proprio perchè ne era piena.

Da anni musicultura rappresenta la fusione tra la musica e molteplici forme d’arte, compresa la scrittura, che riveste un ruolo fondamentale. Come un autore può esprimere al meglio le proprie idee e i propri pensieri?

Trovando il linguaggio più adatto per lui. C’è chi lo fa con la musica, io lo faccio con la scrittura, dove c’è comunque suono. Nei precedenti libri ho usato diverse lingue, una addirittura inventata. Un metadialetto pieno di musica e sonorità, proprio perchè avevo bisogno di restituire un mondo pieno di culture differenti, soprattutto quelle africane. In questo libro, invece, avevo bisogno di moltissimo silenzio, tanto che mi sono ispirato a Mahler ed al silenzio che c’è nelle sue opere.

INTERVISTA – La tecnologia che aiuta la musica: intervista a Quirino Cieri

Dal 19 al 21 giugno, Quirino Cieri propone, presso gli Antichi Forni di Macerata, i suoi “Ascolti in hi-fi”: una serie di incontri finalizzati all’ascolto della musica attraverso strumenti d’avanguardia che possano rendere ottimale la qualità del suono. La tecnologia utilizzata vuole essere un ulteriore supporto alla riproduzione musicale che, purtroppo, molto spesso si avvale di mezzi che indeboliscono le potenzialità comunicative proprie di ogni canzone.

In occasione del Festival di Musicultura, i suoi incontri mirano alla sensibilizzazione del pubblico nei confronti dell’ascolto musicale. Quanto pensa sia importante, nella vita e per la vita di tutti i giorni, la musica?

Penso che la musica sia importante, anzi importantissima: l’ascolto della buona musica, eseguita in un certo modo piuttosto che in un altro, fa parte della nostra vita quotidiana e rientra nel processo di formazione artistica e culturale di tutti noi. Ma non solo: la musica ha un ruolo fondamentale anche per quella che mi piace definire “formazione emotiva e sensibile”. È un po’ come andare al cinema per vedere un film che non sia il solito “cinepanettone” natalizio, ma un film che possa lasciare qualcosa in più; lo stesso accade con la musica. Di conseguenza, è importante avvicinarsi all’ascolto musicale non attraverso mezzi che siano in un certo senso “poveri”, come i lettori portatili o le cuffie che troviamo al supermarket a prezzi stracciati, ma con qualcosa che, pur avendo un costo non eccessivo, possa permettere l’ascolto in maniera più partecipativa, più consapevole e più attenta a certi dettagli delle registrazioni.

Anche se in modi diversi e attraverso strumenti differenti, la sua azienda e Musicultura sono entrambi produttori di musica: che tipo di connessione si può stabilire tra l’ascolto in hi-fi ed il Festival?

Siamo stati invitati, come azienda, ad utilizzare i nostri prodotti per far ascoltare al meglio la musica. In questo preciso contesto, che è quello di Musicultura e che non è quindi commerciale, non siamo chiamati a promuovere o vendere i nostri prodotti, i quali vengono semplicemente messi a disposizione di chiunque per far sì che la musica possa essere ascoltata in modo ottimizzato. L’obiettivo di fondo è comunque quello di proporre brani musicali che vengano anche trattati tenendo conto del loro background culturale, ad esempio comprendendo la storia di quel pezzo, le sue motivazioni, le fasi di registrazione e le intenzioni del suo autore.

Quanto pensa sia importante, adesso, il ruolo della tecnologia per la diffusione dei prodotti musicali? In altre parole, crede sia un mezzo imprescindibile o riesce a vedere altre alternative?

La tecnologia, adesso, ha già raggiunto un livello elevatissimo ed ha fatto passi da gigante in pochi anni, però viene, di solito, usata male o non adeguatamente. Alcuni interventi che propongo nelle mie presentazioni sono basati proprio sul modo in cui, purtroppo, spesso la musica viene letteralmente massacrata attraverso la ricerca del volume sempre più alto. Bisogna capire che non è alzando il volume al massimo che la qualità dell’ascolto migliora. Nonostante questa tendenza sia andata sempre più consolidandosi negli ultimi dieci, quindici anni, proprio per un preciso motivo commerciale e discografico, fortunatamente si sta assistendo ad un “ritorno alle origini”: sia gli artisti che i produttori, piuttosto che gli stessi studi di incisione, infatti, si stanno rendendo conto che si deve fare un passo indietro, si deve tornare a proporre la musica utilizzando le sue naturali dinamiche di ascolto, anche attraverso i silenzi. Quello che, di fatto, accade per la musica classica, dovrebbe in realtà essere trasferito nell’ambito della musica leggera, pop, rock, e così via. E per fortuna sono sempre di più gli artisti che stanno comprendendo questa necessità.

Musicultura, il Festival della musica popolare e d’autore dedicato ai giovani artisti, tende in un certo senso a mantenere viva la tradizione musicale italiana. Che futuro prevede per la nostra musica? Crede che l’avanzamento tecnologico possa nuocere o essere invece d’aiuto alla trasmissione di una certa cultura popolare?

Sicuramente la tecnologia può essere di grande aiuto. Mi viene in mente, ad esempio, il fatto che adesso è molto più semplice, rispetto a qualche anno fa, registrare musica in casa propria, in piccoli studi improvvisati, o in minuscole cantine, con mezzi più economici rispetto a quelli che si trovavano in commercio fino a poco tempo fa, ma che permettono comunque di raggiungere un risultato migliore. Ma ci vuole molta sensibilità: bisogna conoscere bene i mezzi che si stanno usando, saperli utilizzare nel modo migliore e non aver paura di chiedere agli specialisti del settore informazioni utili su come ottimizzare il loro uso senza degenerare in cattive abitudini. Uno strumento che, in questo senso, può essere d’aiuto, passa attraverso la conservazione di un Archivio storico musicale italiano. A Roma, ad esempio, esiste la Fonoteca di Stato, che conserva tutte le registrazioni pubblicate nel nostro Paese; non so sinceramente se ad oggi sia ancora attiva al cento per cento, probabilmente è una di quelle istituzioni che sta risentendo in modo particolare dello snaturamento culturale attuale. Potrebbe essere una buona idea quella di creare una specie di Archivio centrale digitale, consultabile on-line e ad accesso gratuito, che conservi campioni di registrazioni a disposizione di tutti gli utenti.

INTERVISTA – Luigi Lo Cascio e il lato umano del fare l’attore

Nel nostro immaginario, Luigi Lo Cascio è Peppino Impastato, è Nicola Carati, è Saro Scordia; è uno straordinario attore teatrale, capace di tenere il palco in Amleto e Sogno di una notte di mezza estate; è il vincitore di Nastri D’argento, David di Donatello e premi UBU; e, per finire, è il regista di alcune pièces teatrali e di un film, La città ideale. Ma questo non è Luigi Lo Cascio, questo è solo il suo lavoro. Lo dimostra all’incontro organizzato da La Controra: si relaziona con la sala gremita di persone di tutte le età con un fascino e una sicurezza che lasciano la platea totalmente ammaliata. Parla di quanto sia grato alla sua famiglia, di quanto gli piaccia il lavoro che fa, dei suoi desideri, di alcuni aneddoti riguardanti il suo passato, degli esordi, di cinema e letteratura; risponde alle domande che gli vengono poste dai ragazzi del laboratorio de La Controra e guarda con piacere i video realizzati per lui; il tutto intermezzato da scene esilaranti, che alleggeriscono l’atmosfera: si alza per chiudere la finestra perché “c’è corrente”, chiede al pubblico di non farsi fare foto e video perché “non ha il fisico” e ci dice che, a lui, il suo film da regista è piaciuto molto. “Se dico qualcosa degno di rimanere nella vostra memoria, lo ricorderete. Sennò, meglio che lo dimentichiate”. Io ricordo tutto. E adesso mi piaceve scriverlo. Signore e signori, Luigi Lo Cascio:

Ha interpretato molti ruoli forti, impegnati, “politici”, se mi passa il termine. Ha mai avuto paura di non riuscire a rendere loro giustizia?

A prescindere dal ruolo che interpreto, rimango sempre un po’ insoddisfatto. Nel teatro la cosa è diversa: il fatto che ci siano 30 giorni di prove permette di interiorizzare, poco a poco, il dispiacere di non essere all’altezza di rendere giustizia ai grandi autori. Siamo troppo piccoli, ci manca la strumentazione intellettuale e sentimentale adeguata al privilegio di poter pronunciare certe parole. I giorni di prova ti permettono di abituarti all’idea di accontentarsi della forma che hai raggiunto, cercando di rimanerci il meno male possibile. Per quanto riguarda il cinema, invece, vivo tutti i giorni col dispiacere di non aver potuto raggiungere qualcosa di più preciso, di più in linea con come secondo me le cose andavano fatte. È un mestiere, per come l’ho appreso io, dove la forma è provvisoria; c’è sempre una possibilità ulteriore di miglioramento che spesso il tempo, o le tue capacità, ti negano. A volte vivo con grande dispiacere il lavoro di attore, perché impone il doversi fermare ad un certo punto. Ma questo è anche il suo bello, è la cosa che lo rende più umano, perché anche nella vita non abbiamo modo di provare, e siamo sempre impreparati. La risposta, quindi, è che, al di là del ruolo politico o meno, io sento sempre di avere una responsabilità rispetto ai testi che interpreto e vivo con dispiacere il fatto di non essere mai, purtroppo, del tutto adeguato.

Lei pensava di non essere adatto al mondo del cinema e di appartenere maggiormente al teatro. Ha vinto il David di Donatello per l’interpretazione di Peppino Impastato nel film I Centi Passi, primo ruolo in assoluto che ha interpretato cinematograficamente, cui ha fatto seguito una brillante carriera. Questo l’ha aiutata a modificare il pensiero che aveva su se stesso o continua a preferirsi sul palco?

È difficile rispondere in poche parole. Mi piace moltissimo il lavoro che provo a fare al cinema e ho imparato ad amarlo ancora di più dopo aver fatto il regista, perché mi ha permesso di provare una posizione più scomoda: quella di chi propone il film. L’attore è facilitato nel rapporto con questo mestiere, non deve pensare a molte cose e deve concentrarsi solo sul personaggio. Per permettegli di vivere sul set lo stesso sentimento che prova quando sale su un palcoscenico teatrale, però, il cinema deve disporre di un grande personaggio, un grande autore e una grande sceneggiatura. Se siamo a livelli molto alti, insomma, è gratificante anche il mestiere cinematografico, ma non capita spesso. Nel teatro puoi entrare in scena senza un montatore che sceglie per te o un regista che preferisce un tipo di angolazione piuttosto che un’altra; sei totalmente responsabile di quello che il pubblico vede. Fondamentale è anche l’approfondimento del personaggio: quando si recitano testi di importanza capitale, bisogna essere consapevoli di stare pronunciando parole che hanno attraversato millenni. Recitare una battuta di Edipo, davvero, anche una sola, è qualcosa di vertiginoso. All’attore cinematografico non sempre è richiesta questa presenza assoluta e questo livello di messa in gioco; perché una cosa è mettersi in gioco in ambito professionale, tipo sbagliare un film, e un altro è mettersi in gioco come uomo, capendo quanto peso abbia il dover dire certe parole come se fossero tue. Il teatro, in questo senso, ti impone una grande strumentazione emotiva e culturale che non sempre il cinema richiede.

L’uomo Luigi Lo Cascio è indiscutibilmente diverso dall’attore, e come tutti ha avuto sogni e delusioni. Se non ce l’avesse fatta in questo campo, chi sarebbe lei oggi?

Io, in realtà, volevo fare il medico; lo psichiatra, per l’esattezza. È una cosa che mi ha sempre affascinato, sin da ragazzino: la maggior parte dei miei parenti, appartenenti al lato materno della famiglia, sono dottori, e mio zio, che ha ricoperto un ruolo molto importante nella mia formazione, è proprio psichiatra. Se non fossi diventato un attore, quindi, avrei fatto quello; ho anche frequentato la facoltà di Medicina. Ne La meglio gioventù il mio ruolo era appunto quello di uno psichiatra, ed era anche il tipo che mi sarebbe piaciuto essere; l’ho trovata una felice coincidenza, perché anche nella finzione sono riuscito a percepire che quella era una vita che poteva essermi cara. Non l’ho mai dimenticato.

Nel 2012 ha scritto, diretto ed interpretato un film che ha concorso alla Biennale di Venezia, La città ideale. Pensa che rimarrà un caso isolato?

Mi auguro di no, ma non dipende da me. Posso dirti, magari, che scriverò ancora poesie, perché bastano la mia stanza, un foglio di carta, la penna e quello che mi viene in mente. Posso anche decidere di fare uno spettacolo teatrale in una saletta piccola, perché sono certo possa accadere. Col cinema, invece, non si può mai dire: fare un film costa troppo, bisogna convincere tante persone ad aiutarti. Il cinema non si fa da solo. È una cosa che non dipende da me, ma desidererei fortemente fare un’altra esperienza in questo campo.

Musicultura, il festival della canzone popolare, aiuta da ormai 25 anni giovani artisti emergenti ad ottenere visibilità cercando di eludere le logiche del mercato; permette, inoltre, a centinaia di artisti già affermati, in campo musicale e non, di interagire con il pubblico. Secondo lei quanto questo tipo di manifestazioni risultano effettivamente funzionali alla promozione della cultura in un paese?

Non te lo so dire in termini numerici, ma sono certo che queste cose siano fondamentali; non nel senso di importanti, ma proprio nel senso di “rappresentanti il fondamento”, basilari. Stiamo andando verso una sorta di imbarbarimento culturale. Nonostante io ancora non sia riuscito a fare qualcosa in merito, mi auguro di poterlo fare in futuro, perché penso che queste iniziative siano di grande importanza. Poi è ovvio che bisogna sì fare queste cose, perché sono occasioni di crescita e rappresentano quasi una forma di resistenza, ma bisogna anche focalizzarsi sul vero compito: cambiare le mentalità. È chiaro che cose come il cibo o la sanità rappresentino una priorità, ma non si può e non si deve sminuire l’importanza degli incentivi alla cultura. È fondamentale riuscire a capire che non si vive di solo pane, e bisogna cercare poi di farlo passare anche agli altri. Siamo tutti essenzialmente diversi grazie alla cultura! Nel momento della costruzione dell’identità, della moralità e del sentimento politico si passa anche attraverso l’apprendimento culturale di certi autori e di certe musiche. Noi siamo questo: io sono diverso da te perché le nostre storie sono diverse e questo è dovuto agli incontri che abbiamo fatto; incontri di tipo affettivo, certo, ma anche di genere culturale. Essendo noi molto piccoli, il poter ricevere l’insegnamento dei grandi dovrebbe essere considerato un privilegio. Perché non lo è per tutti? In questo senso penso sia importante che le persone che fanno questo mestiere riescano a trasmettere a tutti il valore della cultura; i tagli ai settori culturali e alle università non possono più essere trattati come un male minore, le persone devono sentire il torto che subiscono.

INTERVISTA – La vita ordinaria di un supereroe del XXI secolo: intervista a Davide Toffolo

Facile stare col proprio eroe quando vince. Ma cosa succede quando il nostro eroe torna a casa, si toglie la maschera, si sfila il costume e si rilassa? Succede che spuntano un paio di boxer imbarazzanti, dei calzini spaiati, una barba incolta e una pettinatura discutibile. Si riscopre la dimensione più intima del supereroe e si ribaltano i mondi: le azioni più quotidiane, come fumarsi una sigaretta o giocare una partita di tennis alla Wii, diventano eroiche, e per ogni palla andata a segno il pubblico esulta, ma per ogni punto perso è proprio Eltofo che chiede partecipazione al pubblico. O meglio, Davide Toffolo, cioè Eltofo lontano dai palchi, nella sua cameretta. E’ così che ci fa entrare nella sua vita privata, con uno spettacolo di stand up comedy dedicato a Andy Kaufman in cui ci accompagna in una visita guidata virtuale nel suo quartiere e in casa sua, la sua piccola Cappella Sistina, uno spazio ricoperto dalle sue stesse tavole. L’uso che fa della sua maschera segna con consapevolezza il confine tra la sfera privata e quella pubblica. Attraverso una proiezione di scatti rubati, ci fa ripercorrere con lui il viaggio dalla sua casa di Pordenone a Macerata, dove ci regala una bellissima intervista in cui ci parla del suo ultimo libro “Graphic Novel is Dead”.

Consideri il romanzo grafico un’evoluzione del romanzo tradizionale scritto con un linguaggio più adatto alle nuove generazioni o piuttosto una forma a sé con una sua precisa chiave di lettura?

La graphic novel è una delle forme del fumetto e in quanto tale ha un linguaggio specifico; ha a che fare con la letteratura in modo tangenziale, c’entra poco con la grande storia del romanzo scritto. E’ una storia nuova, un media che ha poco più di cento anni e che vive di un continuo rinnovamento di forme. Tutti nella vita abbiamo incontrato una delle forme del fumetto, tipo quelli della Disney da bambini, e i più fortunati di noi sono stati accompagnati da questo linguaggio tutta la vita. Io e altri autori, in questi ultimi venticinque anni, abbiamo lottato in modo disperato perché ci fosse una possibilità più adulta per questo linguaggio, e una delle forme adulte che il fumetto ha raggiunto è proprio la graphic novel.

Perché dici che il romanzo grafico è morto? Perché intitolare un libro “Graphic Novel is Dead” in un momento in cui invece, a giudicare dalle vendite, si direbbe un genere in piena espansione?

E’ vero, la graphic novel in questo momento vive la sua fortuna editoriale e commerciale. Uno dei motivi è la facile dematerializzazione dei libri, mentre quella del fumetto è molto più difficile perché è un pezzo d’arte costruito sulla riproduzione cartacea e la sua forma è fondamentale. La vera opera d’arte non è nell’originale, che può avere una forma artigianale più o meno interessante, ma proprio nell’oggetto fisico. Mentre ogni cultura nel tempo ha sviluppato una sua modalità per i fumetti, la graphic novel è il primo caso nella storia in cui esiste una forma unica e globalizzata in tutto il mondo, o almeno in Occidente: un romanzo con un formato di circa 24×17. “Graphic Novel is Dead” vuol dire che mi interessa ancora lavorare sul linguaggio: è vero che la graphic novel è un punto interessante ma non è un punto d’arrivo, bensì un punto di passaggio di un linguaggio che ogni volta che immagini di prendere ha la capacità di scappare e andare da altre parti. Ma è anche una specie di manifesto per dire che la graphic novel esiste. Se avessi proposto questo titolo dieci anni fa nessuno avrebbe capito di cosa stessi parlando, invece adesso un titolo così vuol dire tante cose: vuol dire che la graphic novel è una modalità di incontro col fumetto che esiste quasi per tutti, e che è un luogo di libertà per gli autori, non un luogo costrittivo in cui esiste soltanto il giornalismo a fumetti o la narrazione lunga.

“Graphic Novel is Dead” alterna foto di Cecilia Ibañez che raccontano la tua vita pubblica e tuoi disegni che rappresentano invece la tua vita privata: perché questa suddivisione?

Il libro è un’autobiografia, che è una delle caratteristiche di certi tipi di grandi graphic novel, come Maus o Persepolis, per citarne alcune, ma allo stesso tempo il tentativo che ho fatto è quello di lavorare ancora sul linguaggio: un linguaggio ellittico, che prosegue per pagine uniche, che ricorda un po’ l’origine del linguaggio del fumetto. Nel libro parlo di due aspetti della mia vita:  l’identità pubblica, coperta da maschera e costume da yeti, che è raccontata da foto, e la parte più intima, che invece è narrata da fumetti. Perciò c’è un doppio ribaltamento per cui la parte reale diventa finta o comunque costruita con una scrittura che potrebbe non sembrare realistica. E’ un perché narrativo e un gioco; il linguaggio è sempre quello del fumetto anche nel momento in cui c’è la foto.

Nel corso della tua doppia vita di musicista e fumettista, ti sei sentito più supereroe ad esibirti sui palchi o a disegnare nella tua stanza?

La vita  del disegnatore di fumetti è titanica perché sei da solo, con i tuoi pensieri, con un certo tipo di megalomania e di potere che hanno tutti i disegnatori di fumetti: tutti pensano di essere il Dio del proprio universo, perché lì controlli tutto, dalla forma delle finestre ai tuoi personaggi. Però devo dire che quando stai sul palco e tanta gente canta con te, certo l’ego rischi di non tenerlo a freno.

INTERVISTA – Musicultura presenta il selfpublishing con Antonio Tombolini e Valentina Capecci

In questi primi giorni di Festival è stato più volte ribadito un concetto che, del festival, incarna lo spirito essenziale: la parola Musicultura è una voce doppia composta dai due motori che ormai da venticinque anni animano la sua ricerca: musica e cultura. Tra i tanti appuntamenti de La Controra, dunque, è stato e sarà ancora possibile ascoltare artisti che spaziano tra diversi settori culturali: musica, cinema, teatro, arte e letteratura. Proprio quest’ultimo punto è stato l’anima dell’incontro tenutosi a Palazzo Conventati: LUI È MIO E LO RIVOGLIO. Un romanzo da hit, una riflessione su editoria e selfpublishing digitali, presentato dalla vicesindaco Federica Curzi, con la partecipazione di due ospiti che hanno avuto modo di conoscere e apprezzare il mondo dell’editoria digitale e del metodo del selfpublishing: Valentina Capecci e Antonio Tombolini. Nota scrittrice e sceneggiatrice di origini Ascolane, Valentina Capecci ha scalato la top ten di Amazon con il suo ultimo libro Lui è mio e lo rivoglio, edito da Narcissus.me, una piattaforma di servizi per l’autopubblicazione, che consente a chiunque lo voglia di pubblicare in autonomia le proprie opere in formato digitale (ebook) e di metterle in vendita nelle principali librerie online italiane e internazionali. Antonio Tombolini è invece il fondatore della Antonio Tombolini Editore, una casa editrice selfpublishing che, attraverso le sue collane, si dedica a generi, tematiche e stili molto diversi fra loro, dallo steampunk, al diritto penale, fino alla narrativa. Si è parlato della situazione dell’editoria digitale e, in particolare, del fenomeno dell’autopubblicazione. Anche noi di Sciusià abbiamo voluto fare loro qualche domanda. Ecco che cosa hanno risposto.

Sig. Tombolini, come è nata l’idea di creare l’Antonio Tombolini Editore?

Ho deciso nel 2006, quando ancora non c’erano gli ebook, perché ero interessato a capire se poteva accadere per i libri quello che stava già accadendo per la musica, ossia la transizione al digitale favorita dalla rete. Il tempo mi ha dato ragione e la realtà del libro elettronico oggi è sotto gli occhi di tutti, conquista spazi di mercato sempre più importanti. La chiave di volta è comprendere che non si tratta solo di un passaggio banale dalla carta stampata allo schermo di lettura, ma che vengono rimesse in discussione tante delle regole dell’editoria tradizionale. Il selfpublishing è probabilmente l’area in cui si sperimentano maggiormente queste nuove dinamiche della produzione libraria, ed è per questo che è il settore che più mi interessa.

Musicultura è un festival culturale, e non solo musicale, in cui si cerca di far emergere nuove voci in diversi campi dell’arte. Possiamo dire che anche il selfpublishing abbracci questa iniziativa, ossia dare spazio a nuovi geni letterari. Dunque, quale miglior evento per parlarne?

Ciò che il selfpublishing si propone è l’abbattimento delle barriere d’ingresso all’espressione culturale, in questo caso libraria, ma lo stesso vale anche per la musica. Il digitale, abbattendo costi di produzione e di distribuzione, consente finalmente l’ingresso nei grandi circuiti distributivi su scala globale a chi vuole provare a far conoscere le proprie produzioni artistico-culturali. Questa è la rivoluzione in atto, c’è da dire che molti operatori tradizionali dell’editoria vivono questo fenomeno in chiave di ostilità; ma a torto, perché se non si adegueranno a queste nuove logiche rischieranno di rimanere fuori gioco. Sono felice di parlare di questo argomento qui a Musicultura perché, come dicevo prima, è proprio grazie a ciò che stava avvenendo in campo musicale che ho deciso di muovermi verso il selfpublishing. Oggi credo che il fenomeno dell’autoproduzione accomuni tutte le espressioni artistiche e quindi anche un incontro tra la realtà editoriale del libro e quella della musica non può che essere utile.

Lui è mio e lo rivoglio , Sig.ra Capecci, è stato pubblicato con il metodo del selfpublishing attraverso la piattaforma Narcissus.me. Lei ha già pubblicato altri libri in formato cartaceo per diverse case editrici. Come mai ha deciso di sperimentare questo diverso tipo di pubblicazione?

Perché mi piace sperimentare nuove strade e perché è una soluzione a cui pensavo già da tempo. Inizialmente credevo di non essere in grado, e probabilmente sarebbe stato così se non avessi avuto modo di conoscere una struttura che si occupasse di questo, come quella delle case editrici on line. Anche se non dovrei intenderla così, ma piuttosto come un gruppo di editori molto flessibili e dinamici. Ho fatto questa esperienza perché mi piacciono le sfide e volevo mettermi in gioco, adesso, a distanza di sei mesi, sono molto contenta di averlo fatto.

Lei è molto legata alla città di Macerata, dunque non sarà la prima volta che assiste agli eventi legati a Musicultura. Che cosa apprezza maggiormente del festival?

Sì, amo molto questa città e mi “costringo” a fare la pendolare nonostante viva e lavori a Roma. Apprezzo il fatto che abbia delle iniziative che si rivolgono ai giovani, e Musicultura è una di queste: è pensata per i ragazzi che cercano di farsi strada nel mondo della musica per cui, avendo nei confronti dei giovani un amore, una cura, un rispetto particolari, apprezzo molto questo genere di iniziative che possono dare delle opportunità. Inoltre seguo e apprezzo la musica, dunque sono felice che qui le vengano dati il giusto spazio e il giusto merito.

Vorrei ora rivolgere un’ultima domanda a entrambi: il selfpublishing da voce a chiunque voglia esprimersi attraverso la scrittura e pubblicare così le proprie opere. Non pensate che questo, a lungo termine, possa portare anche all’accumulo di produzioni di scarso valore?

Tombolini: Io credo che la libertà espressiva non possa essere vista come un fattore negativo. E’ evidente che con l’abbattimento delle barriere di espressione c’è spazio per tante cose buone e per altre meno buone, ma questo non deve mai essere un motivo per non permettere alle persone che vogliono farlo di esprimersi. Se posso permettermi una piccola critica all’editoria tradizionale, che invece poneva questo genere di barriere quasi materiali e fisiche per cui chi voleva farsi leggere doveva passare attraverso quel mondo e i suoi determinati criteri, ora con il selfpublishing tale problema si pone sempre meno. È vero anche che il lettore adesso dovrà imparare a scegliere tra una produzione molto più vasta, dove non tutto è buono. Ma io tendo molto di più ad apprezzare un mondo in cui è il lettore a dover scegliere, che non un mondo in cui, girando per le librerie, si trovano sempre gli stessi quattro titoli imposti dall’editoria.

Capecci: Penso che in questo modo tutti quelli che vogliono scrivere si rivolgano a un pubblico senza filtri, e sarà esso a scegliere. È vero che il lettore deve sviluppare la capacità di saper scegliere, ma a maggior ragione egli si sentirà stimolato a leggere e comincerà a conoscere diversi autori. Comincerà a crearsi un gusto tutto proprio, per cui scoprirà degli autori che lo appassioneranno di più e di cui leggerà più opere, o viceversa altri che gli piaceranno meno. Inoltre c’è il passaparola, che caratterizza quella magnifica cassa di risonanza che è internet, per cui è il pubblico che decide ciò che è bello e ciò che è brutto. Certo, esiste anche la pubblicità, ma di sicuro su internet non ha la stessa insistenza che ha in televisione, dove un nuovo libro viene presentato ripetutamente in diverse trasmissioni e chi guarda da casa è portato a comprarlo perché figura come il nuove best seller del momento. Su internet il best seller lo fanno i lettori dopo aver letto il libro, secondo un loro giudizio, non dettato dai media. E ciò è molto positivo.

INTERVISTA impossibile: Bruno Gambarotta racconta il “fenomeno Simenon”

Sorride nostalgico Bruno Gambarotta, accompagnato dalla fisarmonica di Walter Porro. Un tentativo di riportare in vita il “fenomeno Simenon”, figura affascinante e artista prolifico del XX secolo, a lungo sottovalutato in Italia, o almeno apprezzato solo per la parte più commerciale dei suoi scritti. Gambarotta attinge a fonti autentiche di Simenon e alla sua esperienza diretta nella casa dell’autore a Losanna nel 1963, e attraverso un’intervista impossibile cerca di raccontarci un po’ della sua vita privata, della sua arte e delle sue manie: aveva la passione di annunciare le disgrazie, ci dice, contava i passi delle sue passeggiate in giardino e aveva un contenitore di matite tutte rigorosamente temperate dalla moglie. Non ci descrive un eroe ma una persona, con una grande sensibilità per l’ambiente che lo circonda e una sorprendente capacità d’osservazione, un artista con una vita movimentata di cui ha saputo cogliere ogni attimo, ed una vocazione all’infelicità di cui fa il suo mestiere: la scrittura. Gambarotta ci regala spunti di profonda emotività alternati a momenti di ironia, dimostra una conoscenza appassionata e una grande disponibilità, e si concede ad un’intervista, la nostra, con la tenerezza e la generosità di qualcuno che ha qualcosa di importante da raccontare.

Possiamo definirla un artista polivalente: si è occupato di letteratura, giornalismo, televisione, musica e gastronomia. Secondo lei la musica può essere definita una sorta di collante in quest’incontro tra forme d’arte?

La fruizione dell’arte sta cambiando. La figura ancora ottocentesca del lettore nel raccoglimento e nel silenzio non esiste più; spesso la lettura si accompagna con la musica, si crea una forma di compresenza in cui l’una aiuta l’altra. Le nuove generazioni, soprattutto, fanno le due cose insieme: studiano e intanto ascoltano la musica, molti si fanno addirittura ispirare dalla musica. Io stesso, che ho settantasette anni, se devo ricordare dei momenti precisi della mia vita, li ricordo molto più facilmente associandoli a musiche che ho sentito allora per la prima volta più che a letture. Perciò sicuramente la funzione della musica in questo senso è sempre più importante.

Come nasce l’idea di un’intervista a uno scrittore del passato? Dov’è il limite tra la finzione e la realtà, l’invenzione e il recupero delle fonti? Non si corre il rischio di confondere i due mondi?

L’intervista impossibile è un format radiofonico nato trent’anni fa nella testa di una grande programmista della radio: la regola fondamentale è che le risposte dell’intervistato devono essere autentiche, cioè prese da suoi testi reali. Nel mio caso c’è stata una grande libertà data dal fatto che Simenon è morto a 86 anni, ha cominciato a scrivere giovanissimo, si è sempre concesso ad interviste e ha scritto due libri di racconti autobiografici. L’intervista che ho preparato tocca temi fondamentali ma si basa su risposte che lui ha dato nell’arco di quarant’anni di vita, pur essendo stato sempre molto coerente. Il lavoro è nato in occasione dei sessant’anni dalla nascita di Maigret, e l’obiettivo è quello di spiegare il fenomeno Simenon, perché Simenon è un fenomeno: scriveva un romanzo in sei giorni, per anni ed anni ha scritto sei romanzi all’anno, centinaia di opere sotto diciassette pseudonimi. Scriveva in una specie di trance. Nel 1963 sono stato inviato come cameraman a casa sua a Losanna senza aver mai letto niente di suo in precedenza: piano piano sono rimasto affascinato da questa persona con tutte le sue manie, ho iniziato a leggerlo e ho capito che era un gigante della letteratura con degli aspetti quasi miracolosi, che ha scritto dei capolavori assoluti, una specie di Balzac del xx secolo.

Non definisce Simenon uno scrittore, bensì un narratore: in che consiste esattamente la differenza tra queste due categorie e per quale motivo ha inserito Simenon nella seconda?

Questa è una distinzione a cui tengo molto. Simenon dichiarava che nella fase di rilettura dei suoi lavori non faceva che tagli: cancellava aggettivi, avverbi, e soprattutto le belle frasi. Questo perché il narratore è uno che ha interesse a raccontarti una storia, non a farti vedere quanto è bravo a scrivere; questa è la differenza con lo scrittore. Il narratore tende a correre, e non è che si perde dietro alle bellurie; anzi, spesso i narratori sono giudicati cattivi scrittori, come per esempio Svevo, Pirandello, o Camilleri. Non è che siano superiori o inferiori agli scrittori, sono solo due cose molto diverse. Simenon ha scritto centinaia di romanzi e per leggerli non c’è mai bisogno di prendere in mano un dizionario per andare a cercare il significato delle parole che usa.

Com’è avvenuta la ricerca, da parte sua e di Walter Porro, di musiche adatte a restituire l’atmosfera della vita di Simenon?

Simenon richiama ovviamente gli anni ‘30 e ‘40 francesi, quindi quei grandi temi di Jaques Brel, Georges Brassens, Édith Piaf… Nel ’45 però Simenon va anche in America, scappa dall’Europa perché ha scritto degli articoli antisemiti e cerca di scamparla con la famiglia; non è stato un eroe, anzi. Sale sulla prima nave che parte dalla Gran Bretagna per gli Stati Uniti con quaranta bauli, la moglie e il figlio, e ci sta cinque anni aspettando che le acque si calmino. E quindi ci sono anche queste canzoni del periodo americano che fanno testo, fanno atmosfera…anche perché poi solo le parole stufano.

INTERVISTA a Yang Lian: aprirsi al nuovo e al diverso per arricchire se stessi

Reduce dalla recente vittoria del Premio internazionale di Capri, Yang Lian, lo scrittore cinese candidato al Premio Nobel per la Letteratura, ospite della XXV edizione di Musicultura, condivide con “Sciuscià” la sua personale visione del linguaggio e della poesia, oltre alla sua particolare affezione per lo scrittore inglese Ezra Pound.

È uno scrittore esule, si è sempre dovuto relazionare con altre lingue e culture e con la difficoltà di tradurre i suoi lavori: come vive questa condizione di incomunicabilità tra sua lingua madre e i suoi lettori? Quante lingue diverse sono riuscite ad influenzare la sua? In futuro ha in progetto di scrivere in altre lingue?

Vivo nel periodo della globalizzazione, quindi di certo la mia lingua madre è molto importante ed è parte integrante della poesia. Allo stesso tempo possiamo trovare un modo per comunicare con chi parla altre lingue. La via più semplice, ma anche la più commerciale, è quella della traduzione, che spesso però non riesce ad essere accurata e precisa, e può persino risultare fuorviante. Lo scambio poetico è destinato a scavare in un’altra lingua e in un’altra cultura, partendo dalla propria. Sono uno scrittore in esilio a causa della situazione politica in Cina, e questo mi ha spinto ad aprirmi al mondo internazionale. Così, entrando in contatto con altre culture, trasformo me stesso e la poesia tradizionale cinese e trovo nel mondo intorno a me e nelle culture che incontro spunti di riflessione e cambiamento: come mi è successo, ad esempio, con la cultura araba, che mi ha influenzato verso una profonda e forte trasformazione. Tutti questi scambi danno un maggiore significato alla vita e alla scrittura. Questi sono i motivi che non mi spingono a scrivere poesia in altre lingue, visto che posso approfondire le mie stesse radici evitando di farlo. Poi riesco facilmente a scrivere e parlare in inglese, infatti lingua nella quale ho già redatto alcuni saggi.

L’inglese e le altre lingue devono ricorrere a costruzioni lessicali per raggiungere un valore simbolico. Il cinese, invece, è una lingua che si basa su ideogrammi e proprio per questo è inevitabilmente legata al simbolismo. Pensa che per questo sia più facilmente adattabile alla poesia?

Non penso che ci sia una lingua più facilmente utilizzabile per la poesia. La grande poesia si basa sulla comprensione del linguaggio. Visto che scrivo in cinese, trovo questa lingua molto interessante perché riesce a creare vari livelli di significato: l’immagine visiva, l’anarchia musicale, che con complessità si destreggia tra i toni e la costruzione della frase, ed il livello filosofico. Questo complesso sistema crea anche una possibile energia per la poesia stessa. È proprio quando leggo un bel componimento che mi accorgo di questa sovrapposizione di livelli: capisco che riuscire ad amalgamarli è una grande sfida per i poeti, ma se sei bravo puoi usare questo medium e creare qualcosa di veramente forte.

Ha un passato difficile fatto di viaggi e dell’impossibilità di fare ritorno a casa. Quanto le sue esperienze di vita hanno cambiato la sua identità di poeta? Cosa l’ha spinta a scrivere la prima volta?

In realtà la vita non è facile per nessuno. Possiamo superare le difficoltà e poi raggiungere il significato della vita stessa, riuscendo a bilanciare le cose belle con le brutte. Così, quando ho iniziato a scrivere negli anni ’70, in Cina c’era la rivoluzione culturale ed era un momento molto difficile per il Paese, ma anche per me in prima persona. Con tutti gli ostacoli del caso, c’è stato comunque un primo incontro di rivolta: una volontà di espressione, di dire qualcosa. Mi sento così nel momento in cui scrivo e riesco a riconoscermi e crearmi un’ identità. Io esisto, ma non mi devo sentire qualcun altro, ho trovato l’io interiore ed i viaggi che ho fatto in Cina e in giro per il mondo hanno acquisito un significato che continua ad essere presente nella mia poetica.

È fra i candidati al Premio Nobel per la Letteratura. Che emozione si prova a ricevere un tale riconoscimento?

I premi per la poesia sono una sorta di conferma della scrittura poetica. Soprattutto perché tra tanti di vincitore ne scelgono uno. Confermano lo standard di poesia che è lontana dal mondo commerciale: siamo noi poeti che continuiamo la tradizione, da Dante e i classici cinesi di tanti anni fa agli scrittori di oggi. La poesia è parte della storia degli esseri umani, e mano a mano che avanza la civilizzazione anche la cultura avanza con essa. I premi per i lavori di poesia sono diversi dagli altri, proprio perché questa forma di scrittura è un’estremizzazione della letteratura. A proposito, vi do in anteprima una bella notizia: ho vinto il Premio Internazionale di Poesia di Capri del 2014.

La maggior parte della gente in Italia ricorda Ezra Pound per le sue scelte politiche, non per i suoi scritti. Visto che lo considera una figura di riferimento in ambito letterario, vuole condividere con noi un ricordo personale della sua poesia? Che valore ha, per lei, questo poeta?

Ezra Pound è una figura rappresentativa dell’esplorazione poetica, soprattutto per la grande sensibilità e la conoscenza, l’indagine concettuale del linguaggio e della poesia. È lui l’ideatore del movimento culturale dell’Imagismo, pensato partendo dagli ideogrammi cinesi. Quest’ultimo rivoluzionò lo stile di grandi poeti inglesi come Eliot, Yeats e tanti altri, che beneficiarono di questa innovazione. Ha influenzato anche me. A mio avviso, chi scrive poesie ha una così grande sensibilità che riesce ad indagare nella lingua, nella cultura e nella vita contemporanea. Ha creato capolavori come “I Cantos”, un grande modello per la tradizione poetica. In questo caso si può dire che lui è il mio eroe e io lo seguo.

Come mai ha scelto Macerata e Musicultura per presentare se stesso e la sua poesia?

Sono stato scelto da Macerata. Ho incontrato molti poeti italiani, e anche gli organizzatori del Festival internazionale di Poesia di Roma. Mi hanno parlato di questa manifestazione che coniuga la parte poetica a quella musicale. Questo mi ha reso molto curioso e desideroso di venire come ospite. Perché la poesia è sempre profondamente connessa con la musica.

INTERVISTA – “A cavallo del vento”: Sonya Orfalian racconta la cultura immaginifica del suo popolo

Nata in Libia, Sonya Orfalian ha trascorso la sua infanzia come rifugiata. All’età di 11 anni, dopo il colpo di Stato di Gheddafi, è riuscita a trovare asilo a Roma, dove tuttora vive e coltiva la sua passione più grande: la ricerca della propria origine e della cultura armena, in tutti suoi aspetti, dalla cucina sino alla scrittura. E’ considerata un’artista poliedrica: scrittrice, giornalista radiofonica e televisiva, traduttrice. A cavallo del vento è uno dei suoi ultimi lavori. Una raccolta di alcune tra le più belle fiabe armene, in cui si narrano vicende di coraggio e astuzia cui viene sottoposto l’eroe protagonista. Un progetto, quello di Sonya Orfalian, che abbraccia una gamma tematica vasta ed intrigante e che lei stessa ci racconta in un’intervista.

Partendo dalle sue origini, che valore ha assunto in passato e assume al giorno d’oggi il termine “testimonianza”?

La parola testimonianza appartiene alla mia vita quotidiana, sin da quando ero piccola. Per un popolo in diaspora e senza più terra come quello armeno, testimoniare quello che è stato il genocidio e non dimenticare tutto ciò che appartiene alla cultura armena, usi, costumi, lingua e cucina, è un compito a cui si tiene in maniera particolare.

La genesi della formazione di una fiaba può essere simile a quello di un testo cantautorale?

Assolutamente sì. Nella tradizione armena possiamo ricordare gli ashugh, rapsodi erranti che nel momento in cui l’Armenia era una terra indipendente e libera, quindi ancor prima del genocidio del 1915, girovagavano di villaggio in villaggio cantando le storie favolose di re, fanciulli e fanciulle, parlando di amore e di temi sociali. Anche Musicultura è un posto magico. Mi è sembrato da subito un’ottima occasione la presentazione di un libro di fiabe armene con l’obiettivo di far scoprire storie incantevoli di un’antica tradizione che pochi conoscono. Inoltre, mi è parsa una buona idea quella di essere accompagnata nella lettura delle fiabe da Aram Ipekdjian e dal suo duduk, strumento tradizionale dell’Armenia, dal suono malinconico che conserva una gran parte dello spirito armeno.

Qual è il peso sociale di una fiaba armena, in termini di potenziale?

La fiaba è apprendimento di tutti gli elementi che compongono una cultura. Il mondo fiabesco si svolge nell’al di là e comincia con la formula “C’era e non c’era una volta”. L’uditorio viene sospinto e si percepisce un tempo che non scorre e che non si palesa come quotidiano.Si tratta, dunque, del tempo del mondo fatato: i cavalli parlano, lanciano fuoco, gli animali e la natura hanno una loro umanità.

La fiaba rappresenta un’ancora di salvezza per l’immaginazione. Quanto valore ha in un mondo in cui tutto può essere immediato, dinamico, concreto e soprattutto reale?

La fiaba è, con assoluta certezza, l’ancora del giorno d’oggi. Si può immaginare trasportando la mente nell’al di là, considerato non come il mondo dei morti ma come quello dell’immaginazione.Il suo scopo è insegnare tutto ciò che la cultura contiene in sè. Dunque occorre far percepire al pubblico cos’è il bene e cos’è il male, il rispetto verso la natura e gli uomini. La fiaba è un insegnamento di vita.

INTERVISTA ad Andrea Pedrinelli e Susanna Parigi: “il Saltimbanco e la luna” che ricordano Jannacci

Lui, Andrea Pedrinelli, giornalista, appassionato di musica e, in particolare, di Enzo Janacci; lei, Susanna Parigi, musicista e compositrice classica. In nome della musica, tre anni fa si incontrano e decidono di creare “Il Saltimbanco e la Luna”, un concerto teatrale che ripercorre le tappe dell’imponente repertorio di Enzo Jannacci. Pedrinelli e Parigi si lanciano in questa sfida con umiltà, dedizione, coraggio. Il loro scopo non è infatti quello di glorificare lo scomparso Jannacci, né di commemorarlo nostalgicamente: “Il Saltimbanco e la Luna”, al contrario, è la rappresentazione in forma teatrale di una personalità irripetibile, artistica e umana. Perché, come diceva Enzo “essere artisti vuol dire provare ad offrire alla gente anche i nostri limiti”.

Il vostro spettacolo “Il Saltimbanco e la Luna” è nato nel 2011. Quando il progetto ha preso forma, quindi, il grande Enzo era ancora vivo. Cosa vi disse, a proposito della vostra iniziativa?

A.P.: L’idea è nata dalla mia rabbia di giornalista nel constatare che l’opera di Enzo non era conosciuta a sufficienza. Avevo parlato con lui, sapevo quali erano i pezzi che più amava del suo repertorio. Susanna è stata straordinaria ad accettare la sfida, molto umile, coraggiosa. Quando abbiamo capito che il progetto poteva nascere, abbiamo mandato una lettera ad Enzo – che stava già molto male – in cui gli spiegavamo cosa volevamo comunicare e quali erano i brani su cui stavamo  lavorando. Lui ci ha detto che era molto gratificato e commosso. Evidentemente avevamo centrato i pezzi che veramente amava, e ci ha dato la sua benedizione. A noi non serviva altro: non mi interessava e non mi interessa neppure adesso avere un riconoscimento ufficiale. Il nostro spettacolo è una cosa piccola, onesta, libera: ciò che mi interessava è che lui sapesse che esistevamo e che ciò non gli desse fastidio. E fortunatamente è stato così. Anche se avrei voluto fargliela vedere e per pochi mesi non ci siamo riusciti.

Pedrinelli, lei racconta della volta in cui Jannacci le disse «guardi, Pedrinelli, è necessario che ci sia chi, da saltimbanco, vive». Cosa intendeva?

A.P.: Per Jannacci il saltimbanco era il mestiere dello spettacolo. Secondo lui c’era bisogno di chi, usando i linguaggi teoricamente più facili della musica, delle canzoni ma anche della tv, cercasse di far arrivare alla gente riflessioni che di solito la gente, nella propria vita quotidiana, non si fanno o non si possono fare. Il saltimbanco ha questo compito, a costo di essere scomodo, di essere solo, come capitato molte anche ad Enzo. La frase completa dell’intervista è:  «c’è bisogno di chi da saltimbanco vive… e muore». E la sua vita è stata proprio questo.

Per comporre il vostro spettacolo, avete fatto un lavoro filologico…

A.P.: Sì, è stato un lavoro lunghissimo. Io volevo rispettare l’opera di Jannacci al millesimo. Volevamo essere sicuri di dire le cose giuste, mettere in scena le canzoni in maniera tale che non venissero interpretate come karaoke, revival o sfruttamento commerciale. Da questo lavoro è quindi nato un libro. Abbiamo impiegato tre anni per portare in scena lo spettacolo e per questo non siamo riusciti a farlo vedere ad Enzo. Siamo andati piano proprio per cercare di non sbagliare la misura: l’idea è quella di considerare la canzone d’autore come patrimonio culturale. Questo spettacolo voglio che viva anche fra trent’anni e quindi non volevo sbagliare niente. Volevo essere sicuro che tutto sia adeguatamente pensato, calibrato, provato con il pubblico. Per questo c’abbiamo messo tanto tempo. Lo scopo non è quello di dire “Enzo Jannacci era un mito”, ma quello di dire “Enzo  Jannacci è stato uno che ha detto delle cose e noi le teniamo vive” perché è un artista che merita di essere considerato un classico, senza bisogno di farne la glorificazione. Qui voglio ricordare l’uomo, il cantante e l’autore in una certa maniera, soppesando le frasi.

La discografia del Saltimbanco milanese è immensa: autore di quasi trenta dischi, ha duettato con nomi altrettanto importanti della musica italiana. Per completare il vostro cd – che contiene anche tre brani di Susanna Parigi – avete dovuto operare un’importante selezione. Qual è stato il criterio in base al quale avete scartato, necessariamente, certi brani e tenuto altri? Qual è il filo conduttore che li lega?

A. P.: Enzo è sempre stato uno che denunciava cose forti, ma alla gente è arrivato solo il suo lato più comico, quasi clownesco –  molti giornali, quando è morto, hanno scritto “il grande clown” -. Non conoscevano in realtà il suo repertorio. Avendo puntato sulle canzoni del cuore, abbiamo puntato in realtà su testi impegnati. Anche perché Susanna non è un’attrice comica, per cui la comicità di Jannacci  – perlopiù in milanese – era difficile da rendere con un’artista dello spessore di Susanna. Abbiamo quindi trovato un equilibrio: Susanna si fa carico delle emozioni forti dei contenuti delle canzoni, io racconto invece i contenuti dell’uomo, introducendoli secondo le modalità dello spettacolo, in una maniera divertente e leggera.

S. P.: Abbiamo ascoltato tutto. Volevamo far conoscere uno Jannacci che non tutti avessero sentito. Abbiamo quindi scelto le canzoni che ci sembravano importanti nel suo repertorio, ma che allo stesso tempo rappresentassero lo Jannacci uomo. Insomma, non soltanto l’autore e il cantautore, ma anche in qualche modo la sua vita privata. Poi è una scoperta continua vedere, nei suoi testi, quanto c’è di attuale. La nostra intenzione era infatti quella di portare questo spettacolo nelle scuole.

A.P.: Sì, io ho scelto Susanna per la sua purezza come artista e per la sua bravura tecnica di cantante ed esecutrice al pianoforte. Poi, ascoltando le canzoni di Jannacci con lei, ci siamo resi conto che molti temi che Enzo aveva toccato sono gli stessi che Susanna ha affrontato nel suo percorso di cantautrice. Ci è sembrato un segno del destino! Ci è sembrato bello che alcune cose venissero dette da lei, al femminile. Tra queste cose vi è l’amore, di cui Jannacci ha parlato poco perché era un uomo molto timido, sensibile, tanto che un giorno disse: «Io dell’amore non voglio scrivere perché l’amore può far soffrire». Siccome, però, l’amore è importante, di questo sentimento parla Susanna, visto che lei ha scritto canzoni di un certo tipo, di una certa qualità letteraria, che però si sposano in maniera pazzesca con quello che aveva detto e scritto Enzo.

S.P: Con Andrea ci siamo resi conto che c’erano davvero tanti temi in comune: l’attenzione alle parole, la storia e la memoria, i valori famigliari. Io ho una voce molto diversa da Enzo. Lui era davvero una persona emozionante. Ci ho pensato tanto prima di mettermi in gioco e di iniziare a lavorare sulle canzoni.

So che non esistono spartiti delle canzoni di Enzo Jannacci. Lei, Susanna, come ha fatto a riarrangiarle per pianoforte? Come ha organizzato il suo lavoro?

S. P.: È stato difficile. Dovevo costruire un arrangiamento che fosse vicino al mio mondo ma che non offendesse il suo. Abbiamo trovato una insospettabile affinità riguardo ai testi delle canzoni; sul mondo musicale ho invece dovuto lavorare molto.

Musicultura è un festival che unisce tutte le forme del fare spettacolo. La protagonista è la musica, ma intorno ad essa ruotano la letteratura, la poesia, la recitazione, le arti visive. Che valore hanno, oggi, festival del genere?

A. P.: Io credo che i festival oggi abbiano valore nella misura in cui abbiano una coerenza di fondo. E devo dire che unire sperimentazione come quella dell’omaggio dei radio.string,quartet,vienna ai Weather Report a, per esempio, Mango, significa essere attenti al fatto che l’arte ha tante sfaccettature. La musica in particolare non è soltanto la canzone d’autore, il jazz, o la canzone che arriva al grande pubblico. Tutto questo era nell’intento di Enzo, che voleva parlare alla gente e per questo accettava la televisione, per questo è andato a Sanremo, per questo faceva il cabaret. Io credo che un festival abbia due strade: andare incontro al pubblico di massa, o impegnarsi a mescolare le cose, cercare la qualità dappertutto, senza snobismi.

INTERVISTA – Edoardo De Angelis: un nuovo CD per augurare a Musicultura buon compleanno

Protagonista di due eventi de La Controra, il noto cantautore Edoardo De Angelis è tornato nuovamente a Macerata. Il paroliere, affezionato al festival fin dalla prima edizione del 1990, ha portato a Musicultura un regalo davvero speciale per festeggiare il venticinquesimo compleanno della manifestazione: un nuovo CD ricco di canzoni inedite e di brani del passato presentato al patron del festival, il suo caro amico Piero Cesanelli, e a tutto il pubblico maceratese da un altro noto cantautorte: Ernesto Bassignano. I due artisti hannoi mostrato entrambi le loro nuove uscite scambiandosi di ruolo: martedì pomeriggio De Angelis ha presentato il nuovo disco di Bassignano e, ieri, Bassignano quello di De Angelis. Un’intervista-scambio che solo due amici di vecchia data con la stessa passione per la musica potevano rendere emozionante e toccante. De Angelis ha commosso il pubblico presente agli Antichi Forni con l’esecuzione live, tra le altre, di Non ammazzate Anna, Il coraggio delle parole, Novalis, Io sono l’amore, Benedetta, Il mondo sta bruciando e Amici della musica, accompagnato da Enrica Arcuri, giovane esordiente.

Dopo la sua presenza alle Audizioni Live dello scorso anno, anche quest’anno si trova qui a Musicultura per due eventi originali: martedì ha presentato il nuovo cd di Bassignano e oggi, al contrario, è Bassignano a presentare il suo. Come è nata l’idea di questo scambio?

La prima volta che sono stato a Musicultura tu non eri ancora nata (ride n.d.r.). Sono arrivato qui agli inizi, nella prima edizione insieme ad Ernesto Bassignano, Sergio Endrigo e Umberto Bindi. Quella della presentazione dei nostri nuovi CD èstata un’idea, davvero molto carina, di Musicultura. Proprio in questi giorni sia io che Ernesto abbiamo in uscita un nuovo disco ed è stato bello coinvolgerci ne La Controra per darci la possibilità di presentare queste nostre novità. Credo che lo scopo sia quello di creare un ponte che colleghi questi venticinque anni per far vedere che la musica continua.

Cosa l’ha spinta ad incidere un nuovo album?

Questa volta è più facile rispondere a questa domanda rispetto ad altre volte. Questo album è nato da un’esigenza precisa. Scrissi,e ho continuato ad interpretarla fino a qualche tempo fa, una canzone che si chiama Lella. E’ una canzone che, rifacendosi per ispirazione alla letteratura di Pasolini e di Gadda, racconta la storia di una violenza, di un omicidio perpetrato ad una donna da parte di un uomo. E negli ultimi mesi, stando a quello che si legge sulla cronaca, ho trovato un certo disagio a cantare questa storia perché molto cruda, e nella quale chi uccide, in realtà, non è neppure preso da un senso di pentimento, bensì torna, con una certa strafottenza, nel luogo stesso del delitto. E quindi, in questo clima di continui atti violenti sulle donne, ho deciso di non cantarla più anche se, essendo la mia canzone più conosciuta, mi veniva chiesta regolarmente. Nei concerti spiegavo perché non volevo cantarla e, al suo posto, cantavo una canzone, del passato, che si intitola Non ammazzate Anna, dedicata ad un immaginario femminile. E’ una canzone di difesa che vuole rivolgersi all’universo femminile in generale.Il fatto scatenante fu che una band romana, l’Orchestraccia, per una campagna promozionale di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, ha pensato di usare Lella come colonna sonora. E non mi sono trovato d’accordo. Così, scrissi una lettera ai giornali, che poi è stata pubblicata, spiegando la mia posizione. Da questo è nato il mio nuovo album al quale ho voluto dare il titolo di Non ammazzate Anna. Un album che riprende le mie canzoni del passato, mescolandole a degli inediti dedicati all’universo femminile.

Ha un po’ anticipato la domanda successiva. So che Lella è la canzone che il pubblico ricorda di più tra i brani del suo repertorio. Allora mi è venuto in mente di chiederle se nel suo nuovo CD c’è una canzone che potrebbe prendere il posto di Lella e che potrebbe rimanere nella mente e nel cuore del pubblico…

Questo è difficile. C’è una canzone importante nell’album che ho scritto con uno dei componenti del gruppo. Devo fare una premessa rilevante: questo non è solo il mio album, ma l’ho realizzato in collaborazione con i miei musicisti, i cui nomi compaiono in copertina. Con uno di questi, insieme a Maria Cristina Di Giuseppe, avevo scritto un pezzo per un lungometraggio dal titolo Blackout, film che tratta della violenza di gruppo, a cui ha partecipato Neri Marcorè e che è stato realizzato da una cooperativa di ragazzi. In questo film il brano più importante della colonna sonora è questa canzone scritta da me dal titolo Io credo io penso io spero, presente anche nel mio nuovo album. Questa è indubbiamente una canzone importante, però credo che ogni canzone appartenga ad una sua epoca. Lella, quando è nata, aveva un forte seguito perché anticipava i tempi, nel senso che era una storia popolare in dialetto romano con un arrangiamento musicale legato più al country, al folk americano, con linguaggi particolari. Ebbe successo per quello, tanto che ancora oggi ne parliamo. Evidentemente conteneva una chimica particolare. E’ difficile, rispondendo infine alla tua domanda, trovare una sostituta perché oggi c’è un’altra attrezzatura d’ascolto. Quarant’anni fa non avrei mai pensato che Lella potesse avere questo successo, ma allora c’era un ascolto del tutto diverso da quello attuale. Quando ho cominciato a fare questo mestiere, fino agli anni ‘80, bastava passare in una trasmissione televisiva che già ti ascoltavano tutti. Adesso la comunicazione è talmente polverizzata ed evanescente che è complicato imparare ad ascoltare e, purtroppo, lo spazio per i dilettanti passa solo attraverso un certo tipo di programmi, come i talent che sono guidati e dove non c’è libertà di espressione. E’ un mercato un po’ condizionato.

Dato che lei è di casa a Musicultura, sa che questo è un anno importante per il festival in quanto si festeggia il venticinquesimo anno. Quale tra le sue canzoni utilizzerebbe per augurare a Musicultura un buon compleanno?

Questa è una bella domanda e anche per questa ho una risposta giusta. Voi saprete sicuramente che Piero Cesanelli, l’ideatore di Musicultura, è stato ed è un artista, un creatore e un cantautore e ascolta le cose con molta passione. Ha dichiarato più volte la sua passione per una mia canzone, Mia madre parla a raffica, che parla del mestiere di scrivere canzoni. Mi è capitato nella mia vita di scrivere più volte su questo tema, sull’ispirazione, sulla creazione delle canzoni legate ai fatti della vita. Così, se dovessi scegliere un brano da dedicare a Musicultura per augurarle un felice compleanno, sicuramente le canterei Benedetta, contenuta proprio in questo nuovo album.