INTERVISTA – Con Li Daiguo la tradizione cinese incontra quella occidentale a Musicultura

È un emozionante incedere di suoni vibranti, prima lenti e poi, di colpo, accelerati, quelli che Li Daiguo fa rivivere nel cortile del Palazzo Municipale in occasione de La Controra di Musicultura. Un piede nella world music e l’altro nel mondo dell’improvvisazione, l’artista sino–americano si è da poco affermato, oltre che come interprete, in qualità compositore, avviando in Cina e in tutto il mondo una gratificante carriera da solista.

Improvvisazione, certo, ma all’interno di canoni e regole ben definiti, spiega Li Daiguo, che descrive così il suo metodo compositivo:  «È l’emozione del momento che mi spinge a suonare una certa melodia, che solo in un secondo tempo si cristallizza in un brano vero e proprio. L’improvvisazione è dunque preludio del comporre. E non è affatto eccezionale: tutti i grandi compositori, da Bach a Beethoven, cercavano ispirazione nelle performance estemporanee per scrivere le loro opere». Al pubblico de La Controra l’artista ha proposto una selezione di brani strumentali per pipa e violoncello, strumenti simbolo di tradizioni musicali – quella cinese e quella occidentale – tra le sue maggiori forme d’ispirazione.

Hai una doppia laurea in violino classico e letteratura. Credi che si possano definire forme d’arte complementari? Lo studio della letteratura ha influenzato in qualche modo la tua futura carriera musicale?

Si, ma solo nella misura in cui ha influenzato la mia vita. Lo studio della letteratura ha influenzato la mia concezione del mondo, il modo che ho di recepire le informazioni, i miei valori, le mie filosofie. Per quanto riguarda la loro somiglianza, sai, nel mondo delle idee e della parola si può rendere possibile tutto quel che si vuole. Mettiamo, ad esempio, che si voglia sostenere che pittura e musica siano simili: ci si limita a prendere qualche elemento che ne dimostri l’evidenza e si costruisce una tesi, proprio come fa un avvocato; e lo stesso vale nel caso in cui si voglia affermare l’opposto. Personalmente, sono legato alla musica e alla letteratura in maniera diversa, ma riconosco che, volendo, potrei sostenere entrambe le argomentazioni.

Sei cresciuto negli Stati Uniti, salvo poi far ritorno in Cina, tuo Paese d’origine. Avendole sperimentate entrambe, come descriveresti le tradizioni musicali di questi due Paesi?

In Cina c’è una gran varietà di tradizioni musicali perché ci sono diverse etnie, anche se quella Han è senz’altro la più antica. Pensa che persino in questa coesistono stili diversi! Credo che sia l’elemento temporale a fare la differenza tra queste due culture. Per quanto riguarda l’America, cosa si intende per tradizione musicale americana? Non sono neppure certo che quest’espressione abbia un qualche significato: è forse quella dei nativi americani, o il pop occidentale, il blues, il rock’n roll, il jazz o, magari, è tutti questi generi mescolati insieme? La musica americana è molto più complicata, molto più moderna, ma, soprattutto, molto più giovane.

È agli anni dell’Università che risale, se non sbaglio, la tua scoperta della world music, destinata a diventare una parte essenziale del tuo repertorio…

A dire il vero penso di aver scoperto la world music, o global music, comunque la si voglia chiamare, sin dalla mia adolescenza. In quegli anni, infatti, oltre alla musica classica, cominciai a studiare la bluegrass, uno stile del country, e l’erhu, un tipico strumento cinese. Pertanto una certa varietà di stili e tradizioni faceva già parte di me, ma certamente il periodo universitario mi permise di espandere le mie conoscenze. Poco alla volta mi appassionai alla cultura musicale dell’India, del Nord Europa, dell’Indonesia, come se stessi completando un puzzle.

Che cosa significa per te la global music? È forse una ricerca dell’universale?

Se universale sta per “vero in ogni tempo e ogni luogo”, allora la risposta è no; questo significherebbe per sempre, prima e dopo: se è questo ciò di cui stiamo parlando, non sono nemmeno sicuro che sia qualcosa che possiamo trovare, che sia qualcosa che la mente umana possa concepire. C’è una citazione di Dubussy (compositore impressionista francese) che mi sta particolarmente a cuore: alla domanda su quale fosse il suo metodo compositivo, rispose: «Prendo tutte le dodici note dello spartito e uso quelle che voglio, mentre non uso quelle che non voglio». Penso che sia un buon modo per esprimere l’altrimenti ingiustificabile gusto personale. Perché si ha bisogno di un suono e non di un altro? Perché sono incuriosito dagli strumenti africani e dei loro ritmi? Perché mi accade lo stesso con quelli del Medio Oriente? Perché amo fonderli insieme? La verità è che studio gli strumenti, le tradizioni e le teorie che hanno il potere di “parlarmi”. In fondo, non è altro che una questione d’estetica: perché mi piace questo colore (indica la camicia che indossa, n.d.r.), e tutte le risposte che potrei dare, che potrei immaginare o inventare, non sono davvero significative, perché potrei sempre inventarne un’altra e tutte avrebbero la stessa probabilità di essere vere. Come possiamo entrare nella nostra mente e determinare perché ci piace un certo sapore, o il motivo per cui si ama il viso di questa persona ma non si è attratti da quest’altra? Vedi, è solo un gioco, non si potrà mai parlare di ricerca della verità.

Non è raro che tu ti esibisca con altri artisti, non solo musicisti, ma anche esponenti di forme d’arte insolite per il palco di un concerto: ballerine di butü, attori, pittori dal vivo e persino clown sono solo alcuni dei performer di cui ti sei circondato nel corso degli anni. Cosa si nasconde dietro questa scelta?

È vero, lo facevo soprattutto in passato perché ero solito fare street performance. Quando si suona in quel mondo, specialmente se ci sono molti artisti di strada, è naturale incontrare gente interessante con cui suonare insieme. Non sono però veri concerti, il pubblico che vi assiste non è fisso. Tuttavia, ora mi capita sempre di meno. All’inizio lo facevo più per divertirmi, queste esibizioni mi piacevano per il loro carattere inusuale e imprevedibile, ma quando si cerca di fare di queste improvvisazioni delle performance organizzate diventa piuttosto difficile, persino quando si tratta di musica e modern dance. La cosa più difficile è fare in modo che esprimano vere emozioni. Lo stesso accade per le colonne sonore: richiede moltissimo tempo e un’indicibile dedizione per raggiungere un buon livello. La cultura multimediale ha semplificato i gusti degli ascoltatori che dalla musica, ormai, cercano altro che freschezza o un gusto vagamente esotico.

È nota la tua passione per la musica di strada e per i Festival che, come nel caso di Musicultura, portano la canzone d’autore in mezzo alla gente, anziché farla diventare un privilegio per pochi. Qual è, a tuo parere, il valore aggiunto di manifestazioni di questo tipo rispetto al più tradizionale concerto?

Penso che tutti i tipi di scenari musicali che vedono il massimo sforzo da parte di artisti e organizzatori abbiano un loro valore e suscitino effetti diversi, inclusi quelli realizzati per un pubblico ridotto. Non farei una classifica di valore: a ciascuno riconosco il loro senso e la loro importanza. Personalmente, sono più per quei festival che prevedono eventi raccolti, proprio come in questo caso. La mia musica, del resto, è pensata proprio per allestimenti non troppo grandi, in cui l’elemento rituale predomina su quello dell’intrattenimento.

INTERVISTA – Bukowski e i grandi cantautori italiani rivivono a Macerata nella notte de La Controra

«Bukowski non sa parlare, Bukowski odia le donne, Bukowski non fa volare un aquilone da circa quarant’anni, questo dicono di me: Henri Charles Bukowski, il fallito». A ventidue anni dalla morte dell’americano Charles Bukowski, lo scrittore e cantautore Jacopo Ratini ha dato vita ad una rappresentazione teatrale per omaggiarlo: “Salotto Bukowski”.

In piazza Cesare Battisti, in occasione della terza giornata de La Controra di Musicultura, il cantastorie romano si immedesima nello scrittore americano, creando uno spettacolo tematico che fonde musica, teatro, cinema, letteratura, attraverso la lettura di poesie e racconti, per onorare non solo il grande romanziere, ma anche tutti quegli artisti italiani che hanno influenzato e trasformato il mondo dell’arte e della cultura attraverso le loro opere. Jacopo Ratini denuncia i vizi degli uomini con le poesie di Bukowski, accompagnato dal pianoforte di Luca Bellanova e dalla voce e chitarra del vincitore assoluto di Musicultura 2015, Gianmarco Dottori, che reinterpreta magistralmente i grandi successi della musica d’autore italiana. La visceralità delle parole si unisce al fascino del cantautorato italiano, creando un perfetto connubio tra musica e poesia.

La redazione di “Sciuscià” ha incontrato Gianmarco Dottori prima della sua esibizione nella città che, un anno fa, lo proclamava vincitore assoluto della XXVI edizione di Musicultura.

Ritorni a Macerata, dopo aver vinto l’anno scorso il premio di vincitore assoluto di Musicultura. Come ti ha cambiato la vita, la tua partecipazione al Festival?

Ho aspettato tanto Musicultura, era la terza o quarta volta che mi ero iscritto e quindi per me era una specie di sogno nel cassetto. Avevo sempre seguito la manifestazione, e avevo sempre avuto voglia di partecipare, per questo vincere è stato incredibile. Mi ha dato la possibilità di cambiare la vita? Sicuramente sì. Mi ha dato la possibilità di vivere un anno più tranquillo e rilassato dal punto di vista economico. Con quei soldi sto investendo tutto sul mio progetto e questo mi ha evitato una lunga trafila di problematiche, come ad esempio il crowfounding. Musicultura mi ha aiutato tantissimo, è stato il coronamento di un percorso artistico – e di una canzone, nello specifico. Era tanto che la portavo in giro e ha avuto la giusta consacrazione allo Sferisterio.

Quali consigli ti senti di dare agli otto vincitori di questa edizione, che si esibiranno sul palco dello Sferisterio?

Credo che questa sia un’esperienza che vada vissuta davvero in pieno, perché non è solo la serata allo Sferisterio, ma l’intera settimana che accompagna le finali di Musicultura che ti rimane dentro, oltre ai visi e ai sorrisi delle persone che si incontrano. È una settimana in cui ci si sente realmente appagati dopo tutti i sacrifici che si fanno. Secondo me devono godersela fino alla fine. Io, con i finalisti dello scorso anno ho mantenuto ottimi rapporti: ci sentiamo sempre. Questo può far capire quanto in quella settimana abbiamo legato.

Lucio Dalla, Rino Gaetano, Fabrizio De Andrè, Vinicio Capossela, Franco Califano, Luigi Tenco, Stefano Rosso: sono alcuni degli artisti che reinterpreti nell’evento “Salotto Bukowski”. Quale tra di loro ti ha ispirato di più nel tuo percorso musicale? Inoltre, cosa ci puoi raccontare di questo spettacolo?

Il progetto nasce da un’idea di Japoco Ratini, che è stato in passato finalista di Musicultura e ha partecipato a Sanremo. Lui, un anno e mezzo fa, portava avanti questo spettacolo nella forma di un reading. Io, poi, mi sono inserito nel progetto e insieme abbiamo deciso di aggiungere una parte musicale, trattando le tematiche di Bukowski e declinandole a seconda del cantautore preso in considerazione. In qualche modo tutti i pezzi che vengono cantati all’interno dello spettacolo sono brani che mi rappresentano, da Franco Califano a Lucio Dalla. Tuttavia, ultimamente mi sento molto vicino a Rino Gaetano, anche perché mi è capitato di collaborare con la Rino Gaetano Band, con la sorella e con il nipote.

Quali altri progetti hai per il futuro?

Continuerò a lavorare con la mia associazione che si chiama “Spaghetti Unplugged”: promuoviamo musica emergente a Roma e stiamo cercando di diventare sempre più grandi.  Abbiamo fatto molti spettacoli, abbiamo girato parecchio. E poi sto cercando di concludere il mio ultimo lavoro, che spero veda la luce entro l’anno.

INTERVISTA – Dub Versus: la koinè mediterranea e l’individualismo anarchico sardo a La Controra

Servi disobbedienti alle leggi del branco – per dirla con De Andrè –, Giacomo Casti e Arrogalla sbarcano a Musicultura con serenità zen, la stessa che traspare durante la loro esibizione, in cui propongono grandi testi della letteratura internazionale mescolati alla bass music. Un esperimento unico nel suo genere, una porta aperta sulla comprensione profonda di poemi, canzoni e parole che oggi più che mai aderiscono alla realtà che circonda il mare: una strada, sì, ma troppo spesso un confine tra civiltà.

Il particolarismo isolano rende i sardi immuni alla gerarchie, alle mafie, a tutte quelle tendenze omologanti che spesso finiscono per livellare la nostra identità. E se da una parte questo li penalizza, dall’altra li salva.

Doppio appuntamento con Dub Versus a Musicultura: oltre che alla Controra, domani sera sarete ospiti all’Arena Sferisterio. Cosa avete in serbo per il pubblico?

Conosciamo Musicultura da anni già come Premio Recanati ed esserci arrivati è una bella possibilità, che può produrne di altre. Portare questi materiali in un contesto così consapevole ci riempie di felicità. Sul palco dello Sferisterio saremo in compagnia di Elena Ledda, la cantante più autorevole della musica popolare sarda sia colta che tradizionale, Massimo Lori, che è un pezzo di punk rock dell’isola e Gianmarco Diana, bassista dei Sikitikis, già vincitori del concorso.

Il mare è il vero concept, più o meno esplicito, del disco, che parla molto della Sardegna. Mare come identità, confine o ponte?

Per degli isolani è normale guardare al mare come una realtà con cui non puoi non fare i conti. Il mare ha un lato positivo e un lato negativo: per noi sardi, uomini mediterranei, significa un po’ isolamento. Oggi, poi, esso è la nuova Shoah, l’olocausto non esplicitato dei nostri tempi. La sfida è rendere il Mediterraneo, che storicamente è un crocevia di rapporti, quello che è sempre stato e non quello che sta diventando, cioè un enorme cimitero. Il nostro contributo di cittadini attivi è quello di andare in direzione ostinata e contraria rispetto a questa tendenza.

Come è nata l’idea del progetto, narrativo e musicale?

L’idea nasce un paio di anni fa dalla volontà di mettere assieme l’esperienza di Francesco, compositore e produttore di musica elettronica con un’attitudine dub legata a uno studio molto meditato sulla tradizione isolana, con la volontà di far suonare la parola poetica con tutte le lingue a nostra disposizione, ovvero italiano, sardo e inglese. Un piede è in quella tradizione che in Giamaica chiamano della dub poetry, mentre l’altro è inserito dentro formule più occidentali come lo spoken word inglese, quello che comunemente è chiamato reading: la parola è declinata in un contesto musicale che non ha paura di confrontarsi sia con la tradizione che con la sperimentazione. Da tutto questo, alcuni mesi fa è uscito Dub Versus, il biglietto da visita che ci ha permesso di finire in un contesto prestigioso come Musicultura.

In che modo si fa largo la sperimentazione musicale in Sardegna?

L’isola è musicalmente ricca, con un alto tasso di artisti e creativi. C’è una scena che va dal jazz alla musica classica, a quella elettronica e contemporanea fino all’hip hop e al rock. Siamo una terra di musicisti, un’isola felice piena di spazi possibilità e luoghi di incontro; c’è inoltre una grande volontà di collaborare. Questa sorta di isolamento che la Sardegna ha avuto ha generato una scena musicale variegata e originale: non siamo omologati ai modelli culturali dominanti italiani e europei, abbiamo sviluppato produzioni in lingua sarda, il che genera ragionamenti anche sul territorio, i paesaggi, fonte di continua ispirazione. La trasversalità ci piace, in un contesto pop inseriamo principi e modelli compositivi contemporanei, utilizzando paesaggi sonori e stratagemmi compositivi elettroacustici e lavorando quindi su più livelli di ascolto: uno legato alla voce e l’altro alla bass music, quella urbana. Una foresta di suoni, un substrato creato grazie all’ausilio di un grande compositore come Marcellino Garau, che ci ha accompagnato in questo progetto.

INTERVISTA – Evitare una gaffe? Impossibile. Giuseppe Manfridi presenta il suo ultimo libro a La Controra di Musicultura

Cosa spinge il protagonista de L’idiota di Dostoevskij a rompere il vaso cinese, nonostante le premurose raccomandazioni della vigilessa Elizavieta Porcofievna? Cosa si cela dietro il microcosmo tragicomico delle gaffe? Giuseppe Manfridi, noto commediografo, propone la sua idea: personale, umile e ironica.

Nella suggestiva cornice del Palazzo Municipale di Macerata, in occasione de La Controra, lo scrittore presenta al pubblico di Musicultura il suo ultimo libro, Anatomia della gaffe. Manfridi ha già all’attivo un’ottantina di commedie di successo, tra le quali spicca, per nome e fama, Ultrà, che ha avuto anche una successiva scrittura cinematografica, confluita nell’omonimo film diretto da Ricky Tognazzi. Alla redazione universitaria di “Sciuscià”, Giuseppe Manfridi racconta la genesi del suo libro.

È nato prima il Manfridi scrittore o il Manfridi commediografo?

Commediografo. Poi, ovviamente, in ognuno di noi c’è un piccolo scrittore. Chi non ha mai scritto un verso o una poesia da giovane? Però la mia vocazione è sempre stata per il teatro. Nonostante il mio lavoro sia di commediografo, da piccolo ho sempre voluto fare l’attore di teatro. Sulla mia condizione lavorativa scherzo sempre con una metafora calcistica: io sono l’allenatore di calcio che da piccolo sognava di diventare calciatore. Il mio desiderio di scrivere teatro nasce, fondamentalmente, dal voler fare l’attore.

Com’è nata l’idea del libro Anatomia della gaffe?

L’idea del libro è nata dalla mia quotidianità. La dedizione alla scrittura drammaturgica mi ha portato, inevitabilmente, ad intessere e a costruire dialoghi e battute. Analizzare il dialogo  e il rapporto umano significa anche venire a contatto con un universo sommerso, che è quello dell’individuo e della interazione verbale, con tutti i suoi valori, le imposizioni sociali che la riguardano. Io ascolto dialoghi, li analizzo, li interpreto e li spio, invitando il lettore alla riflessione.

Lei è stato protagonista di qualche gaffe, ultimamente?

Ovviamente. Tutti sono protagonisti di gaffe, e ti dirò di più: sicuramente ho fatto più gaffe di te, semplicemente perché ho più anni di te.

Una soluzione per evitarle?

Non possiamo evitarle, perché siamo sempre esposti all’imprevedibilità. Il consiglio che posso dare è: stare tranquilli e rilassati, senza ossessionarsi dalla paura di commettere qualche sbaglio. Errare humanum est.

INTERVISTA – Un delizioso equilibrio tra parole e musica, il nuovo regalo di Flo al pubblico di Musicultura

La talentuosa artista napoletana, tra i vincitori di Musicultura 2014 e 2015, ha presentato il suo ultimo disco in Piazza Cesare Battisti, ospite de La Controra, per poi esibirsi allo Sferisterio in una emozionante performance con Elena Ledda.

Un vortice di suoni, melodie, movenze, contaminazioni stilistiche, espresse con una vitalità incontenibile ed un entusiasmo contagioso. E’ Flo, che si sta rapidamente affermando come una delle personalità più eclettiche e versatili tra le nuove leve del panorama musicale italiano. La 32enne artista napoletana ha ammaliato per l’ennesima volta il pubblico di Macerata, città a cui è molto legata per le sue fortunate partecipazioni a Musicultura nel 2014 e 2015, figurando in entrambi i casi tra i vincitori. In Piazza C. Battisti, insieme alla sua band formata dai bravissimi Ernesto Nobili (chitarre), Marco Di Paolo (cello), e Michele Maione ( percussioni), ha presentato “Il mese del rosario”, il suo ultimo disco: nove brani, di cui sette inediti e due che sono riarrangiamenti di canzoni di Rosa Balistreri e una ghost track, una versione di Bang Bang di Sonny Bono. Poi, in quello Sferisterio dove in tanti si sono innamorati di lei, si è esibita insieme ad Elena Ledda in una struggente interpretazione di No potho reposare, canzone simbolo della Sardegna scritta nel 1915 da Badore, al secolo Salvatore Sini.

Un lavoro che odora di world music e Sud America, ma con la profondità di un Fabrizio De Andrè, la cui produzione artistica è stata affidata ad Ernesto Nobili, il quale firma insieme alla cantautrice anche questo lavoro, che si contraddistingue per il suono accattivante e viscerale e per il tentativo, assolutamente riuscito, di fondere vibrazioni e linguaggi di luoghi lontani. “Il Mese del rosario” si può definire come un racconto di esistenze sospese in un tempo e in uno spazio indefiniti, una sorta di colonna sonora di una quotidianità fatta di modi di vivere spregiudicati, quasi borderline. Un disco in cui coesistono il calore dell’indulgenza, la rassicurante memoria delle storie raccontate e il gentile libertinaggio dell’animo umano.

Due anni fa usciva il tuo primo album, “D’amore e di altre cose irreversibili”, che ha conquistato i favori della critica. Adesso è la volta de “Il mese del rosario”. Un titolo che incuriosisce, decisamente. Come lo hai concepito e quale è il filo conduttore di questo lavoro?

Il “Mese del Rosario” è qualcosa che dico in Vulìo, la canzone che apre il disco. E’ una espressione che evoca tradizioni popolari, come quelle mariane del mese di maggio. Ho pensato a chi recita il rosario, a chi lo fa per redimersi dal peccato, pregando in maniera così ardente. Mi piaceva il suono del titolo, significativo rispetto al racconto del disco. E’ anche un po’ ironico. Il fatto è che sono affascinata dai riti collettivi, così come sono colpita dalle stridenti contraddizioni della mia città, del mio quartiere, la Sanità, dove si avverte forte, per esempio, il contrasto tra la spiritualità emanata dalla presenza della chiesa che sta lì, a rappresentare l’aspetto sacro della vita, e le voci dei neomelodici provenienti da tante case e che furoreggiano.

Le tue canzoni sembrano favole in musica. Favole dure, però, amare, che non fanno sconti, e non necessariamente con un lieto fine….

È così. Sono molto attratta, da sempre, dall’aspetto drammatico delle cose e delle vicende delle persone che mi circondano e non solo. Risento molto dell’influenza su me esercitata da coloro che costituiscono modelli artistici ed esistenziali come Fabrizio De Andrè. Non mi ha mai terrorizzato il guardare da vicino anche gli aspetti brutti dell’esistenza. Alla bruttezza, alla negatività con cui ognuno di noi deve fare i conti, reagisco rifugiandomi nella musica, e cullandomi nella sua bellezza. Per me, per esempio, salire sul palco, è una manifestazione di tangibile bellezza.

Come nasce una canzone di Flo?

È l’esito finale di un flusso centrifugo di sensazioni, emozioni, fantasie, suggestioni, pensieri, ricordi, frutto sia di esperienze vissute che immaginate, sulla scorta della mia formazione umana ed artistica.  

I testi dei tuoi brani sollevano l’attenzione su tematiche controverse, scardinano tabù ancora molto diffusi nel tessuto sociale. Quanto spazio c’è, in un panorama musicale come quello italiano che spesso appare asfittico, per voci alternative come la tua?

È un panorama purtroppo dominato da meccanismi incancreniti. Noi, più che sui Talent, abbiamo puntato sui live, decidendo di stare perennemente in contatto con il pubblico. Quanto abbiamo costruito fin qui, e lo dico senza alcuna volontà di retorica, è davvero tutto frutto del nostro lavoro, non abbiamo usato scorciatoie di alcun tipo. E’ la conseguenza di una passione inesauribile nei confronti di ciò che più amiamo fare, e che ci spinge a sobbarcarci tanto, tanto lavoro. Quest’estate saremo impegnati in un tour di circa 20 date, il che non è poco di questi tempi. Il prossimo anno ci esibiremo a Vienna e in alcune città del Sudamerica. Va bene così, insomma, molto bene.

Tu conosci bene Musicultura. Sei stata tra i vincitori delle edizioni 2014 e 2015. Come vivi questo tuo ritorno a Macerata?

Lo vivo con grandissima felicità. Quando mi hanno chiesto di fare l’ospite per l’ edizione 2016, sono stata molto contenta. Mi dà gioia sapere che qualcuno rimane davvero colpito dalla mia arte, come hanno dimostrato gli organizzatori di Musicultura quando sono venuti a trovarmi a Milano per assistere ad un mio concerto.

A La Controra di Musicultura, John Vignola e Michele Mondella presentano “Trilogia. Com’è profondo il mare, Dalla, Lucio Dalla”

Ieri, nella suggestiva cornice del Cortile del Palazzo Municipale, si è svolto – nell’ambito de La Controra di Musicultura – l’evento di presentazione di Trilogia. Com’è profondo il mare, Dalla, Lucio Dalla. A condurre l’incontro è stato John Vignola, il quale, sin da subito, ha illustrato l’iter ideologico ed artistico da cui si è preso spunto per la pubblicazione del progetto musicale. Il giornalista e conduttore radiofonico di Radio 1 Rai ha così esordito: «Gli anni di piombo vengono scavalcati e, nel frattempo, Bologna diventa terreno di lotta per la rivoluzione, il luogo in cui Lucio Dalla dice di voler voltare pagina».

La Trilogia è una raccolta di testimonianza del fortunato e storico tour negli stadi italiani di Lucio Dalla, insieme a Ron e a Francesco De Gregori: un’opera in cui si rivive il mondo artistico del cantautore bolognese attraverso tre album rimasterizzati, un libro di testimonianze arricchito da foto inedite, il dvd dell’introvabile filmBanana Republic. Dunque, ogni disco contenuto in Trilogiarappresenta una tappa fondamentale nel percorso artistico di Dalla: dal 1977, Com’è profondo il mare, che coglie l’essenza degli anni ‘70, di Bologna, del suo socialismo, del Dams occupato in segno di protesta, degli scrittori, poeti, illusionisti, delle lunghe nottate in cerca di versi per parlare di diseredati, dei pazzi. Il secondo – che risale al 1979 – è il disco che viene consacrato dai testi memorabili come Anna e Marco, Milano e L’anno che verrà. L’ultimo, invece, datato 1980, è costituito da un mix di canzoni che, se da un lato presentano abbinamenti ritmici differenti con sound sperimentali, dall’altro evidenziano la ricchezza di brani che hanno fatto la storia della musica italiana.

All’evento, a testimoniare e ribadire la grandezza di un successo appurato e manifesto sin dalla sua genesi, è stato Michele Mondella, storico ufficio stampa nonché amico di Lucio Dalla, che ha così introdotto il suo intervento: «Com’è profondo il mare è l’inizio di una nuova storia: artisti diversi in tutti i sensi – fisicamente, musicalmente e ideologicamente – decidono di collaborare insieme. Così, a distanza di molti anni, si riesce a comprendere ancora di più il significato di quella collaborazione. Com’è profondo il mare è stata sì una canzone valutata e apprezzata dai critici, ma credo che il suo vero significato vada oltre ogni riflessione puramente tecnica e simbolica: è una fotografia di un determinato momento storico e culturale».

John Vignola, a proposito degli anni ’80 e del fermento artistico e politico di quell’epoca, ha affermato: «Realizzando questi dischi, il cantautore bolognese ha attraversato una serie di situazioni, movimenti e momenti duri, fatti di terrorismi – il delitto di Aldo Moro, la strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980 e molti altri. Dalla viene da un’ “esperienza bruciata”: parla di povertà, di se stesso, del mare, unico posto in cui vige la libertà di pensiero». Poi, a ribadire l’importanza della pubblicazione di Trilogia, il giornalista ha aggiunto: «Questo “cofanetto della memoria” è stato studiato soprattutto per rappresentare un momento molto particolare dell’estro e della creatività di un uomo, e non per risultare come la solita raccolta delle canzoni di Dalla». E proprio per questo è stato evidenziato dai quattordici, lunghi racconti di musicisti, critici, giornalisti, produttori e discografici che delineano le caratteristiche del grande artista bolognese, geniale e rivoluzionario.

INTERVISTA – “Da questa parte del mare”, l’ultimo regalo di Gianmaria Testa: a La Controra di Musicultura, Giuseppe Battiston ricorda lo chansonnier piemontese

«Sono molto felice di essere qui con voi. Per lui. Con lui»: sono queste le uniche, semplici, ma intense parole con cui Giuseppe Battiston ha presentato il reading del libro Da questa parte del mare, l’ultimo regalo di Gianmaria Testa. Non ha voluto aggiungere altro, lasciando spazio alla lettura dei pensieri che il cantautore piemontese ha regalato nella sua opera letteraria.

L’attore friulano ha pensato ad un’introduzione essenziale, “senza far rumore”, discreta così come lo era il suo amico Gianmaria che, nell’arco della sua carriera, ha lasciato, con delicatezza, la sua impronta nella musica d’autore, partendo proprio dal palco del Premio Città di Recanati. In occasione de La Controra di Musicultura, Giuseppe Battiston ha voluto ricordare la voce e le parole di Gianmaria Testa, con l’intento di farlo rivivere nella memoria di un pubblico che lo ha da sempre amato. Un compito importante, di cui lo chansonnier piemontese ne sarebbe stato orgoglioso, felice.

All’evento, che si è svolto nel cortile di Palazzo Conventati, hanno partecipato il Patron di Musicultura Piero Cesanelli, il giornalista e conduttore radiofonico John Vignola, e la moglie – nonché manager di Gianmaria Testa – Paola Farinetti che, in conclusione del suo intervento, si è rivolta, emozionata, al pubblico di Musicultura e, con l’affetto di madre, a suo figlio: «Come afferma un famoso proverbio, “nella vita, per essere uomo, bisogna fare tre cose: avere un bambino, scrivere un libro e piantare un albero”. Beh, Gianmaria ha avuto ben tre figli, ha scritto un libro e di alberi ne ha piantati molti, le cui radici sono forti, ed io le sento». Ed una di queste radici affonda nel terreno di Musicultura: un terreno sul quale Battiston, lo scorso pomeriggio, ha letto con e per il suo amico Gianmaria Da questa parte del mare, tenendosi stretto all’albero della loro amicizia. Ai rami forti e deboli.

Giuseppe Battiston vanta illustri collaborazioni in campo cinematografico e teatrale. Proprio il teatro, infatti, è stato da subito il suo trampolino di lancio, inaugurando un percorso sempre più in ascesa: nel 1986 ha vinto il premio UBU come miglior attore non protagonista per la rappresentazione Petito Strenge e pochi anni dopo, sul palcoscenico di un teatro, è stato notato dal regista Silvio Soldini, che lo ha scritturato per Un’anima divisaPane e tulipani, Chiedimi se sono felice, Agata e la tempesta, L’uomo perfetto,  Apnea, Amore, bugie e calcetto, Figli delle stelle, Bar sport e, l’ultimo, Perfetti sconosciuti, per la regia di Paolo Genovese: questi sono solo alcuni tra i film in cui l’attore ha recitato e che lo hanno reso noto ai più, ma – considerata la sua anima da sperimentatore artistico – si potrebbero ricordare molte altre interpretazioni.

Lungo il suo percorso artistico, ad un certo punto, ha avuto il piacere di conoscere e lavorare con Gianmaria Testa, con il quale sono nate un’amicizia e collaborazioni in ambito teatrale.

Ci siamo conosciuti un po’ di anni fa in una chiesa di Bari. Lui venne a suonare accompagnato da Erri De Luca. Dopo quel primo incontro, ci siamo visti più volte ed abbiamo iniziato a frequentarci. Dalla sintonia umana è nato il desiderio di fare qualcosa insieme e così abbiamo lavorato a due spettacoli, “18 mila giorni – Il pitone” e “Italy”. Probabilmente ne avremmo fatti anche altri. Sarebbe stato molto bello!

Sarebbe interessante poter ricordare Gianmaria con un verso di una sua canzone, un aneddoto oppure un ricordo che la lega al cantautore.

Di aneddoti ne ho tanti, ma sono un po’ intimi. Ho il ricordo di esperienze bellissime, con Gian: facevamo lunghi viaggi in macchina. I nostri progetti nascevano dalle riflessioni sul mondo. Una caratteristica era il suo essere solitario, ma anche una persona sempre connessa al mondo e a tutto ciò che succedeva. Le sue canzoni sono le testimonianze più forti di questo suo impegno e della sua presenza sempre molto discreta, che io considero una virtù enorme. Ecco, appunto, ricordo la grande discrezione che caratterizzava Gian, a livello umano, artistico, professionale, che poi si sente nel modo in cui canta, si vede nelle sue fotografie, come è ben evidente nella mostra che Musicultura ha allestito per omaggiarlo. Gian era una persona che diceva il suo pensiero senza gridarlo: questa è una grande lezione.

Una finalità, nonché speranza, tra le tante, di Da questa parte del mare, potrebbe essere quello di far conoscere i valori intellettuali ed emotivi di testi, così da poterli restituire, al pubblico, vivi e da vivere. È un grande compito il suo, dunque: quali sono state le prime riflessioni scaturite dalle iniziali letture e ascolti di Gianmaria Testa?

Preferisco ricordare Gian proprio con le sue parole. Nel libro Da questa parte del mare ho ritrovato molte cose che ci siamo raccontati nel corso degli anni: il suo impegno, il suo sguardo, da come partisse dal suo piccolissimo mondo della campagna cuneese e come quel mondo, appunto, fosse un pretesto per guardare tutti gli altri con gli stessi occhi. Ha iniziato scrivendo sugli extracomunitari per arrivare alla famiglia. In Da questa parte del mare ci sono i viaggi, i ricordi, il tempo che passa, le cose che cambiano.

Molti artisti che partecipano al Festival di Musicultura considerano Gianmaria Testa come punto di riferimento artistico. E lei, quale attore ha considerato preponderante nella sua formazione? In altri termini, chi era il suo “idolo”?

In realtà non avevo punti di riferimento, ma solo voglia di fare, di crescere a livello artistico. Di certo ci son stati grandi attori che mi affascinavano moltissimo, quelli con cui poi ho lavorato. Venivo da Udine e non ero stato molto a contatto con teatro di “un certo tipo”. Andai a vedere uno spettacolo di Santagata  e Morganti e rimasi folgorato dal loro mondo. Ho avuto la fortuna di lavorare prima con Morganti, poi con Santagata, con cui ho fatto una lunghissima parte del mio percorso teatrale. Non sono miti, certo: proprio come Gianmaria era una figura discreta e di certo non era Jimi Hendrix, così Santagata non è Strehler, ma comunque un artista che ha costruito il suo percorso in maniera autorale, ed è questa la lezione più importante che mi ha trasmesso.

INTERVISTA – Sulla scia del Blues, nel grande fiume della musica, con l’armonica di Fabio Treves: intervista al “Puma di Lambrate”

Si apre la settimana de La Controra di Musicultura, per la prima volta al suono della “musica del diavolo”, il blues della Treves Blues Band. Alla guida della band, l’armonicista Fabio Treves, meglio noto come “il Puma di Lambrate”, in assonanza con il soprannome “Leone di Manchester” del musicista britannico John Mayall.

Così Fabio Treves racconta alla redazione di “Sciuscià” il suo viaggio all’interno della musica e del blues: dal palco condiviso con Frank Zappa, passando per il Festival di Memphis nel Tennessee, sino al prossimo 16 luglio, quando la Treves Blues Band sarà opening-act del concerto del “Boss” Bruce Springsteen. Un viaggio dal quale Fabio Treves ancora non ha fatto ritorno.

Come Fabio Treves spiegherebbe cos’è il Blues ad un ragazzo nato nel 2000? Come lo si vive?

Oltre ad essere un genere musicale popolare, oltre ad essere la musica fonte da cui poi sono nati altri importanti generi, a mio avviso il Blues è anche una filosofia di vita, uno stato mentale, il sottofondo musicale della nostra vita, con i suoi innumerevoli stati d’animo e le situazioni comuni a tutto il genere umano. Grazie anche alle commistioni artistiche e di stili che si sono incontrati, il Blues è diventato un vero e proprio linguaggio universale. I canti dei neri che arrivavano dalle coste occidentali dell’Africa hanno dato vita ai primi blues cantati, poi hanno incontrato la musica che arrivava dal vecchio continente e poi si sono sviluppati in stili diversi nei vari stati americani. Poi è arrivato in Europa…e ha rifatto il giro del mondo. Il Blues è la musica più libera che esista, chiunque lo può vivere, cantare ed interpretare come vuole. Non c’è un solo genere Blues, ne esistono decine e centinaia di stili ed elaborazioni diverse. È un luogo comune che il Blues evochi solo uno stato di tristezza. Il Blues è anche sinonimo di divertimento, aggregazione, solidarietà, amicizia, passione, erotismo e chissà quante altre cose ancora…

Negli Stati Uniti il Blues, nelle sue molteplici sfaccettature, è uno dei generi musicali per eccellenza che si è fatto carico dei problemi sociali e degli ultimi della società, raccontando storie e viaggi, entrando nelle carceri e nei bordelli. Tematiche che in Italia sono state particolarmente care al cantautorato e alla musica popolare. Quanto crede sia importante la funzione sociale della musica, intesa come portatrice di messaggi?

Io penso che ci sia ancora bisogno di impegno civile nel nostro Paese e che la musica e i musicisti possano fare molto… Fermo restando che il Blues è la musica che ha avuto origine nella “terra madre Africa” e dai canti degli schiavi di colore che lavoravano nelle piantagioni di diverse zone degli Stati Uniti d’America, è vero che con gli anni, come forma di espressione artistica e di comunicazione, ha interpretato e parlato di stati d’animo che tutti conoscono: amore, passione, incontro, viaggio, riscatto sociale, rapporti turbolenti, protesta politica, rispetto per l’ambiente… E quindi credo che si possa dare una funzione sociale al Blues in tanti modi: scrivendo un bel libro che parla dei primordi del blues, scattando fotografie ai tanti concerti sparsi in tutto il mondo, suonando i classici del Delta Blues o quelli elettrici del Chicago style, incidendo dischi con testi che parlano di riscatto sociale, pace, sogni e utopie. Viverlo con passione e coerenza, anche senza necessariamente suonare uno strumento… Perché il Blues non è patrimonio di pochi. Il Blues è la vita stessa, con i suoi momenti di sconforto, di dolore, di disagio sociale ed economico. Ma è anche fatto di momenti unici e irripetibili, di amore, di incontri, di empatia, di sesso, di amicizie profonde, di solidarietà, di impegno civico ed ambientale… La musica della Treves Blues Band non ha mai raccontato di sogni o utopie, non è mai stata “impegnata” … È la mia storia personale che racconta il mio impegno coerente per tante nobili cause. Mille battaglie tutte volte a migliorare la qualità della vita e dell’ambiente, tanti concerti a favore dei diritti civili, o per non dimenticare le infamie del passato, o tenuti laddove la sofferenza viene vissuta in prima persona da persone sfortunate…o per dare un senso alla vita di tutti i giorni! L’alleato più forte dell’ingiustizia è il disinteresse, e anche contro quello bisogna far sentire la propria voce o la propria musica.

Una vita vissuta al fianco di musicisti internazionali e nazionali, del calibro di Chuck Leavell, Frank Zappa, Eugenio Finardi, Elio e le Storie Tese, Angelo Branduardi e molti altri. Le andrebbe di raccontarci un aneddoto legato, direttamente o indirettamente, ad una di queste figure?

Sicuramente un incontro che mi ha veramente emozionato e segnato è stato quello con il leggendario “Genio di Baltimora”: Frank Zappa. Era il 1988 ed ebbi la fortuna e l’onore di conoscerlo, di frequentarlo ed anche di calcare il palco con lui in due occasioni, a Milano e a Genova. Ancora oggi quando riascolto la registrazione di quella sera e sento lui, con quella sua profonda e caratteristica voce, che mi presenta… mi emoziono! Penso a quanto fosse avanti artisticamente, a quanta influenza abbia avuto la sua musica su milioni di giovani, a quanto fossero dissacranti, innovativi ed unici i suoi testi, mai banali, mai omologati, mai servi del potere!  Ho ancora vivido il ricordo del suo sguardo magnetico che sembrava entrare dentro di me, e della sua risata che aveva una tonalità così profonda e particolare. Che brividi mi dava Frank! Che grande fortuna averlo conosciuto ed avere ascoltato le sue sagge parole!

Delle molteplici esperienze musicali che ha avuto, ce n’è una che l’ha segnata particolarmente? E, se sì, perché?

Credo che la partecipazione con la mia Treves Blues Band al Festival Blues di Memphis, Tennessee, nel 1992 sia stata un episodio davvero entusiasmante. Eravamo nella patria del Blues, nella città delle grandi leggende del Blues, nella città famosa per i suoi mitici studi di registrazione. Condividere il palco ed il backstage con artisti che conoscevamo di fama, attraverso i loro successi discografici, quasi ci intimoriva e tutto sembrava un vero sogno ad occhi aperti! Il pubblico ci applaudì e ricevemmo tanti complimenti dagli organizzatori… In quell’occasione io capii che se suoni il blues con umiltà e rispetto verso la tradizione nera sei sulla strada giusta. Il BLUES è la musica origine ma con gli anni è diventato un vero e proprio linguaggio universale, una cultura che unisce, un modo di vivere i rapporti con il prossimo, un mezzo per condividere valori umani profondi…

Il prossimo 16 luglio, al Circo Massimo di Roma, la Treves Blues Band aprirà il concerto di Bruce Springsteen “The Boss”.  Cosa rappresenta questa data per Fabio Treves? Un punto di arrivo o un altro importante momento del viaggio che sta facendo da oltre quarant’anni all’interno del Blues?

Suonare a Roma prima del “Boss” è qualcosa che ancora non sono riuscito a metabolizzare. Sono stordito, commosso e felice allo stesso tempo. È un altro grande sogno che si avvera. Se mi avessero detto quaranta anni fa che avrei calcato lo stesso palco mi sarei messo a ridere. Bruce è un mio idolo. È uno dei più attenti cultori della tradizione musicale nordamericana e il suo rispetto per la musica origine è vera e profonda. Ha saputo portare il Rock alla dimensione più alta nel corso di quasi mezzo secolo, e la sua coerenza artistica in quasi cinquanta anni di carriera dovrebbe essere un esempio per tanti giovani, soprattutto per quelli che credono di aver toccato il cielo con un dito solo perché sono andati in televisione a scimmiottare i big. Vivrò il 16 luglio e questa esperienza come un altro prezioso momento della mia vita di musicista e bluesman. Ho sessantasette anni, ma sento che il mio viaggio iniziato quaranta anni fa non è ancora finito…

INTERVISTA – Roberto Gervaso, voce fuori dal coro e cinico onesto del giornalismo italiano, a La Controra di Musicultura

Una graffiante intelligenza, un distacco dalle tesi precostituite unito ad una radicale idiosincrasia nei confronti del “politicamente corretto” e di ogni forma di buonismo. Il tutto espresso con coinvolgente ironia. Sono questi i tratti distintivi di uno tra i più autorevoli esponenti del nostro giornalismo contemporaneo: Roberto Gervaso, un “animale raro” per la sua perenne lontananza dalle conventicole intellettuali sempre pronte a schierarsi dalla parte dei vincitori.

Quasi un “antitaliano”, come il suo mentore Indro Montanelli, che lo volle, giovanissimo, al “Corriere della Sera”. Sono passati gli anni: nel 2017 ne compirà 80, ma Gervaso, che continua a menare fendenti ben assestati all’indirizzo di vecchi e nuovi “capi e capetti” della politica italiana, rimane quello di sempre. Non si è affatto addolcito. Le sue analisi degli italici costumi, delle storture di un Paese sotto certi aspetti sempre uguale a se stesso, rimangono istruttivamente spietate.

Lo abbiamo incontrato nell’Aula Magna dell’Università di Macerata, dove è arrivato in occasione dell’inaugurazione della settimana de La Controra: qui, insieme ad Ennio Cavalli, ha parlato della sua più recente avventura letteraria, La vita è troppo bella per viverla in due,pubblicata nel 2015 da Mondadori.

Scrivendo il suo ultimo libro, La vita è troppo bella per viverla in due – Breve corso di educazione civica, quale tipo di messaggio ha voluto lanciare? Ha pensato ad un destinatario ideale?

Il lettore è il mio unico destinatario, scrivo per i lettori. È difficilissimo scrivere facile e chi scrive in modo difficile, o è un “somaro” o un impostore. Non è affatto agevole conquistare un lettore; non ci vuole nulla, invece, a perderlo. Può capitare che una donna che ti ha lasciato torni da te, scordati invece di riconquistare un lettore che si sente tradito da te: non lo riprendi più.

In più di un’occasione lei si è definito un cinico. Del cinismo fa un elogio, ma nel linguaggio corrente il termine in questione ha assunto prevalentemente un’accezione negativa. Rispetto a ciò, lei da sempre va in controtendenza.

Bisogna distinguere tra cinismo buono e cinismo cattivo. Io credo di essere un cinico onesto, nel senso che sono un realista, che descrive le cose come sono, senza infingimenti, senza sconti. Il cinico cattivo è colui che usa il cinismo per colpire perfidamente le persone alle spalle. Il cinismo, se esercitato in un certo modo, non è altro che una forma di difesa dalla durezza della vita. Credo che il cinismo sia anche una forma di estremo disincanto, il disincanto di chi sa ridere di se stesso ed evita di prendersi troppo sul serio.

«Gli italiani non si dividono in furbi e in fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi». Lo diceva Indro Montanelli, che lei conosceva molto bene. Ho sempre pensato che vi accomunasse una radicale idiosincrasia nei confronti di ciò che ora viene definito “politicamente corretto” e di ogni forma di buonismo nella rappresentazione della realtà. Cosa ha significato per lei, nella sua lunga carriera, rimanere “fuori dal coro”?

In realtà quella frase, da molti attribuita a Montanelli, era di Prezzolini. In ogni caso il “politicamente corretto” è una enorme impostura, il buonista è un buono andato a male. Parliamo di imbroglioni, di ipocriti che in realtà sono i più cattivi di tutti. Io non ho mai cantato nel coro, semmai ho steccato nel coro. Non ho mai belato nel gregge. Mai stato un conformista – e ringrazio i miei genitori per avermi fatto così. Gli italiani, invece, preferiscono avere torto in molti, piuttosto che avere ragione in pochi. Sono un popolo di trasformisti ed opportunisti, perché non hanno mai avuto uno Stato, e lo Stato unitario è stato voluto da una esigua minoranza, ventimila persone – in massima parte piemontesi – che hanno fatto ciò che hanno fatto sulle spalle di trenta milioni di donne e uomini, l’ottanta per cento delle quali analfabeti.

Cos’è l’Italia di oggi?

È un immenso manicomio, un “Circo Barnum”, un luna park, un bordello vero e proprio. Purtroppo non c’è nessuna brava maitresse a guidare questo sconquassato postribolo. Mussolini è stato una “buona maitresse” fino alla metà degli anni Trenta, perché sapeva come guidare un popolo dedito al meretricio morale, almeno fino a quando non ha cominciato a dare i numeri. Adesso, invece, siamo governati da un grandissimo venditore di fumo, un mix di Giamburrasca, Capitan Fracassa, Dottor Stranamore e Barone di Münchhausen, uno specialista del gioco delle tre carte. Un uomo solo al comando va bene se si chiama Stalin, Churchill, Mussolini, Mao o Fidel Castro, non se si chiama Renzi e finora ha governato solo una città di 350mila anime.

Gervaso, quanto l’ha aiutata nella sua vita coltivare dubbi?

Non so quanto mi abbia aiutato, ma so che mi ha aiutato a chiedermi chi sono.

INTERVISTA – La Controra si apre con un viaggio nella musica “skanzonata” di Roberto Manfredi

Da Petrolini a Caparezza, passando per Arbore, Jannacci, Gaber, gli Skiantos e molti altri: Roberto Manfredi, in uno dei primi appuntamenti de La Controra di Musicultura, parla di Skan-zo-na-ta, un libro che racconta la storia della musica umoristica e satirica italiana. Ricco di aneddoti e interviste, Skan-zo-na-ta descrive la nascita e le evoluzioni di questo particolare genere musicale e dei suoi personaggi.

Il suo è uno dei pochi, se non l’unico libro dedicato alla storia della canzone satirica italiana. Come e dove nasce l’idea di scrivere un libro sulla musica “skanzonata”?

L’idea del libro è nata principalmente per tre motivi: in primis per scrivere. Da anni faccio l’autore televisivo, ma in quest’ambiente ormai non si scrive più. Non esistono più i copioni, ma solo i format stranieri e le scalette. Per questo, chi fa il mio mestiere e vuole esercitare la nobile arte dello scrivere, può farlo solo attraverso un libro. Il secondo motivo viene direttamente dal mio mestiere: essendo un discografico, ho lavorato a stretto contatto con tantissimi artisti del calibro di Jannacci, Gaber e Benigni, per cui è stato quasi “naturale” scrivere, anche perché fa tutto parte della mia vita. Il terzo e ultimo motivo consiste nel fatto che non è mai stato scritto un libro sulla storia della canzone satirica italiana, nonostante il suo sterminato repertorio.

Quali sono, secondo lei, le caratteristiche peculiari che deve avere un testo musicale per essere veramente satirico? Può farci degli esempi?

Deve far ridere ma, soprattutto, deve avere un’aderenza alla realtà. Come mi diceva Dario Fo, lo scherzo e la burla hanno un limite e, se non sono connotati nella realtà, diventano come la famosa barzelletta sui carabinieri: fa ridere, sì, ma resta una cosa molto banale. Si possono anche cantare brani surreali, ma devono aderire al reale e, perché no?, essere anche attuali. Faccio un esempio: La gallina di Cochi e Renato è profetica, se possiamo considerarla tale, perché, a distanza di tanti anni, abbiamo visto che una gallina, l’animale “non intelligente” per eccellenza, recita insieme a Banderas e crede di saper fare i biscotti (ride, n.d.r.) Anche Vengo anch’io, no tu no di Jannacci, possiamo ricondurla nel significato ai cambi di casacca dei politici. Peccato che oggi dicano tutti “si tu si, vieni anche tu!”. Il segreto, dunque, è restare sull’attualità, far ridere ed avere un tema in cui ci si può identificare. Prima i cantautori scrivevano di personaggi della società: erano reali. Ora sembra che non ci sia più questo interesse. Possiamo dire di assistere ad un “declino” di fantasia e creatività. I temi delle canzoni sono diventati, a mio parere, troppo monotoni. Il tema onnipresente è l’amore, che è diventato abbastanza noioso.

I cantautori sono stati spesso vittime di censura. Crede che questo abbia giovato alla trasmissione del messaggio satirico contenuto in ogni canzone?

Sicuramente! È quasi una conseguenza. Spesso la censura ha aiutato, anche perché era fatta per sbaglio. Ti faccio un altro esempio: Cochi e Renato, nel famoso sketch sulla scuola, avevano una battuta che fece scalpore. Pozzetto diceva: «Bambini portatemi per domani una banconota da 50mila lire che poi faccio la fotocopia e mi tengo l’originale. Bravo, bravo: 7+». Il Ministero dell’istruzione scrisse alla Rai dicendo che questa era una battuta di istigazione alla corruzione e alla delinquenza. Dunque la Rai censurò lo sketch, ma ben dodici puntate dopo, quando tutta l’Italia ormai diceva «Bravo, bravo 7+». Partendo dal presupposto che la censura è sempre sbagliata, è vero però che ha aiutato molto nella trasmissione del messaggio e ha creato successo, anche non voluto.

La satira è, da sempre, il pane quotidiano di comici e di molti artisti, ed è nutrita da personaggi forti e “sopra le righe”. Visti i tempi “comici” che stiamo vivendo, soprattutto in politica e nel mondo dello spettacolo, direi che coloro che fanno satira hanno a disposizione molto materiale su cui lavorare. Oggi la satira passa per altre vie: mi riferisco ad esempio al rap o ai programmi di Crozza. Cosa pensa di queste nuove forme e della satira moderna in generale?

Della musica rap devo dire che, anche grazie a Caparezza, è diventata una buona via per fare satira visto che, a mio avviso, non si può rappare sull’amore, perché non funziona. In televisione il limite è costituito dalla satira politica e Crozza in questo è un maestro: fare la parodia di personaggi già parodistici di per sé, ad esempio di personalità come Razzi – di cui fa più ridere l’originale. Una volta Paolo Rossi mi disse che era un po’ in crisi col suo lavoro proprio per questo motivo. Prima c’erano il giullare ed il re, ma se il re si metteva a fare il giullare, gli rubava il lavoro. Questo per dire che spesso la realtà supera la fantasia. Secondo me bisognerebbe spostarsi su altri temi, come fanno gli americani: la loro satira riguarda gli stili di vita, le abitudini quotidiane. Certo, fare satira su Donald Trump è troppo facile: basta guardargli il ciuffo (ride, n.d.r.).

Se dovesse riassumere tutta la storia della canzone umoristica italiana, e dunque il suo libro, in una parola sola o in un nome, quale sarebbe?

Essenzialità, perché ci vuole sempre!