“L’apertura a diversi orizzonti è la base per costruire la propria unicità”: Michele Braganti a Musicultura 2023

Michele Braganti, studente, paroliere e polistrumentista nato nel 2002, nonostante la giovane età ha le idee ben chiare: parole e musica sono la sua strada. La sua passione nasce alle elementari: comincia con gli studi di pianoforte e di chitarra moderna, poi, a 15 anni, approccia anche al canto e alla scrittura. Partecipa
al programma Rai Sanremo Young, edizione 2019, e l’anno successivo vince il premio speciale al concorso “Il primo giorno del giorno nuovo” di Simone Cristicchi. Molto importante è la collaborazione musicale con il Professor Andrea Franceschetti, grazie alla quale sono nati diversi brani: il primo, Ma-tu-Maturità?,
dedicato ai maturandi d’Italia del 2020, ha riscosso sui social un successo enorme, tanto da ricevere dei complimenti davvero inaspettati: quelli del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Ora, su quella strada fatta di musica e parole, è tempo di fare tappa a Musicultura.
Questa l’intervista rilasciata alla redazione del Festival.

Sul palco del Teatro Lauro Rossi, in occasione delle Audizioni Live di Musicultura, hai dichiarato di ispirarti a importanti figure del cantautorato italiano come Dalla, de Gregori, Niccolò Fabi, Brunori Sas. In cosa ti senti vicino a loro e dove, invece, emerge la tua individualità creativa?
I grandi cantautori del passato sono da sempre stati dei punti di riferimento per la mia crescita artistica. Artisti come Brunori e Fabi sono delle scoperte più recenti che mi affascinano per il loro modo di scrivere e comporre. Ciò che apprezzo di più in loro e che cerco di fare mia è la scelta delle tematiche, mai banali, sempre di un certo spessore; sono dell’idea che una canzone non vada sentita passivamente come spesso si fa, una canzone va ascoltata e deve lasciare qualcosa su cui riflettere, quel qualcosa che fa sì che l’ascoltatore diventi partecipe tanto quanto l’autore e il compositore. D’altra parte sto cercando di far emergere la mia vena creativa dal bagaglio di esperienze di vita, e dalla mia attitudine al non essermi mai
limitato a un solo pensiero, un solo genere di ascolti, di letture, di interessi; credo fermamente che l’apertura a tanti e diversi orizzonti sia la base per costruire la propria unicità, la propria originalità.

Negli ultimi anni di scuola è iniziata la tua collaborazione con un insegnante del liceo scientifico “Città di Piero” che hai frequentato. Quanto è stato importante, soprattutto nel periodo del lockdown, il sostegno e il coinvolgimento da parte del Professore Andrea Franceschetti, alias DJ Prof, per la tua crescita personale e artistica?

Frequentando la facoltà di lettere all’università, ho molto a cuore la figura del professore e dell’importante ruolo che ha nella formazione dei ragazzi in un momento di crescita determinante. Credo che il ruolo più difficile di un insegnante sia quello di trasmettere ai propri studenti quello che nessun libro di scuola
contiene e il professor Andrea Franceschetti è una di quelle persone che mettono a disposizione tutta la loro anima e il loro impegno per riuscirci. E ci riescono. Posso affermare che la nostra è un’amicizia, nonostante io non riesca ancora a distaccarmi dalla formalità del “lei”; un’amicizia che ci ha portato a collaborare per la realizzazione di ben tre inediti, il primo in particolare durante gli anni della pandemia da COVID. Sicuramente la ricorderò per sempre come un’esperienza straordinaria di rinascita e di confronto, specialmente considerando che la nostra collaborazione è nata in un momento in cui erano limitate sia la possibilità di vivere l’arte e la musica, sia l’occasione di stare a contatto e in sintonia con le altre persone, due aspetti fondamentali per chi, come me, vive di questo.

Non ti definisci un cantautore, ma un polistrumentista e un paroliere; da cosa deriva questa scissione? Quando componi una canzone nascono prima le parole o la musica?

Tengo molto a scindere i due ruoli di compositore e paroliere, innanzitutto per presentarmi fin da subito sia  come autore che compositore della maggior parte dei miei pezzi, in secondo luogo per distinguere due passioni che ho iniziato a coltivare in due momenti diversi. Infatti i miei studi di musica sono cominciati all’età di sette anni con il pianoforte classico, successivamente mi sono approcciato alla chitarra moderna e all’età di 15 anni ho iniziato a scrivere e comporre le mie canzoni. Nonostante questa scissione, nel momento in cui creo le mie canzoni preferisco sempre avere lo strumento con me e scrivere assieme testo
e musica, lo ritengo il metodo più efficace per rendere il prodotto finale più omogeneo possibile, anche se non ci sono regole e spesso l’approccio dipende anche dalla diversità dei casi.

La canzone con cui sei stato selezionato tra i 16 finalisti di quest’edizione di Musicultura, La migliore soluzione, sembra essere un invito a spogliarsi di tutte le strutture precostituite, e a ricercare “la migliore soluzione” nel “sorriso di un amico”. Che cosa è l’amicizia per te, e quanto, secondo te, può essere difficile trovare un vero amico?

Molto spesso, specialmente oggi, succede che le persone pongano il proprio ego, la reputazione, le maschere che tutti i giorni si costruiscono addosso alla base del loro mondo, dimenticandosi che la felicità sta nelle piccole cose, come il sorriso di un amico. L’amico vero è quello con cui puoi essere sempre te stesso, senza temere alcun giudizio, quella persona che riesce a farti stare bene sia nei momenti di gioia sia in quelli pessimi e per aiutarti a risalire dal fondo è disposto a raggiungerti anche alle 4 di notte. Sono sempre stato convinto di quanto sia alto il valore dell’amicizia, l’amicizia vera, forse ancora più dell’amore, motivo per cui, se è difficile trovare la persona giusta che ti stia accanto per tutta la vita, è ancora più
difficile trovare un amico sincero, che non si definisca tale per i propri interessi.

Aggrapparti con un dito, il secondo brano che hai cantato alle Audizioni Live, è un pezzo che hai definito “più intimo”. Da quale esigenza è nata questa canzone?

Aggrapparti con un dito è la metafora della rivincita sulle occasioni perse e sui legami spezzati, la metafora di quegli sforzi ultimi che si tentano per riprendere in mano ciò che si è ignorato o lasciato andare per troppo tempo. Mi rendo conto che potrebbe sembrare un tema troppo maturo vista la mia giovane età, ma una canzone non nasce sempre e soltanto dalle esperienze di vita di chi scrive: spesso le canzoni sono storie di vita di altre persone. La condivisione di un sentimento, di un momento di vita, è la base da cui nasce il legame invisibile ma altrettanto magico, potente e unico nel suo genere tra l’artista, la sua musica e l’ascoltatore. Dunque potrei affermare che Aggrapparti con un dito nasce dall’esigenza di mettere tante
persone, compreso l’io di domani, di fronte alla possibilità di riprendersi in mano la propria vita e risalire dal fondo dei propri errori.

“La mia borgata insegna che tutto ciò che è umano non ci è estraneo”: Ilaria Argiolas a Musicultura 2023

Con alle spalle una carriera iniziata da adolescente e culminata con la finale al Fiat Music del teatro Ariston e quella del premio Lunezia, Ilaria Argiolas è tra i finalisti dell’edizione 2023 di Musicultura con il brano Vorrei guaritte io.
Siamo di fronte a una cantautrice verace e sincera, a un’artigiana di stornelli in salsa rock che sul palco, e nella vita, porta sempre, e orgogliosamente, con sé la storia di una borgata, la sua, in cui “la spartizione del niente avvicina le
persone”. Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.

Hai pubblicato l’ultimo album esclusivamente in formato fisico. Scelta decisamente coraggiosa e controcorrente in un mercato in cui il digitale la fa da padrone. Cosa ti ha spinto in particolare a voler rendere la tua musica un manufatto invece di una stringa di dati?

Quando si fa musica è come quando si fa l’amore: c’è bisogno di ascoltare e di esserci fisicamente. Di toccare. Non ho avuto dubbi sulla scelta di voler lasciare nelle mani di chi ascolta un oggetto tangibile. La musica non può essere
solo un contenuto da consumare, ha bisogno del suo tempo per farsi scoprire e poi amare. Preferisco non dire alle persone di “scaricarmi” sulle piattaforme digitali, è un modo di vedere la cosa che non va d’accordo con il rispetto che meritano la musica e chi la fa. Ovviamente il formato digitale, con i suoi vantaggi e svantaggi, ormai si “mastica”, è il mio pane quotidiano; ma a me la musica piace comprarla, e quando vado a sentire altri artisti emergenti in concerto, se mi piacciono, acquisto il disco.

Hai collaborato con molti grandi artisti, tra cui Vecchioni. Come pensi che questo incontro abbia influenzato il tuo processo di scrittura? Cosa ti ha aiutato a mettere a fuoco del mondo che vedi?

Permettimi una precisazione: non ho ancora potuto incontrare di persona Vecchioni, però ho incontrato la sua musica tramite l’ascolto, sin da piccola, dei suoi testi. Attraverso Mauro Paoluzzi, produttore artistico dell’album M’hanno chiamato Ilaria, ho potuto avere la possibilità di inserire in quel disco un inedito del professore. Ecco, credo che anche questa opportunità mi abbia avvicinato di più alla conoscenza della persona. Sai, ho sempre avuto un amore profondo per i testi delle canzoni e Roberto Vecchioni grazie ai suoi mi ha insegnato la poesia. Quando avrò modo di incontrarlo dal vivo saprò dirti qualcosa in più.
Di solito si associano le grandi città a climi più inclusivi e progressisti e la provincia agli atteggiamenti più tradizionali e intolleranti.

Portando al pubblico il racconto della tua borgata hai sovvertito lo stereotipo, raccontando un luogo in cui diversità e normalità coincidono, e ognuno è unico con le sue caratteristiche. Cosa pensi dovrebbe imparare il mondo di oggi dalla Borgata Finocchio?

Non credo che le grandi città abbiano davvero climi più inclusivi e progressisti. Nella provincia, o nella periferia di una città, è la spartizione del niente ad avvicinare le persone. Altrove, il “soldo” le divide, e si perde il contatto con
la realtà. Questa domanda è la più attuale di tutte, perché dimostra come spesso nelle grandi città un’inclusività fasulla e politicamente corretta sopperisce alle discriminazioni più sottili e materiali, dalle scuole che rimangono senza fondi ai commercianti delle periferie lasciati indietro dall’economia. “Solo che so’ aumentate le case le persone e le opinioni, in mezzo alla confusioni i sogni poi li abbandoni”: lo scrivo in un’altra mia canzone, Le cose più belle. La mia borgata è una delle cose più belle, perché insegna che tutto ciò che è umano non ci è estraneo. Questo lo diceva Terenzio qualche secolo fa, ma la mia borgata lo insegna oggi.

Come classificheresti la tua musica? In quello che fai pensi ci sia più il rock o lo stornello romano? Quale dei due generi musicali ti ha aiutato di più a essere un’artista verace, senza peli sulla lingua?

Rock significa “roccia” e credo che tanto le mie radici quanto lo stornello romano siano molto rock’n roll, dimensione musicale la cui essenza non è solo nelle chitarre elettriche ma in un modo di essere, in un testo e in un contesto anche più amplio della stessa musica. Credo di essere un mix tra queste due cose, un genere nuovo. Classificherei dunque la mia musica con questo termine: “rock romano”. La naturalezza con la quale resto attaccata alle mie radici, quindi al mio rock, mi permette di raccontare con estrema onestà quello che sento e che vedo.

In che circostanze hai conosciuto Red Ronnie? Un personaggio come lui deve averti dispensato qualche consiglio in ambito musicale, per quanto riguarda artisti, album, libri. Ti viene in mente niente in particolare?

Ci siamo incontrati in una circostanza assurda. Mi trovavo con mia moglie a Sanremo nel periodo del festival nel 2018, c’era una fila lunghissima di ragazzi e ragazze davanti alla roulotte del Fiat Music, all’interno della quale Red Ronnie svolgeva delle audizioni. Premetto che non conoscevo Red se non tramite questa frase di mio padre che ripeteva da quando ero bambina: “a te te ce vorrebbe uno come “Er Roscio” che faceva i programmi de musica”. Sono entrata dunque nella roulotte e nonostante mi facesse sentire piccola avere quell’omone gigante affianco, la mia voce andava da sola, così come le mie mani sulla chitarra. Dopo l’ascolto mi invitò la stessa sera a esibirmi sul palco di casa Sanremo; qualche mese dopo mi fece chiamare per la finale del Fiat Music al teatro Ariston. Vi racconto questo perché questa storia inizia con Red Ronnie che ti sprona dicendoti: “Tu canti? Allora canta!”. E non c’è niente di più grande per un emergente di queste parole.
Riguardo le “dritte”, invece, ora che mi ci fai pensare Red non mi ha mai dispensato consigli su album o libri, né che io sappia l’ha fatto con altri artisti, probabilmente per non contaminare l’essenza di chi ha davanti. Lo fa però con il suo pubblico, divulgando, diffondendo musica e artisti di ogni tipo.

 

Grande musica in piazza con la Controra

Musicultura svela i primi nomi degli ospiti della Controra, saranno Ron e poi Gianmarco Carroccia, quest’ultimo con uno struggente concerto incentrato sulle emozioni evocate dalle canzoni di Lucio Battisti, ad aprire in Piazza della Libertà, rispettivamente lunedì 19 giugno e martedì 20 giugno (dalle ore 21.15) la sezione del Festival della Canzone Popolare e d’Autore che vive e si snoda nel centro storico di Macerata, nella settimana di Musicultura, con iniziative tutte ad ingresso libero. Si parte dunque col botto, con due concerti da non perdere, ad alto tasso di successi, con brani che hanno accompagnato più generazioni e che non cessano di parlare ai giovani che ne riscoprono oggi la bellezza e la profondità.

Quello di Ron sarà un composito viaggio musicale attraverso oltre 50 anni di carriera nella canzone d’autore, con tanti incontri e collaborazioni lungo il cammino, a partire dall’amicizia e dal sodalizio artistico con Lucio Dalla. Musicultura è particolarmente felice che sia un artista della sua levatura a potere aprire le danze di questa XXXIV edizione, dopo che l’anno scorso la positività al Covid impedì a Ron di essere presente al Festival.

Gianmarco Carroccia è, invece, il fine artista che negli anni è diventato l’interprete più fedele e attendibile del repertorio immortale di Lucio Battisti, tanto da guadagnarsi l’approvazione e l’appoggio di Mogol e l’ospitalità fissa nel programma di Rai 1 “I migliori anni” in onda in questo periodo. Nei suoi concerti Carroccia compie in effetti un’impresa difficilissima, quella di riuscire a restituire dal vivo nella loro genuina fragranza le fantastiche creazioni del duo Mogol-Battisti, con risultati toccanti e stupefacenti.

C’è infine una ricorrenza da segnalare: in questo 2023, i due “Luci” (Battisti e Dalla) avrebbero entrambi compiuto ottant’anni: “Stiamo immaginando un modo singolare, caldo e popolare per celebrare a Macerata questo importante anniversario – ha aggiunto Ezio Nannipieri – ci piacerebbe coinvolgere in una sorta di festa la città e le persone che la abitano e vivono quotidianamente, presto preciseremo come”.

Maionese. La ricetta di Caponetti per Musicultura 2023

Disorientamento, fretta, autoproduzione e semplicità, più una laurea in economia e una passione smodata per la serie B: sono questi gli ingredienti di Caponetti e della sua Maionese, il brano scelto per la finale della XXXIV edizione del Festival. Dopo la scuola, Claudio inizia a girovagare per l’Europa, sempre con la chitarra in mano, studiando e raffinando il proprio suono, fino all’approdo a Milano. Nel 2015 pubblica il suo primo Ep. Anche se non ne va molto fiero, Tutti contro tutti alla fine – dice – è stato una tappa necessaria verso l’autenticità e la profondità di Maddai, l’Ep uscito nel 2020 per Carosello. Ora, come ha dichiarato sul palco delle Audizioni Live, ha intenzione di pubblicare una canzone ogni due mesi. La cifra del cantautore ascolano è quella di un pessimismo concreto ma lieve, e che, in senso un po’ montaliano, in mezzo alla bufera non si arrende e conserva “la cipria nello specchietto”. Insomma, il cielo sarà anche nero come recita il nuovo singolo, però Caponetti riesce ad aprire davvero qualche spiraglio d’azzurro.

Sei stato vincitore di “Genova per voi”, autore per la Universal, artista in giro per l’Europa. Ti sei persino cimentato nella musica per pubblicità. Che posto occupa, ora, Musicultura nel tuo percorso?

Da quando ho deciso di intraprendere la carriera musicale ho capito che la differenziazione è l’unico modo che ho per crearmi una minima stabilità. Negli anni ho fatto tante cose, anche molto diverse tra loro, ma sono state tutte tappe importanti perché hanno costituito quello che sono oggi e quello che so
fare. Purtroppo sia l’esperienza da autore sia il mio esordio artistico non sono andati bene. Il mio primo disco è uscito quasi all’inizio della pandemia ed è stato molto difficile e frustrante non riuscire a farsi sentire e a trovare concerti. Credo che Musicultura sia l’opportunità che cercavo da tempo: come finalisti avremo modo di far uscire le nostre canzoni dalle camerette e dalla sala prove. È un palco
importantissimo per progetti musicali come il mio, che non vogliono omologarsi ai talent televisivi o ai tentativi di viralità. È una grande chance di crescita, a livello artistico ma anche umano.

L’autoproduzione per te è fondamentale: scrivi, componi e disegni persino le copertine dei singoli. Allora nella tua testa come nasce una canzone, compreso tutto ciò che le ruota intorno?

Tempo fa cercavo solo la musica, oggi cerco i “perché” dietro le canzoni. Un progetto musicale non può essere solo un mucchio di pezzi orecchiabili. Deve veicolare un messaggio, una visione, una prospettiva. È per questo che ho iniziato a fare quasi tutto da solo, perché quello che propongo è il mio mondo e (purtroppo) solo io lo posso interpretare. Dietro ogni canzone c’è una ricerca interiore:
attraverso le melodie che mi piacciono cerco di scavare nei miei lati più vulnerabili per riportarli alla luce. Solo così posso essere un artista credibile, integro e autentico, anche nella composizione.

Nel primo verso di Maddai ti chiedi: Che vuol dire si è fatto tardi? Forse questo mondo che va tutto al contrario ti mette fretta?

Questo mondo non solo mi mette fretta, ma mi spaventa anche. Mi capita spesso di non ritrovare intorno a me i valori con cui sono cresciuto e di venire puntualmente deluso da tanti tipi di persone e di rapporti. Ogni tanto ho paura di non essere capito o di essere frainteso, però col tempo ho realizzato che, una volta scelta la propria strada e il proprio spazio nel mondo, bisogna andare dritti su quel
percorso.

Nei tuoi ultimi singoli il cibo è quasi una costante: Cena di Natale e Maionese lo contengono nel titolo, in Google Maps la vita sembra un’insalata che non sa di niente e nella tua biografia spuntano le olive all’ascolana. Sei un artista affamato o c’è qualcosa di più in questo abbinamento tra musica e cibo?

Vivo da solo da molti anni. Ho imparato a cucinare un po’ per necessità e un po’ per passione. La mia casa è piuttosto piccola, così mi sono costruito un home studio. In questo spazio soggiorno/cucina/studio mi capita spesso di registrare e cucinare contemporaneamente, e alla fine mi sono accorto che tanti oggetti legati alla cucina confluiscono nelle canzoni, proprio perché ce li ho spesso tra le mani. Nella mia scrittura cerco sempre di utilizzare parole ed elementi semplici, di tutti i giorni, per rimandare a un significato più profondo e meno immediato. Penso che il cibo abbia un alto valore simbolico e mi piace tirarlo in ballo anche per descrivere gli stati d’animo. Maionese, per esempio, è una canzone che affronta la depressione e la solitudine: l’ho iniziata a scrivere proprio aprendo il frigo vuoto di casa e realizzando la mia condizione in quel momento, che era appunto in frigo maionese e acqua minerale. Credo che in questa frase ci sia tutto il sentimento del brano. Magari un rapper famoso avrebbe scritto e in frigo aragoste e Don Perignon.

Il 14 aprile è uscita la tua ultima canzone, Nero. Quale è la sua storia?

Nero è uno spartiacque nella mia carriera perché l’ho interamente prodotta da solo, registrando tutto in casa senza mai andare in studio. Questo brano è un urlo nel buio, un gioioso sfogo di rabbia e di risentimento verso tutte le persone che mi hanno fatto del male gratuito. Inoltre c’è una forte mancanza di fiducia nel futuro, soprattutto per le nuove generazioni. Questa canzone, come molti dei miei pezzi, descrive situazioni reali che inducono al pessimismo, ma che lasciano sempre aperto uno spiraglio di speranza. Credo che in ogni momento di difficoltà, se non ci si fa sopraffare dallo sconforto, ci sia sempre una grande occasione di crescita.

La dinamicità emotiva di cecilia a Musicultura 2023

Nasce a Pisa; inizia a cantare da bambina grazie a delle lezioni di musicoterapia; debutta ufficialmente nel 2020 con l’EP “?”; nel 2022 esce “il senso di questo caos”: così cecilia (tutto minuscolo, sì!) arriva a Musicultura con un bagaglio pieno di polaroid, esperienze, sentimenti. La sua musica si configura come un lavoro introspettivo che la vede fare i conti con una sensibilità instancabile, sempre in movimento. I mezzi per incanalare questa vitalità emotiva nelle canzoni? Una voce “multiforme”, una scrittura intimista e sonorità internazionali: è lei stessa a spiegarlo in quest’intervista alla redazione di “Sciuscià”.

“Non credo di aver mai avuto la gola così secca”, hai dichiarato sul palco delle audizioni di Musicultura. Che emozioni hai provato in quell’occasione e cosa ti aspetti da questa nuova fase del Festival?

Sto vivendo un periodo emotivamente complicato, fatto di notti insonni e pensieri
annodati. Temevo che questa stanchezza potesse compromettere la mia esibizione, ma contro ogni aspettativa, arrivata in teatro, la tensione si è ridimensionata: mi sono sentita nel posto giusto – buffo, non succede spesso! Nel camerino ho avvertito un po’ di agitazione; ho accolto la paura meditando e una volta sul palco ho canalizzando le emozioni che stavo provando dentro il suono. L’ansia si è trasformata in energia, forza, concentrazione, voglia di dare tutto. Ahimè, la gola secca è uno dei principali sintomi di questo stato d’animo e in quella circostanza credo dipendesse dal fatto che tenevo davvero molto a quella esibizione. Quanto a questa nuova fase del concorso, invece, non ho aspettative: voglio imparare a vivermi bene le cose che succedono e dare il meglio di me.

Restiamo ancora in ambito Musicultura: i due brani che hai presentato alla giuria del Festival, Lacrime di piombo da tenere con le mani e Coltrane, sembrano non riuscire a inserirsi in uno specifico genere musicale ma, al contrario, paiono muoversi tra diversi stili. A cosa è dovuta questa oscillazione?

Le mie canzoni sono un’estensione artistica di me, si muovono insieme al mio stato
d’animo e sono una polaroid del momento che ho vissuto. Dentro Lacrime di piombo da tenere con le mani ci sono abbandono, rabbia, tristezza, voglia di rivalsa. In Coltrane, invece, convivono la malinconia del ricordo di una relazione che non ha funzionato e la voglia di andare avanti e scoprire cosa ci sarà dopo; ci sono contemporaneamente consapevolezza e leggerezza, che ho voluto trasmettere con il ritornello in simil scat jazz. Mi piace parlare sia con le parole che con la musica: il genere musicale è a supporto del messaggio che la canzone vuole mandare, il collante è la mia voce.

Mi ricollego alla risposta che hai appena dato: la dinamicità, appunto, è presente anche nella tua voce, che attraversa prima attimi di morbidezza e fragilità, poi di forza e decisione. È anche quello un modo per esprimere la pluralità dei tuoi sentimenti? Come riescono questi ultimi, seppur così diversi, a convivere circoscritti in una sola canzone?

Si dice che la voce sia “lo specchio dell’anima”: per quanto lo ritenga un po’ banale,
trovo che ci sia un fondo di verità. Alterno momenti di ordine e di caos, di
consapevolezza e di drammaticità; queste emozioni si manifestano anche nella mia voce e nel mio modo di esprimermi. È venuto fuori in modo naturale e ho fatto un grande lavoro per accettarlo: è la mia emotività a parlare, ho imparato ad amarla così com’è. Nelle strofe tendo a essere più narrativa, rimanendo su ottave basse; nei ritornelli lascio spazio alla parte più istintiva raggiungendo note più alte e aprendo la voce. Da qui lo sbalzo dinamico.

I tuoi testi sono fatti di immagini pronte a donarsi al pubblico che ti ascolta. All’inizio della tua carriera musicale scrivevi pezzi in inglese: riuscivi a ottenere lo stesso risultato o credi di aver acquisito immediatezza espressiva nel passaggio alla scrittura in italiano?

Tra l’italiano e l’inglese c’è un abisso. Nonostante si parli sempre di musica, sono due linguaggi molto diversi: in inglese puoi permetterti di fare meno ricerca testuale grazie all’armonia della lingua, concentrandoti maggiormente sulle linee melodiche e sulla musica. Scrivere in italiano, invece, è una sfida costante: mettere insieme il significato di ciò che vuoi dire con padronanza di timing, testo e melodia non è per niente facile. Fare questo tipo di lavoro mi ha sicuramente complicato la vita -scherzo!- ma mi ha fatto crescere tanto, portandomi ad approfondire e -credo- a far emergere una parte più vera di me.

Lacrime di piombo da tenere con le mani: quanto la musica ti aiuta a sostenerne il peso?

Mi limiterò a dire che è un’arma a doppio taglio. La musica senza il contorno
dell’industria musicale è sicuramente un’arte terapeutica. Ho iniziato a studiarla a otto anni con un’insegnante di musicoterapia sotto intuizione di mia madre, che aveva capito che cantando e suonando la sensazione di ansia – già nutrita da piccola- poteva alleviarsi. Quindi, rispondendo alla domanda: sì, nella maggior parte delle volte, la musica aiuta a sostenere il peso.

Flavio Insinna condurrà Musicultura 2023

Sarà Flavio Insinna a condurre le serate finali della XXXIV edizione di Musicultura il 23 e il 24 giugno allo Sferisterio di Macerata, lo annuncia oggi il direttore artistico del Festival della Canzone Popolare e d’Autore Ezio Nannipieri.

“Il “sì” di Flavio è maturato in un clima di cordialità di cui gli siamo sinceramente grati. La sua capacità di tessere fili tra mondi espressivi diversi ma affini sarà un contributo prezioso, altrettanto lo sarà la sua notorietà che Flavio metterà generosamente a disposizione di un progetto musicale che ha a cuore la libertà e la qualità creative delle nuove generazioni. – Ha dichiarato Ezio Nannipieri – Il mio grazie va inoltre oggi a Enrico Ruggeri per l’alto contributo che ha dato in questi anni alla conduzione del Festival e che continua a dare come membro del Comitato Artistico. Il mio piacere è quello di ritrovarlo presto ospite sul nostro palco.”
Insinna ha accolto con entusiasmo la proposta di porre la sua poliedricità artistica e professionale al servizio del Festival della Canzone Popolare e d’Autore.

“L’invito che mi è arrivato quest’anno da Musicultura ha creato in me un misto di emozioni e di sensazioni incredibile, tutte positive naturalmente! – Ha detto Flavio Insinna – È una manifestazione di cui ho sempre sentito parlare e che seguivo da lontano… sono innamorato della musica e da sempre appassionato della musica d’autore, sono cresciuto con i cantautori e con i loro testi che spesso diventano poesia. Spero di essere all’altezza dell’incarico e ce la metterò tutta perché questo è un Festival che va affrontato con grande rispetto.
E poi ultimo ma non ultimo, ho un’emozione in più ad entrare nel mondo di Musicultura, se penso a tutte le volte che Fabrizio Frizzi mi parlava di questa realtà così bella, pura e divertente. Si era letteralmente innamorato di Macerata e del Festival e io con un pizzico di imbarazzo, ma con grandissima felicità, mi butterò nella mischia e proverò a tenere alta la bandiera di Musicultura.”

“La musica è un sogno comune”: i Santamarea a Musicultura 2023

Un gruppo di tre giovani fratelli più Noemi, “sorella acquisita”; sonorità e testi che spaziano dalla musica cantautorale a quella elettronica; tradizione e innovazione che si fondono in una ricerca artistica originale: questi sono i Santamarea, che con il loro brano omonimo si sono aggiudicati un posto tra i 16 finalisti di Musicultura 2023. Ecco le loro risposte all’intervista della redazione di “Sciuscià”.

Quali sono le prime emozioni che avete provato quando avete saputo di essere tra i 16 finalisti di Musicultura 2023? Vi aspettavate questo risultato?

Scoppiavamo di gioia! Per noi già quella delle Audizioni è stata un’esperienza molto bella in tutti i suoi aspetti; ora, rivivere di nuovo l’emozione del palco di Musicultura è un desiderio avverato che ci ha resi felicissimi. Oltretutto, prendere atto che il nostro lungo lavoro in sala prove è stato ascoltato e apprezzato è fonte di soddisfazione. In fondo ci speravamo molto.

Palermo vanta bellezze naturali e un patrimonio storico-artistico unici al mondo. Che rapporto avete con la vostra città? Come il contesto in cui vivete vi ispira e vi influenza?

Palermo è teatrale, scenografica e contraddittoria e questo senza dubbio ci ispira molto. Il confine tra le atmosfere popolari, caotiche e colorate, e quelle riflessive e naturali che percepisci ovunque ci contagia inevitabilmente. Da Quattro Canti allo sconfinato Foro Italico, passando per le urla barocche di Ballarò e le passeggiate ben vestite del centro, assorbiamo quotidianamente questa commistione tra antico e nuovo, tra bello e decadente.

“Santamarea non è l’immagine immobile della statua di legno ingiallito nella chiesa sconsacrata, è la statua che viene giù e danza scrostandosi di dosso il legno”, affermate a proposito del brano con cui siete stati selezionati tra i 16 finalisti di Musicultura. Quanto questa canzone rispecchia la vostra identità di gruppo? Cosa aggiungereste a questa descrizione?

Il brano Santamarea rispecchia molto la nostra identità di gruppo, perché ha alcuni elementi che ci stanno particolarmente a cuore: l’inserimento di parti recitate, i cori, i ritmi. Abbiamo tratto ispirazione dalla musica popolare ed etnica con l’intento di evocare immagini vivide. Questo brano ci ha permesso, scavando a fondo, di trovare la nostra identità. Lo abbiamo immaginato insieme, è frutto di ascolti comuni e ci abbiamo lavorato con cura, lentezza e in squadra. Forse oggi aggiungeremmo a quella descrizione l’importanza del gruppo e del lavoro insieme, diremmo che la statua non viene giù a danzare da sola, ma ogni pilastro, finestra rotta e affresco la prende per mano e danza assieme a lei in un coro che riecheggia.

La cifra distintiva del vostro gruppo è quella di avere un’anima corale, probabilmente dovuta al fatto che siete tre fratelli più Noemi, “sorella acquisita”. Com’è essere fratelli e musicisti? Fuori dal palco e dalla sala prove tra di voi c’è la stessa complicità?

Sicuramente per noi è importante mantenere un confine tra la sala prove e la vita, per dare un aspetto quasi sacro al nostro lavoro. Ogni volta che entriamo in sala prove facciamo un piccolo rito: accendiamo una candela e da quel momento il mondo resta fuori e anche i nostri eventuali bisticci quotidiani. Quando suoniamo insieme ci sentiamo più vicini ed emotivamente coinvolti, perché la musica è un sogno comune e per realizzarlo dobbiamo avere cura gli uni delle emozioni e degli stati d’animo degli altri. Noemi contribuisce molto all’equilibrio del gruppo perché è molto simile a noi. Viviamo una quotidianità che ci porta a rinnovare ogni giorno il nostro rapporto.

La vostra è una ricerca artistica che affonda le radici nel cantautorato e incontra il contemporaneo attraverso l’uso sapiente dell’elettronica, in una commistione tra tradizione e innovazione. Quali sono i vostri artisti di riferimento, quelli con cui avreste piacere di collaborare?

Sicuramente una grande ispirazione sia musicale che estetica sono i Florence and The Machine, Bon Iver, i Coldplay e gli Alt-j. Ci piace molto ascoltare anche la musica classica spaziando da Puccini a Tchaikovsky. Del panorama italiano attuale ammiriamo i Verdena e alcuni giovani progetti emergenti come Emma Nolde, Lucio Corsi o Ibisco. Collaborare con Florence Welch sarà sempre il sogno nel
cassetto del nostro frontman.

Lilo a Musicultura: “Ho cambiato pelle tante volte, ma sono sempre io”

A sei anni inizia a studiare pianoforte; poi si dedica al canto moderno fino alla laurea in musicologia: è una vita votata alla musica quella di Lilo. Nel 2010 fonda un duo semi-acustico, Lylo, che produce due EP in lingua inglese. Nel 2017 cambia “pelle” e anche nome: un progetto solista con testi in lingua italiana e sound elettronico. Pubblica dapprima numerosi singoli e poi, nel 2020, un EP dal titolo “Diverso”, che racchiude un percorso di esperienze e trasformazioni. Adesso è in cantiere il suo primo album; e, sempre adesso, è tempo di Musicultura, perché il suo nome fa capolino tra quello dei sedici finalisti del concorso. Ecco cosa ha raccontato la cantautrice a “Sciuscià”, la redazione del Festival.

Hai esordito nella tua carriera d’artista in un duo musicale e cantando in lingua inglese; hai poi proseguito da solista e in lingua italiana. In questo passaggio, quanto è rimasto della vecchia Lilo e quanto c’è di nuovo in quella di oggi? C’è qualcosa in particolare che hai maturato nel tuo progetto da solista che non era ancora emerso rispetto al passato?

Che bella domanda che mi hai posto! Mi ha fatto ragionare su quanto un cambiamento ci faccia effettivamente mutare. Come un rettile cambia il suo involucro, durante una muta, per fare spazio a un sé cresciuto, così mi sento io rispetto alla Lilo del passato: più grande, più adulta, più consapevole. Ho cambiato la pelle tante volte, per necessità, perché è fisiologico, ma sotto tanto a quella nuova quanto a quella vecchia ci sono sempre io. Rispetto al passato, quindi, ora sul palco mi porto anche Laura, non solo Lilo. I nomi d’arte a volte ti ingannano, ti fanno percepire come una persona diversa ai tuoi stessi occhi. Dunque sì, quando sono Lilo mi ricordo di invitare sempre anche Laura, e viceversa.

Hai dichiarato che fare musica ti rende felice, è una luce che ti illumina e ti permette di dire ciò che vuoi. La strada della vita è fatta di zone illuminate, ma anche di frangenti d’ombra. Che ruolo ha avuto e ha tutt’ora la musica negli alti e bassi della tua vita?

La musica è il mio lavoro, è il mio hobby, è dove mi perdo e spessissimo dove mi ritrovo. È dove incontro gli altri e dove sto da sola. La musica mi serve anche quando non c’è, quando decido di non ascoltarla, di non praticarla, di allontanarmene. Non saprei dirlo meglio di così.

Gospel 121, brano con cui ti sei esibita sul palco di Musicultura, sembra aprire un dialogo con qualcuno a cui si rivela la sensazione di essere compresi. La sua chiave di lettura si iscrive più in una dimensione religiosa e spirituale o umana e terrena? E poi, “121” è un riferimento al relativo salmo biblico o c’è dell’altro?

Gospel 121 ha un’accezione estremamente e intrinsecamente terrena. È come ci si sente a essere visti, capiti, rispecchiati. È una sensazione talmente tanto umana da sembrare divina in qualche modo. La canzone si intitola così perché non sono brava con i titoli, non sono brava a sintetizzare, come credo si evinca facilmente dalle risposte che do. Avevo in mente di sperimentare con un pezzo che avesse l’andamento di un pezzo gospel, con delle modulazioni e delle aperture armoniche tipiche di quell’universo sonoro. Per cui al provino ho messo il titolo di “Gospel” per ricordarmi dove volevo andare. Poi, arrivato il momento di scegliere il vero titolo, a produzione ultimata, ho chiesto a Matteo De Marinis – producer del brano e batterista nel live – a quante tracce di voce fossimo arrivati nella nostra folle sperimentazione. Lui mi ha risposto, tra lo sbigottito e l’esausto: “Centoventuno!”. E “Gospel 121” fu.

Dopo questi anni di carriera musicale in cui hai pubblicato svariati singoli e un EP, adesso c’è in calendario l’uscita del tuo primo album. Cosa dobbiamo aspettarci da questo lavoro?

L’album che sta prendendo forma in questi mesi è un lavoro nel quale ho seguito molto l’idea di musica che ascolterei, di musica che mi piace prima di tutto come ascoltatrice. Non posso dire di più perché per ora questo è tutto quello che so.

Studi musica fin dall’infanzia. In questo percorso ci sono sicuramente stati artisti importanti che ti hanno ispirata particolarmente. Se dovessi pensare a una collaborazione con qualcuno di loro, con chi desidereresti condividere il palco?

Recentemente sono stata al concerto di James Taylor, artista che stimo moltissimo e che ho conosciuto grazie a mia madre. La sua musica è stata colonna sonora di tantissimi pomeriggi della mia infanzia. Penso che mi piacerebbe condividere il palco con lui perché durante il suo concerto ho percepito che tra James e i suoi musicisti scorrevano una stima altissima, una fiducia cieca e una tranquillità placida derivata dal fare musica insieme. Questa cosa mi ha emozionato parecchio.

Zic e il suo Futuro stupendo a Musicultura 2023

Lorenzo Ciolini, in arte Zic, comincia a studiare chitarra elettrica a 11 anni e, ispirato dai Nirvana, a scrivere canzoni a 17. Risale al 2016 il fondamentale sodalizio con il produttore Pio Stefanini; dell’anno successivo è la partecipazione ad Amici ; nel 2018 arriva il primo album- Faceva Caldo- , seguito da Smarties, 2020. Ora approda sul palco di Musicultura con il brano Futuro stupendo. E alla redazione del Festival rilascia quest’intervista.

Nasci a Firenze, universalmente riconosciuta come città d’arte. Questo importante tessuto culturale ha influito sulla tua formazione musicale? È stato in qualche modo fonte di ispirazione?

Ho sempre raccontato la mia vita nelle canzoni, perciò – per quanto possa essere deludente- sono costretto a rispondere di no: la storia della mia città non ha influenzato in alcun modo la mia musica.
Forse il paese dove sono cresciuto, San Casiano, ha avuto un ruolo più concreto, se non altro per le persone che lo abitavano.

Nella tua biografia dici di amare “la decadenza di fine secolo”. Ci spieghi meglio questa affermazione?
Intendo in effetti quella sensazione di “fine” che si respirava, tutto il mondo ne era pieno. Dopo l’opulenza degli anni ‘80 è arrivato il grunge, non solo un nuovo modo di far musica, ma un nuovo stile di vita: sporcizia, droghe pesanti, alcolismo, inadeguatezza, smarrimento sociale, impulsi autodistruttivi, solitudine.
In un’intervista Kurt Cobain dichiarò che il nome “Nirvana” significava liberazione dalla sofferenza e dal mondo esterno; questa per lui era l’espressione del concetto di punk e per me ha significato una svolta nella vita. Ho capito che avrei dovuto scrivere dopo aver ascoltato Nevermind.

Nel tuo brano selezionato da Musicultura, Futuro stupendo, si nota una commistione tra stati d’animo sofferti, legati a una guerra interiore, e sentimenti di speranza, riconducibili a una storia amorosa. Se c’è una vincitrice, quale emozione ha la meglio in questo scontro?

Faccio fatica a descrivere ciò che volevo raccontare con parole differenti da quelle che compongono il testo della canzone. Penso che la parafrasi uccida la poesia e la musica.
Mi dà soddisfazione sapere che qualcuno si emozioni ascoltando una mia canzone, ma è essenziale non strappar via il “velo di Maya”. Ognuno riempie la canzone con il proprio mondo, tutto ciò è catartico e per questo emozionante.

Nota è la tua partecipazione al talent show Amici; altrettanto noto è come talvolta non sia facile rapportarsi e presentare il proprio progetto in contesti così grandi. Nel tuo caso?
Amici è stata un’esperienza come tante ne ho fatte in vita mia: le do il peso che merita, né più, né meno. È un contenitore, può essere quello giusto per te oppure può essere quello sbagliato.

Continuiamo a parlare di esperienze. Cosa ti ha spinto a partecipare a Musicultura e quanto pensi possa essere importante uno spazio come questo nel tuo percorso musicale?
Facendo di nuovo l’esempio dei contenitori, penso che Musicultura sia indubbiamente un posto stimolante, dove ci sono la pazienza di ascoltare e l’interesse a proporre uno spettacolo all’altezza delle aspettative.
Personalmente avevo bisogno di mettermi in gioco e sono contento di aver avuto la possibilità di farlo proprio qui. Suonare sui palchi di Musicultura per il pubblico di Musicultura è un privilegio e spero che tutto ciò possa significare una svolta nel mio percorso.

 

A tu per tu con Lamante

Tra i 16 finalisti di Musicultura 2023 c’è un’artista che si auto-definisce “tribale-matriarcale”: è la vicentina Giorgia Pietribiasi, in arte Lamante. Studia chitarra fin da piccolissima, poi si perfeziona al CPM di Milano e all’Officina Pasolini. Alle Audizioni live i brani L’ultimo piano e Come volevi essere le sono valsi la Targa Banca Macerata. A dir la verità, il nostro tentativo di riassumere la sua musica in un’intervista è fallito miseramente. Con un’analisi sociale un po’ spietata e un po’ romantica, Lamante ha risposto alle nostre domande come togliendo i punti alla fine della frase, aprendo la strada a mille altre domande, alle innumerevoli sfumature della sua arte. Soprattutto ci ha ricordato che la musica è comunità.

Giorgia all’anagrafe, Lamante sul palco. Da dove viene il tuo nome d’arte?

L’amante è una figura iconoclasta per eccellenza, appartiene allo spettro dell’amore, all’impulso che ci conduce all’altro senza alcuna regola. Con l’amore ci rapportiamo inevitabilmente al diverso. Fran Lebowitz ha detto: «Alle volte quando una mia amica finisce di leggere un libro, esclama che le è piaciuto perché si è sentita rispecchiata, ma io quando leggo non ho voglia di specchiarmi. Voglio entrare in mondi in cui di solito non entrerei. Non voglio riconoscermi nelle parole che sto leggendo, voglio conoscere altro». Lamante per me è anche questo: nella società degli specchi io scelgo di non specchiarmi, scelgo di guardare altrove e contaminare la mia rappresentazione del mondo. Ho imparato ad accettare e a immergermi nell’alterità che, guarda caso, è ciò che l’artista prova a fare con le sue opere e l’amante col suo amato. Nel forum Hand Red, Nick Cave descrive bene il legame tra la sua anima creativa e quella erotica: per lui, e anche per me, occupano la stessa parte del cervello.

Alle Audizioni Live hai ricordato tuo nonno che, come hai dichiarato in una precedente intervista, ti ha fatto vedere l’irrazionalità della vita. Allora è irrazionale anche la musica?

Quell’intervista è stata fatta molti anni fa e non avevo la padronanza di linguaggio che ho ora. Credo che il mio intento fosse quello di far capire al lettore che ormai la scelta di vivere come mio nonno, cioè come un contadino, non è comprensibile. Chi vivrebbe oggi in una provincia fatta solo di campi, senza mezzi, senza supermercati aperti h24, senza cellulari, condizionatori o televisioni? La colpa peggiore sono i nostri armadi, diceva un mio maestro. Mio nonno ora sarebbe stato l’uomo più sostenibile al mondo. Vivendo con lui ho capito che la vita irrazionale degli altri è una vita bellissima. La sottrazione è la soluzione. C’è un articolo del 1974 di Goffredo Parise dal titolo Il rimedio è la povertà: più che il suo contenuto, con cui sono estremamente d’accordo, mi ha colpito l’impatto sociale che ebbe a quel tempo. Parise criticò il sistema consumistico e il benessere, e questo venne interpretato da letterati e politici come una presa di coscienza scandalosa e irrazionale. Come può una persona non volere queste comodità? Paragonando il ruolo del contadino a quello dell’artista, penso che irrazionale non sia tanto la musica ma proprio la posizione che la società dà a chi la fa. Di questi tempi la carriera dell’artista, se non è accostata al successo e al mero far soldi, diventa una scelta incomprensibile e irrazionale.

Come siamo finiti così?/Nelle nostre case sempre più piccoli/Pensando di salvare solo noi. Sono i versi finali, semplici e potentissimi, de L’ultimo piano, brano con cui ti sei esibita sul palco di Recanati. Puoi raccontarci la loro storia?

L’ultimo piano nasce tra la fine della pandemia e l’inizio della guerra in Ucraina. È stato come vivere in un mondo stravolto, impensabile fino a pochi anni fa. Ciò che mi ha portato a scrivere questi versi è stato innanzitutto il comportamento dei media televisivi e giornalistici e dei social network, unici narratori della storia ormai da un po’. Media e società si influenzano reciprocamente: si parla della guerra in Ucraina soltanto perché è molto vicina e ci tocca personalmente, e ci tocca personalmente perché se ne parla a raffica nei telegiornali. Tutto questo ci aliena. Abbiamo creato una comunicazione senza comunità. E così io faccio una delle poche cose che sono in grado di fare: immagino. Torno indietro negli anni e penso a un futuro migliore. Fare musica per l’artista è un’azione doverosa, perché riporta le persone a una comunità senza comunicazione, dove ci si ascolta, dove il dolore non è più del singolo ma comunitario, condiviso; dove non c’è bisogno di parlare per tenersi uniti ma è necessario muovere la testa al ritmo di una pulsazione, di un mantra, come una preghiera ripetuta tante volte.

Esperienze importanti e formative come quella di Area Sanremo o del Premio Bianca d’Aponte lasciano un segno: aggiungi qualcosa al tuo percorso mentre qualcos’altro, magari un’imperfezione, se ne va. Che effetto avrà Musicultura 2023 su Lamante?

Mentre tornavo a casa in treno da Macerata (dalle Audizioni Live, ndr), con il premio del pubblico ho proprio pensato che senza l’esperienza del Bianca d’Aponte e del Rock Contest non sarei arrivata a Musicultura. Non sarei stata al Lauro Rossi, immersa nelle parole che stavo cantando, se non avessi prima calcato quei palchi, e mi è sembrato in un certo senso che la commissione di Musicultura questo lo avesse capito. In effetti erano anni che provavo a entrare nella rosa dei 56 e non ci riuscivo: evidentemente non ero pronta, ma sapevo che lo sarei stata. Penso che ogni singola esperienza musicale mi permetta di avere sempre più consapevolezza di me stessa. Ciò che mi auguro alla fine di questa bellissimo evento è che nei live o nello studio di registrazione io possa essere quello che faccio e fare quello che sono, fino a che non si distinguerà più l’uno dall’altro, il personaggio dalla persona, cercando di diventare un tutt’uno con il momento presente, per essere sempre più autentica nel modo di esprimermi artisticamente.

Tra poco uscirà il tuo primo EP, Come volevi essere. Puoi darci qualche anticipazione?

Oggi l’industria musicale è satura, esausta: solo in Italia escono circa 80 pezzi al giorno. Io non ho mai pubblicato niente della mia musica (anzi, è strano pensarmi fuori!), non ho Spotify e non uso piattaforme di streaming, però mi sono dovuta rapportare a tutto ciò. E ho capito che non avrei pubblicato niente che non mi rispecchiasse al 100% o che non avesse veramente senso dire. Quando ho conosciuto il mio produttore, Taketo Gohara, lui era d’accordo con me: è per questo motivo che in un anno mi ha fatto scrivere più di 75 pezzi completi, musica e testo. Abbiamo scelto solo i migliori, cioè meno del 10%. Quindi posso dirvi che sarà un lavoro curato all’estremo, pensato non nei tecnicismi ma nelle emozioni e nei contenuti, creato mettendo in discussione giorno per giorno ciò che volevo dire, ascoltando molta musica e leggendo tantissimo. Anche la mia immagine estetica è il risultato provvisorio di una ricerca lunga, approfondita con l’aiuto di un team fantastico. L’EP sarà preceduto da due singoli che verranno pubblicati insieme ai video scritti da me e dal regista Niccolò Bassetto con la direzione artistica di Giulia Sanna.